Foto di Valerio Raffaele
Viaggiare è tanto affascinante quanto faticoso, amava dire Ryszard Kapuscinski. 1) Tocco con mano le parole del grande reporter polacco quando alle cinque del mattino suona la sveglia del telefonino. Gli spifferi di freddo filtrati dalla finestra dietro il letto della pur accogliente camera dell’Ukraina, qui a Slovians’k, hanno soffiato per tutta la notte insinuandosi tra le lenzuola. Mi risveglio con tanto di brividi, mal d’ossa, febbre e una sete da lupi. Fuori è buio pesto, la tentazione di ributtarmi sotto le coperte a oltranza è forte. Per di più gli strascichi dei bagordi dell’altra sera all’Absolute Cafè si fanno ancora sentire. Raduno d’istinto tutti i miei fagotti prima che la vocina che mi dice di riaddormentarmi abbia il sopravvento. Prolungare la sosta a Slovians’k per riprendere le forze significherebbe passare l’intera giornata in un letargo solitario nel grande albergo silenzioso dove sono l’unico ospite. Un’opzione da film Shining al momento allettante, vista la fatica fatta per tirarmi dritto, della quale però mi pentirei seduta stante a mattinata inoltrata. Inghiotto così una compressa antinfluenzale e imbracciato lo zaino esco dalla camera chiudendomi la porta alle spalle. Al piano terra il tipo della reception è già incollato al suo posto dietro il bancone con la solita imperturbabile espressione di sorniona pacificità stampata sulla faccia.
“Esco per correre e mi colpisce anche qui il solito rito mattutino delle digiurnaje che, con dei cenci sporchissimi, inzuppati in una brodaglia nera, ‘puliscono’ i pavimenti con fatica e disattenzione…”. A vedere la burrosa dezhurnaya bionda alle prese con la pulizia delle scale munita di stracci, spazzolone e un secchio di plastica pieno d’acqua e di detersivo, mi viene da scomodare un altro grande del giornalismo. L’inappuntabile descrizione delle mitiche donnone delle pulizie degli alberghi ex sovietici che fa Tiziano Terzani in Buonanotte Signor Lenin è più che mai attuale. L’addetta al piano di qui sembra avere anche la stessa espressione distratta. Rispetto a quelle che incontrò lo scrittore fiorentino in un albergo di Yerevan nell’ottobre del 1991, questa sembra solo un po’ più meticolosa nel lustrare i corrimano argentati delle scale e le piastrelle lucenti del pavimento. Il fascio di luce dei fanali di un’auto che filtra nell’oscurità dalla vetrata dinanzi all’ingresso mi riporta alla dura legge della tabella di viaggio da rispettare. Vitaly, il tassista che mi accompagna alla stazione degli autobus, è un gran chiacchierone. Guida con la musica a palla già alle prime ore dell’alba. A queste latitudini con i tassisti si hanno due possibilità. In quei rari casi in cui se ne incontra uno di poche parole si finisce per rimanere muti fino al luogo di destinazione. Altrimenti per noi italiani il dialogo finisce sempre per seguire lo stesso cliché: “Come ti chiami?”; “Valerio”. “Di dove sei?”; “Italiano”. “Ah italiano!”, detto con enfasi e con un gran sorriso che in genere è illuminato dal riflesso dorato di qualche dente, seguito da un “Ah Italia…”, pronunciato con un tono di voce sognante. E poi: “Adriano Celentano…!”; controreplica: “Toto Cutugno…; lui insiste: “Albano…Romina Power…!”, rigorosamente citati in sequenza, ma con una breve sospensione della voce tra i due nomi, forse per uno strano sentimento di rispetto misto a pudore a seguito del divorzio della coppia. In genere il curioso siparietto finisce con l’italiano di passaggio che, preso da un’improvvisa nostalgia di casa, si immedesima su un palcoscenico: “Felicità… un bicchiere di vino…”, “Lasciatemi cantare…sono un italiano vero…”. Giusto i ritornelli, prima di pagare il conto e salutare, e senza far vedere all’esuberante Vitaly di turno che oltre a quelli non si saprebbe andare oltre. È sorprendente il credito di simpatia che ancora oggi gli italiani riscuotono tra i russi grazie ai grandi successi della musica leggera nostrana d’antan. Grazie a essa riuscii qualche anno fa a superare senza noie ulteriori la delicata frontiera tra Georgia e Abkhazia. Gli occhi di una sospettosa guardia di confine si erano fissati sulla guida che avevo con me, “colpevole” a suo parere di non riportare nel titolo il nome della piccola autoproclamata repubblica caucasica. Sentendomi dire “italiansky”, un suo superiore più anziano che era lì vicino si mise a cantare e a ballare un’insulsa canzoncina anni ‘70, a me totalmente sconosciuta, lasciandomi immediatamente passare senza ulteriori scocciature.
Nel piazzale degli autobus, un vecchio si aggira con fare lento tra i marciapiedi, propinando allo sparuto numero di persone in partenza alcuni salamini che gli penzolano tra le mani e rimanendo incurante di fronte a due cani che nell’annusare i poco invitanti insaccati lo seguono da vicino. Una volta acquistato il biglietto, riesco a raggiungere appena in tempo l’autista della marshrutka diretta a Mariupol’ grazie ai rimbrotti della scorbutica bigliettaia che mi urla di correre prima che quella parta. Per qualche strano motivo la partenza è anticipata di un quarto d’ora rispetto all’orario previsto. A bordo ci sono solo poche persone. Tra un sedile e l’altro gli spazi sono strettissimi. Mi sistemo al primo posto vicino alla porta d’ingresso, quello più comodo per distendere un poco le gambe.
Attraverso la terra di nessuno
Il tragitto che stiamo per iniziare è tutt’altro che scontato. Mariupol’ dista oltre duecento chilometri ed è collegata a Slovians’k da una comoda autostrada. Tenendo conto delle fermate e della limitata velocità di crociera del nostro trabiccolo, in condizioni normali dovrebbero servire tra le quattro e le cinque ore. Il fatto è che a metà strada circa si trova Donets’k, la città martoriata dalla guerra attualmente in mano ai ribelli filorussi. E da lì bisogna passare. Perché nel bel mezzo di una fragile tregua la vita delle persone va avanti come se fosse tutto normale. Analogamente a tanti scoiattoli che saltellano veloci tra l’erba alta della foresta per sfuggire ai loro predatori arrampicandosi al sicuro sugli alberi più vicini, così la gente comune passa da un fronte all’altro spostandosi furtivamente nel sottobosco della guerra, rischiando in continuazione la propria incolumità. Restano i dubbi su come avverrà questa pericolosa traversata. Dovremo cambiare minibus una volta entrati nelle zone controllate dai separatisti? Oppure attraverseremo solo i territori sotto l’effettivo controllo dello stato ucraino? E l’autostrada sarà totalmente percorribile?
Gli interrogativi restano mentre Vassili, l’autista, ingrana le marce macinando i primi chilometri al chiarore di un mattino che si apre sotto una fitta nevicata. Lasciata Slovians’k, il primo centro che si incontra poco distante in direzione sud è Kramators’k. All’ingresso in città vi sono ancora barricate poste sulla carreggiata. A differenza di qualche mese fa, sono solo un po’ più basse e sopra di esse sventolano seminascoste dalla foschia le bandiere bicolori giallo-azzurre dell’Ucraina. I varchi che le separano non sono più sorvegliati da giovani incappucciati dall’aria arrogante, con tanto di manganello infilato nella cintola dei pantaloni, bensì da militari ucraini armati di mitra. Quando raggiungiamo Kostiantinivka, la gran parte dei passeggeri scende. Alla ripartenza siamo praticamente al completo. Imbocchiamo di nuovo l’autostrada in una bufera di neve e vento. La carreggiata opposta alla nostra è deserta. Da Donets’k non arriva nessuno. Il motivo è chiaro dopo qualche minuto. Poco oltre Kostiantinivka, Vassili vira a destra in corrispondenza di un’uscita priva di qualsiasi indicazione. Percorso qualche metro, la marshrutka bianca che ci precede si blocca improvvisamente davanti a noi. Freniamo di colpo rimanendo fermi qualche secondo. Poi il nostro autista ingrana la retromarcia ritornando sui suoi passi seguito subito dopo dall’altro veicolo. Abbiamo sbagliato strada. Orientarsi è difficile, i campi imbiancati sono tutti uguali e distinguere le strade imboccando la diramazione giusta è un’impresa non da poco. Proseguiamo di nuovo per qualche chilometro sull’autostrada per poi svoltare di nuovo a destra. Questa volta la deviazione sembra essere giusta. Ci allontaniamo definitivamente dalla disastrata Horlivka situata appena un po’ più a est. Da qui in poi si procede lungo strade secondarie. L’autostrada interrotta si perde in lontananza inghiottita dalla nebbia. Chiunque si trovasse a percorrerla sarebbe un bersaglio facile da colpire tra i fuochi incrociati.
Ci infiliamo in un infinito labirinto di villaggi senza nome collegati tra loro da una rete di stradicciole disastrate. Dovremmo trovarci a nord-ovest di Donets’k, non lontano dalla cittadina di Dymytrov. La periferia settentrionale del capoluogo del Donbas, al centro nei mesi scorsi di una furiosa battaglia per il controllo dell’aeroporto, si trova ora a una quarantina di chilometri in linea d’aria. A nord, dove passa la linea ferroviaria per Kyiv, e a ovest, dove transitano le vie di comunicazione in direzione di Dnipropetrovs’k, i collegamenti stradali veloci con la città del carbone sono tutti isolati. Qui si stringe la morsa dell’esercito ucraino contro i ribelli. Ecco spiegato il nostro itinerario a zig-zag, percorso senza l’ausilio di alcun navigatore satellitare ma con il solo fiuto di due audaci autisti come unica guida. Ora Vassili sembra più sicuro, si destreggia bene tra le continue deviazioni da prendere. Le rare volte che incrociamo un minibus dalla direzione opposta, egli saluta calorosamente l’altro guidatore alzando la mano sinistra.
Sono quasi le nove quando, raggiunto un tratto più ampio di strada, rallentiamo in corrispondenza di un breve rettilineo in leggera salita. Dai vetri semighiacciati del finestrino si intravede un primo posto di blocco. Vassili abbassa il finestrino e mostra un foglio al militare che imbraccia un’arma. Sulla divisa all’altezza della spalla si vede il lustrino colorato dell’esercito ucraino. L’uomo getta un rapido sguardo indagatore tra i passeggeri e poi fa segno che possiamo ripartire. Poco dopo ecco un secondo check-point. Stavolta le porte malconce del nostro mezzo si spalancano per lasciar salire un militare dal volto paonazzo che ci chiede i passaporti. Anche questo controllo risulta essere piuttosto veloce non riservando alcun intoppo. Procediamo nella nostra avanzata. Il panorama che si vede all’esterno assume sempre più contorni opprimenti. Le isbe si susseguono una dietro l’altra in maniera ossessiva, avvolte dagli scheletri ghiacciati degli alberi. Il paesaggio, offuscato da un tempo infame, sembra contornato da una soffocante atmosfera di guerra che inquina tutta l’aria che si respira. Ora a dominare è l’immaginazione, che impadronendosi della mente rinchiude in un angolo la logica della ragione evaporata in una miriade di suggestioni. Ogni sobbalzo su una buca si trasforma in un violento sussulto scavato da una palla di cannone. Ogni albero spezzato in due è uno stuzzicadenti piegato dalle schegge impazzite di una granata. L’indistinguibile confine grigiastro tra cielo e terra che si vede all’orizzonte è una confusa linea di battaglia, un’invisibile lancia conficcata nel ventre sanguinolento del Donbas. Tra i sedili della marshrutka diretta a Mariupol’, è invece il silenzio la sinfonia che attutisce il battito di tanti cuori in fibrillazione.
Al terzo stop, nei pressi di Novohrodivka, perdiamo di vista il minibus che ci precedeva. Più ci si avvicina a Donets’k, più i controlli si fanno attenti e prolungati. Vedendo il mio passaporto con la scritta “Unione Europea”, il militare di turno mi dice di attendere. Terminati i controlli sui documenti degli altri, scompare con il mio tra i gabbiotti dell’esercito. L’attesa si fa lunga, Vassili spegne il motore. Qualcuno mugugna da dietro a causa della prolungata sosta venendo subito zittito dai richiami dell’autista. Di colpo mi sento addosso gli occhi impazienti dei miei compagni di viaggio. Più passa il tempo, più aumenta la preoccupazione che mi rispediscano da dove sono venuto. Dopo una decina di minuti le porte del mezzo si riaprono. Questa volta mi si presenta davanti un altro militare con la bocca coperta da una spessa sciarpa di lana verde e dei grossi occhiali da neve appoggiati sulla nuca. “Italiano, korrjespondènt?”. “Niet. Gheogràfija, shkòla”. “Fotogràfija?”, indaga lui quasi a rimproverarmi. “Niet, niet”, rispondo di getto. In realtà l’obiettivo è ben nascosto sotto la giacca nera chiusa ermeticamente con la lampo fino al collo. Lungo il percorso ho girato un paio di brevi video “clandestini” delle aree che stiamo attraversando. I miei vicini di posto hanno sicuramente visto. Confido però nella proverbiale riservatezza dei popoli slavi, il cui passato sovietico ha insegnato che in certe situazioni è sempre bene farsi gli affari propri. Infatti nessuno fiata. Per fortuna il militare magro come uno spillo non replica alle mie affermazioni prendendole forse per buone. Continua però a scrutare il mio volto sfogliando in continuazione il passaporto. Sembra indeciso sul da farsi. Poi, con lo sguardo pensieroso e un’aria a dir poco perplessa, scende dai gradini scomparendo dalla mia vista. L’esercito ucraino è certamente al corrente del fatto che gruppi di stranieri, tra i quali alcuni italiani, si sono arruolati nelle file dei separatisti. Il sospetto di trovarsi di fronte a un foreign fighter, e quindi di bloccarmi per degli accertamenti, è piuttosto elevato. Quando già pensavo al modo migliore per sostenere le mie ragioni di fronte a un interrogatorio e l’idea di dover tornare indietro iniziava a balenarmi in testa, ecco ricomparire il soldato smilzo che nel ridarmi il passaporto si congeda da me con un sonoro “arrivederci” scandito a chiare lettere. Un fulmineo moto di felicità mi prende quando realizzo che, superato l’ostacolo, l’avventura può proseguire.
Riavviato il motore e superate con un paio di sterzate le barriere di cemento messe di traverso lungo la strada, siamo di nuovo in marcia. Vassili però sembra irrequieto. Capiamo il perché quando ci blocchiamo in corrispondenza di un bivio al termine di una strada in discesa. Avendo perso contatto con il minibus che ci precedeva, l’uomo è adesso incerto sulla svolta da prendere. Dopo qualche attimo di indecisione una signora bionda seduta dietro ci trae d’impiccio indicando sicura di girare a sinistra.
Man mano che le strade si fanno più ampie, i controlli sono sempre più frequenti. Ormai dovremmo essere a ridosso della linea del fronte. Tra i girasoli appassiti si vedono una serie di tralicci dell’alta tensione piegati in due con i lunghi fili scuri della corrente che si perdono tra la neve. Poco dopo ecco un altro punto di controllo. Il militare che si affaccia all’interno dell’abitacolo dice qualcosa a voce alta. Subito dopo tutti gli uomini si alzano dai loro posti e scendono dal veicolo. Faccio lo stesso. Solo le donne e gli anziani sono rimasti seduti, visto che di bambini in viaggio non ce ne sono. Ci disponiamo in fila a lato del bus, immobili e muti con le mani dietro la schiena, sotto lo sguardo vigile dei militari attenti a confrontare scrupolosamente le foto dei passaporti con i nostri volti. La neve cola dalle nostre teste e dalle giacche, inzuppando d’acqua i vestiti. Di fronte a noi, a un paio di metri, del filo spinato è tirato lungo tutto il lato della strada. Terminati i controlli e dopo l’ok dei militari possiamo ritornare all’asciutto ai nostri posti. Si riparte per l’ennesima volta. Le sagome di alcuni tank corazzati spuntano dal margine della boscaglia. Pochi chilometri e siamo di nuovo costretti a scendere. Ormai si procede a singhiozzo. Un militare con una spilla di Che Guevara appuntata sulla divisa sembra divertito a sfogliare il mio passaporto. Un sorriso sarcastico gli si dipinge in faccia quando si sofferma sulle pagine dove sono incollati i visti russo e bielorusso di un precedente viaggio. Scuote la testa. “Ti piace il Donbas?”, mi chiede in inglese. “Diciamo che è particolare”, rispondo io in maniera evasiva, con la classica espressione di circostanza dipinta in viso. Ai miei toni diplomatici l’uomo replica con un altro sorriso ironico.
Finalmente siamo sulla strada principale. Donets’k ormai è alle porte. L’ultima postazione militare ucraina è imponente. I controlli a bordo sono più prolungati, si guarda anche nei nostri borsoni. Mentre siamo da soli, in attesa e a portiere chiuse, il malumore tra alcune signore è più che mai evidente. Quando il militare ritorna con i documenti, nell’aria serpeggia un marcato sentimento di diffidenza. I miei compagni di viaggio sono tutti russofoni. I controlli minuziosi servono a evitare eventuali infiltrazioni separatiste. Per Kyiv queste misure rientrano in una vasta operazione antiterrorismo in atto in tutto l’est del paese. Guai a parlare di guerra. A livello ufficiale essa non esiste per il governo. Ammetterlo significherebbe del resto riconoscere implicitamente i ribelli come avversari anziché considerarli terroristi.
Siamo nel bel mezzo della terra di nessuno. La striscia d’asfalto corre dritta, tanto lunga da sembrare senza fine. Vassili conosce il rischio che stiamo correndo e pigia veloce sull’acceleratore. Basterebbe l’ordine avventato di qualche folle quanto ambizioso ufficiale guerrafondaio o la deliberata strategia di una delle due parti in lotta di colpire dei civili, per poi dare la colpa all’avversario, per fare una strage di innocenti. Stiamo entrando nel territorio dell’autoproclamata DNR: la Donetskaja Narodnaja Respublika. Incrociamo solo qualche coraggiosa auto che procede spedita nella direzione opposta. Sulla nostra corsia corriamo solitari. Là fuori la nebbia fa da schermo alla nostra perigliosa traversata, rendendoci forse invisibili alle bocche da fuoco che ci circondano e che oggi sembrano tacere. A ogni metro che percorriamo vedo però aprirsi nel mio immaginario tanti occhi neri che ci osservano a destra e a sinistra, lanciandoci occhiate minacciose.
Una decina di chilometri, forse meno, separano l’ultimo baluardo ucraino a ovest di Donets’k e il primo fortino dei separatisti. Che in realtà è una semplice barricata di sassi paracarro neanche troppo alta sulla quale sventola la bandiera rosso-blu a strisce della DNR, con in primo piano l’aquila bicipite russa. Un solo miliziano armato con la barba incolta e i capelli lunghi sulle spalle sorveglia il passaggio. Quando gli transitiamo vicino fa segno con ampi gesti delle braccia di non fermarsi e di proseguire. Pochi minuti dopo stiamo già percorrendo le lunghe prospettive della parte occidentale di Donets’k senza aver subito alcun controllo da parte dei ribelli.
La Donetskaja Narodnaja Respublika
Nei quartieri che attraversiamo la vita sembra scorrere normalmente. Le insegne dei negozi lampeggiano a intermittenza, i centri commerciali sono aperti, i filobus circolano regolarmente. La gente cammina tra i viali alberati mentre alcuni bambini giocano nei parchi con le immancabili slitte di legno. All’angolo di un marciapiede una bancarella vende i gadget della neonata repubblica indipendentista. Un gigantesco cartellone pubblicitario affisso a lato della strada ritrae l’attuale leader dei separatisti Alexander Zacharchenko, eletto presidente della DNR durante le contestate elezioni del novembre scorso, in un’inquietante espressione del volto priva di qualsiasi sorriso e con gli occhi spiritati fuori dalle orbite. In corrispondenza degli attraversamenti pedonali si vedono alcuni miliziani armati con lo sguardo distratto, fermi tra la gente che passa loro vicino incurante di quelle strane presenze.
“Donezk è il cuore del bacino minerario ucraino. In certi quartieri i cumuli di carbone e di detriti stanno addirittura per le strade. La polvere scura si deposita sulle pareti dei chilometrici blocchi d’abitazione tutti uguali, disegnando sulle facciate strisce nerastre, sgorature plumbee, esantemi rugginosi”. Alla fine di agosto del 1991 – gli stessi giorni in cui Terzani iniziava dalla profonda Siberia lo straordinario viaggio che l’avrebbe portato a vedere dal vivo il crollo dell’URSS nella parte asiatica – Kapuscinski curiosava come un uomo qualunque tra le strade di una desolante Donets’k. Alle bancarelle le donne vendevano zoccoli di mucca per fare il brodo della minestra; una folla di persone si scambiava le scarpe appena ritirate cercando di trovare il numero giusto; la stazione ferroviaria era stipata di gente dall’aria sconsolata. Le montagne di scorie minerarie, che ancor oggi si vedono appena fuori della cintura urbana, sono ormai sformate piramidi divenute parte integrante del paesaggio insieme allo skyline dei nuovissimi grattacieli in vetro che prima del conflitto si stagliavano alti in periferia.
I famigerati terrikony di carbone erano già famosi quando nell’ottobre del 1941 il corpo di spedizione italiano in Russia conquistò la città, allora chiamata Stalino per via delle sue acciaierie (stal’ in russo significa acciaio) che sfruttavano gli ingenti giacimenti carboniferi del bacino del Donec. Il 22 giugno di quell’anno Hitler aveva lanciato l’Operazione Barbarossa, la gigantesca invasione dell’URSS il cui fallimento avrebbe segnato le sorti della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale; e Stalino, che si trovava lungo la direzione di marcia della Wehrmacht, fu facilmente occupata dalle divisioni Pasubio, Torino e Celere, le cui avventure terminarono poi sul Don con la tragica ritirata dell’inverno 1942.
La Donets’k che avevo visitato nell’aprile 2014, prima dell’inizio dei combattimenti, sembrava in apparenza avere cambiato volto rispetto a quella di inizio anni ‘90. Le aiuole erano tutte in fiore, perfette nella loro disposizione, con l’erba verdissima curata al millimetro e costantemente irrigata. Nei parchi, pulitissimi, era persino piacevole fermarsi per una sosta sulle panchine. Nelle ore serali le luci degli hotel di lusso e dei locali alla moda trasformavano l’Artyoma, il lunghissimo viale che attraversa il centro città, nella copia un po’ kitsch dello Strip di Las Vegas. Dietro questa ostentata fiera degli eccessi mi parve tuttavia di trovarmi di fronte a quella medesima Donets’k sradicata delle proprie radici, così mirabilmente descritta dall’autore di Imperium. Una città giocattolo fatta a chiazze, riverniciata da pennellate di modernità giusto per nascondere con volgari pezze raffazzonate i malanni di un’anima smarrita nei meandri della storia.
Persino il “mitico” Parco Lenin con il memoriale ai liberatori del Donbas era oscurato da nuovi falsi idoli: le gigantografie dei calciatori dello Shakhtar che campeggiavano sui vetri brillanti della Donbas Arena, il nuovissimo stadio di calcio costruito per volere di Rinat Akhmetov, proprietario del club, di gran lunga uomo più ricco del Paese, nonchè plenipotenziario giocoliere capo di Donets’k e oligarca di professione. Un uomo d’affari dal passato misterioso spuntato fuori dal nulla in un periodo in cui nel Donbas regnavano le gang mafiose. Erano gli anni, a cavallo tra gli ‘80 e i ‘90, in cui le aziende di Stato venivano date in pasto per quattro soldi agli squali legati alla malavita e ai vecchi gerarchi del partito comunista, furbescamente riciclatisi nel nuovo corso politico post-sovietico. Nel giro di pochi anni Akhmetov, nativo di Donets’k, creò un impero con proprietà che oggi spaziano dai media alle miniere, dalla siderurgia alla finanza, dall’agroindustria al petrolio, fino ad arrivare al calcio. Il suo braccio politico, e fino a non molto tempo fa fidato delfino, del quale si è avvalso per costruire una fortuna personale stimata in circa 12,5 miliardi di dollari – un patrimonio che lo colloca stabilmente tra i 100 uomini più ricchi del mondo – è stato un suo losco “compaesano” con un passato da criminale: l’ex presidente Viktor Yanukovich.
Quando lo scorso anno la Donbas Arena venne colpita da un missile, furono in molti a ritenere quell’atto un bellicoso messaggio neanche troppo cifrato da mandare al boss di Donets’k. Contrariamente ad altri oligarchi ucraini, Akhmetov non ha abbracciato immediatamente il nuovo corso che ha preso il potere dopo i fatti di Maidan. È probabile anzi che, dando per scontato che in città non si sarebbe mossa una mosca senza il suo benestare, ci fosse il suo avallo quando iniziarono i primi subbugli e l’assalto ai palazzi pubblici. Quando però vide che, nonostante il pugno duro, il vento politico a Kyiv continuava a soffiargli contro e che per il Donbas, dove possiede la stragrande maggioranza delle sue strutture produttive, si stava pericolosamente avvicinando la burrasca, Akhmetov iniziò a tenere il piede in due scarpe prendendo le distanze dai separatisti e cercando allo stesso tempo di ricucire sottobanco con il neoeletto presidente Poroschenko. A quel punto però la partita a risiko era diventata talmente grande da attirare al tavolo da gioco personaggi più forti ed influenti di lui per i quali i suoi interessi privati potevano aspettare. Con il nuovo governo che ha voltato le spalle alla Russia – e con i conseguenti disegni di destabilizzazione del sud-est dell’Ucraina tracciati da Mosca – l’oligarca più potente del Paese sembra aver temporaneamente abdicato, cadendo volutamente in quell’oblio dal quale era venuto. In attesa forse del treno giusto che possa riportarlo prima o poi sul carro dei vincitori; badando bene, nel frattempo, di tenersi stretto un patrimonio accumulato ammassando tanti scheletri nell’armadio da tenere ben occultati.
Quel che è certo è che oggi il cinquantenne patron di System Capital Management si trova stretto tra l’incudine e il martello. I gioielli del suo dominio (acciaio, miniere di carbone, ferro, meccanica) sono stipati nel Donbas dilaniato dalla guerra. E rompere con il Cremlino sarebbe come suicidarsi, visto che la gran parte della produzione delle sue aziende viene acquistata dalle imprese statali russe. Egli ha inoltre in mano la gestione dell’energia elettrica e dei diritti di sfruttamento di gas e petrolio sul fondo del Mar Nero proprio in quella Crimea annessa lo scorso anno dalla Russia.
Verso il Mar d’Azov
I passeggeri che scendono alla stazione degli autobus scompaiono rapidamente nei quartieri della città. Attraversando Donets’k, speravo di vedere almeno da lontano il palazzo dell’amministrazione, occupato dai separatisti, nel quale ero riuscito a entrare mostrando semplicemente il passaporto. La memoria corre ai volti che incontrai in quei giorni: al giovanissimo Dimitri dalla prominente acne giovanile sul viso, che mi accompagnò tra le “stanze del potere”; alla signora con i capelli rossi che preparava da mangiare per i ribelli e mi rimpinzò gentilmente di bruschette e tè; a Irina, il cui cuore batteva per la Russia e che tra le lacrime mi ripeteva che non molto tempo fa da quelle parti si era tutti “soviet”; al vecchio Volodia dal volto scavato, che mostrava orgoglioso un manifesto con la folla festante di una Sebastopoli ritornata alla Grande Madre.
Mentre usciamo dalla città mi viene naturale pensare alla loro sorte e a quella delle altre persone che ho incontrato. Saranno fuggiti in Russia da profughi? Si saranno salvati grazie agli scantinati-bunker costruiti sotto le loro case? O avranno condiviso la tragica sorte dei quasi 6000 morti, in gran parte civili, caduti sotto le bombe? E il giovane Artyom con la faccia da bravo ragazzo sarà rimasto vicino ai genitori in pensione e alla moglie con i figli, o avrà imbracciato il kalashnikov per la causa separatista?
Da quei giorni di protesta, prima spontanea poi fomentata a dovere e strumentalizzata da qualche oscuro burattinaio, di acqua sotto i ponti ne è passata molta. Gli stessi burattinai sono cambiati in continuazione, sostituiti dalla sera alla mattina da altri burattinai sempre più potenti che hanno chiuso in un angolo ogni disinteressata forma di dissidio. Vista da Donets’k, l’Ucraina è un insieme di matrioske che gli spietati faccendieri di questa giostra impazzita hanno messo apposta in un pozzo buio; più ci si infila levando di volta in volta i pezzi più grossi, più diventa vano il tentativo di chiudere il cerchio scovando la matrioska più piccola incastrata in un fondo che sembra non avere mai fine.
Basta percorrere per pochi chilometri l’autostrada che conduce a Mariupol’ per capire qual è il fronte che rischia a breve di incendiarsi. Qui i check-point dei separatisti si susseguono in continuazione, a poca distanza l’uno dall’altro. Anche in questo caso però nessun controllo dei documenti. I filorussi, o le presunte truppe regolari russe travestite da miliziani, fermano tutte le auto prima di farle passare, controllando attentamente le persone a bordo. Ma non i mezzi pubblici come il nostro. Passiamo così una dietro l’altra tutte le barriere poste lungo il percorso, sempre più alte e consistenti man mano che ci avviciniamo alla linea meridionale del fronte. Nel pieno di una tormenta ci ritroviamo rapidamente fuori dalle zone controllate dai ribelli, di nuovo soli in un’altra interminabile terra di nessuno senza alcun segno di anima viva nei paraggi e con pochissime auto in circolazione. Se a nord e a ovest Donets’k è praticamente accerchiata dai governativi, a sud le forze ucraine sono decisamente più distanti. Dopo un periodo di tempo indefinito, Vassili rallenta. Ci fermiamo di fronte a un nutrito drappello di militari che sorveglia un imponente posto di blocco. Sulle loro divise non c’è alcun distintivo di riconoscimento. Il dubbio su chi abbiamo di fronte svanisce quando gli inequivocabili colori di una bandiera giallo-azzurra si stagliano nella fitta nebbia. Stiamo di nuovo oltrepassando le linee di difesa ucraine nei pressi di Volnovakha, al sicuro da eventuali fuochi incrociati. I modi dei militari ucraini di qui sono più spicci. Ora sono loro ad assumere una fastidiosa aria arrogante. Probabilmente non si tratta di truppe regolari, ma di qualche pattuglia di mercenari invasati al soldo di qualche ricco oligarca-burattinaio che ha sposato la causa della “nuova” Ucraina. Dopo i soliti accurati controlli, la strada è finalmente libera. Solo alle porte di Mariupol’ passiamo un altro paio di posti di blocco dove le guardie ci fanno velocemente sfilare via.
“Non farti vedere in giro con quella, nascondila bene”; è il cordiale monito di Vassili quando, poco prima di scendere, mi vede fotografare dal mio sedile il malandato palazzo di cemento del municipio, annerito ai piani alti da un incendio. Grazie alle indicazioni di qualche passante trovo una sistemazione all’hotel Reikartz, una recentissima struttura colorata di proprietà tedesca che sembra fatta di lego, non lontano dal centro. Una volta in camera, dopo oltre sette ore di viaggio trascorsi in una sorta di totale apnea, mi ricordo di tirare un respiro. In compenso la febbre è scomparsa, sciolta in un vortice di alta tensione. Come la neve, che qui a Mariupol’ ha lasciato spazio a una leggera pioggerellina sottile dal sapore liberatorio. Anche la nebbia si è dissolta, spazzata via dalle gelide folate di vento che spirano sul Mar d’Azov.
N O T E
1) Nel suo libro Imperium, pubblicato nel 1993, il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski racconta dettagliatamente la disintegrazione dell’URSS [NdR].