Nelle estreme propaggini del continente sudamericano, in pieno emisfero australe, in un’ampia fetta di spazio tra il Cile centro-meridionale e l’Argentina meridionale, è posizionato il territorio originario di un antico popolo amerindo, i mapuche. Il nome significa “popolo della terra” nella loro lingua madre, il mapudungun, dalla combinazione della parole che, “popolo”, e mapu, ”terra”. E già il nome suggerisce quanto questo gruppo umano sia fortemente legato alle proprie radici e ai propri luoghi ancestrali, tanto da rendersi protagonista nei secoli di una strenua difesa della regione contro l’impero inca prima e i conquistadores spagnoli dopo, per soccombere solamente nel corso del XIX secolo al neonato governo cileno, con cui fu siglato un trattato che segnava l’annessione del regno mapuche al nuovo Stato.
Questo assoggettamento comportò il dominio di fatto del Cile sui mapuche e l’inizio della loro inevitabile decimazione, portandoli da mezzo milione a 25.000 nel giro di una sola generazione. Attualmente i discendenti dei sopravvissuti vivono sempre tra Cile e Argentina principalmente in Araucania e, in misura minore, in Patagonia, mentre una buona parte di loro ha preferito migrare alla volta dell’area metropolitana di Santiago del Cile in cerca di migliori opportunità lavorative. Secondo le più recenti stime i mapuche dovrebbero attestarsi sul milione e 700mila individui circa, di cui 1 milione e 500mila in Cile e 205mila nella parte argentina. Essi rappresentano inoltre circa l’80% degli indigeni del Cile, il 9% della popolazione complessiva del Paese.
I mapuche, famosi anche per le lavorazioni in argento e i manufatti tessili, nell’area di loro influenza dal fiume Aconcagua alla pampa argentina, hanno da sempre costituito un’etnia variegata composta da gruppi differenti, che condividevano però la medesima struttura e organizzazione sociale, religiosa, economica, così come un’eredità linguistica comune; in caso di guerra tendevano a unirsi in entità più estese, dimostrando notevole compattezza e uno spirito combattivo non indifferente.
Queste caratteristiche sono perdurate fino ai giorni nostri, tanto che negli ultimi decenni i leader di molte comunità mapuche sono coinvolti nel cosiddetto “conflitto mapuche” per le legittime rivendicazioni dei loro diritti sulle terre ancestrali e sul riconoscimento dei soprusi e crimini commessi dai governi centrali nei loro confronti. L’obiettivo finale di questi gruppi sarebbe il recupero della piena sovranità sui territori originari dell’etnia attraverso una battaglia pacifica e legale contro i governi cileno e argentino, dai quali vorrebbero essere quantomeno autonomi se non indipendenti.
Denominazioni e possibili origini
Nonostante il termine mapuche abbia un forte significato evocativo e rivesta notevole importanza per gli stessi indigeni, non è l’unica denominazione utilizzata per definirli: i coloni spagnoli li hanno sempre chiamati araucanos (araucani), dal nome della regione cuore del loro territorio; termine che ha però un’accezione negativa, e soprattutto oggi viene considerato peggiorativo se non dispregiativo. Incerta è l’origine della parola che potrebbe derivare, secondo la versione più attendibile, dal nome geografico mapuche ragko (arauco) significante “acqua argillosa”, oppure dalla parola quechua awqa (ribelle, nemico).
Incerta è anche la genesi del popolo mapuche: ritrovamenti archeologici hanno suggerito che questa cultura fosse già presente in Cile tra il 600 e il 500 a.C. Dal punto di vista genetico è provato che differiscono dalle vicine popolazioni autoctone della Patagonia: il dato è stato quindi interpretato come il prodotto di una diversa origine territoriale oppure di un lungo periodo di separazione tra i due gruppi. Anche analizzando la nascita del mapudungun, la lingua mapuche, non è stato possibile stabilire con certezza l’esatta provenienza, anzi si è ipotizzata una parentela con famiglie linguistiche totalmente differenti, senza alcuna prova definitiva che propenda per una precisa ipotesi.
Una teoria sostenuta da Ricardo E. Latcham e ampliata successivamente da Francisco Antonio Encina, supponeva una migrazione dei mapuche dalla pampa sul lato andino orientale verso l’attuale Cile, dove si sarebbero imbattuti presso il fiume Cautìn nella civiltà chincha-diaguita, poi incorporata. A sostegno vi erano prove linguistiche rigettate in seguito dai moderni studiosi. Un’altra ipotesi, elaborata da Tomas Guevara, avanzava l’idea che i primi mapuche si fossero stanziati lungo la costa a causa dell’abbondante presenza di risorse marine e poi si sarebbero spostati all’interno risalendo il corso di ampi fiumi. Secondo Guevara il popolo della terra discenderebbe dai changos del nord, una popolazione costiera poco conosciuta migrata verso sud. Anche in questo vi sarebbero evidenze linguistiche a supporto, con somiglianze tra il mapudungun e un idioma del XIX secolo definito proprio changos.
Nel 2007 si è diffusa un’ulteriore singolare teoria su un possibile contatto tra i mapuche e popolazioni polinesiane del Pacifico occidentale: presso El Arenal nella penisola di Arauco, sito abitato da mapuche, sono state rinvenute ossa di pollo datate al radiocarbonio tra il 1304 e il 1424, ovvero prima dell’arrivo degli spagnoli e della loro introduzione di questi animali. A un primo esame, il dna sembrava lo stesso di quello di una specie di polli viventi nelle attuali Samoa e Tonga, fatto poi seccamente smentito da successivi e più approfonditi esami. Nonostante ciò, l’ipotesi di un collegamento tra mapuche e gruppi polinesiani è stata riproposta da altri scienziati in seguito al ritrovamento di teschi umani dai tratti polinesiani sull’Isola Mocha, situata a poca distanza dalla costa cilena nella provincia di Arauco e abitata anche da mapuche. Tuttavia, l’impegno degli studiosi non ha ancora prodotto prove reali di un contatto mapuche-polinesiano prima dell’arrivo dei coloni.
L’esatta origine geografica di queste genti risulta dunque nebulosa, anche se è assolutamente da circoscrivere all’interno della grande area comprendente l’insieme dei territori ancestrali mapuche, tra il Cile centro-meridionale e l’Argentina sud-occidentale, tanto da poterli ritenere a tutti gli effetti nativi del Sudamerica.
Epoca precolombiana: l’influenza incaica
In età precoloniale gli inca, con il loro vasto e organizzato impero, furono gli indiscussi dominatori dell’area costiera pacifica del continente sudamericano: e qui le prove si trovano – e certe – del diretto contatto e scontro tra i mapuche e la nazione inca. È assodato che le truppe dell’impero andino raggiunsero il fiume Maule nell’attuale Cile centro-meridionale, dove si fronteggiarono con i mapuche in una serie di battaglie tra lo stesso Maule e il fiume Maipo più a nord. Da molti storici infatti il Maule viene ritenuto l’estremo confine meridionale dell’impero inca, mentre è assai probabile che essi si siano spinti ancora più a sud, fino al fiume Bio Bio, nel cuore del territorio mapuche.
Il principale motivo che spingeva gli inca verso sud era la ricca presenza di miniere d’oro nella zona mapuche, causa evidente di contesa che spiega i diversi scontri tra le due popolazioni. Tuttavia è anche accertato che gli inca non riuscirono mai ad attraversare il fiume Bio Bio né tanto meno, cosa ancora più importante, ad assoggettare e sottomettere i mapuche, i quali invece opposero una tenace resistenza dimostrandosi validi guerrieri. La presenza incaica nell’area risulta comunque forte ed è testimoniata anche da alcune pitture murali e dalla diffusione linguistica del quechua, ancor oggi parlato in queste terre e vivo grazie anche a numerosi toponimi. I prolungati contatti con gli invasori inca segnarono per i mapuche il primo incontro con una popolazione dotata di un’organizzazione a livello statale, instaurando in loro la consapevolezza collettiva della differenza tra “noi” e gli “altri”. Fino a quel momento, infatti, essi erano organizzati in singoli gruppi o tribù isolate con limitati e sporadici contatti reciproci, senza la minima organizzazione socio-politica statale, privi dell’idea stessa di appartenenza comunitaria, di essere un unico popolo.
Queste guerre, con il rischio di perdere per sempre i territori in cui vivevano da secoli, portò i mapuche ad allearsi in piccole unità claniche per respingere l’avanzata e gli assalti dello straniero, nemico comune. Il successo di questa azione difensiva e l’esempio di società fornito dagli inca contribuirono al formarsi di una prima identità mapuche di gruppo, avviando un percorso di sviluppo associativo, peraltro ancora lontano da un’organizzazione statale vera e propria.
I coloni spagnoli e la Guerra di Arauco
I conquistadores spagnoli, giunti in Sudamerica all’inizio del XVI secolo, iniziarono a interessarsi ai territori cileni intorno al 1536 quando Diego de Almagro condusse una vasta spedizione di oltre cinquecento uomini raggiungendo la Valle dell’Aconcagua. Successivamente inviò Gomez de Alvarado verso sud dove, presso il fiume Itata, avvenne il primo scontro con i mapuche, la battaglia di Reynoguelen. L’inaspettata e tenace resistenza locale costrinse il condottiero a fare ritorno al nord senza aver ottenuto nulla di quanto sperato: né terre né oro.
In quell’epoca, all’arrivo dei primi coloni europei, la quasi totalità della popolazione indigena era concentrata nell’area dal fiume Itata all’Arcipelago di Chiloè, heartland del territorio mapuche, e contava dalle 705.000 alle 900.000 persone. Successivamente un altro conquistador, Pedro de Valdivia, sopraggiunse in Cile dal Cuzco nel 1541 e lo stesso anno fondò la città di Santiago. L’espansione spagnola in Cile è infatti da leggersi come un prolungamento dell’azione che aveva portato all’occupazione e alla conquista del Perù.
Alcune tribù mapuche settentrionali, conosciute come promauces e picunches, provarono a fermare fin da subito l’avanzata europea, ma vennero inizialmente sconfitte dai nemici meglio addestrati ed equipaggiati. Da questo momento in poi si verificheranno una serie di scontri tra mapuche e invasori riconducibili a un più vasto e complesso conflitto, dominato dalle opposte logiche di resistenza e volontà di occupazione e sottomissione, durato per tre secoli durante i quali i mapuche combattendo uniti riuscirono a resistere ai conquistadores, usando il fiume Bio Bio come frontiera naturale, per arrendersi solamente nel corso del XIX secolo. Il conflitto ultrasecolare è stato denominato Guerra di Arauco, in quanto la regione dell’Araucania 1) fu il principale terreno di scontro: una guerra protrattasi per un lunghissimo periodo (più di 350 anni) in cui si è vista l’alternanza di periodi con numerose battaglie sanguinose ad altrettanti con combattimenti sporadici.
Nel 1550 lo stesso Pedro de Valdivia, che aveva assoggettato buona parte del territorio cileno fino allo Stretto di Magellano, riprese la marcia alla conquista del territorio mapuche. Gli spagnoli occuparono parte dell’area fondando diverse città come Concepcion, Valdivia e Imperial, ed eressero numerosi forti ad Arauco, Purèn e Tucapel avanzando verso meridione. L’obiettivo primario era infatti prendere possesso delle vallate a sud del Bio Bio ricche di oro: il progetto aveva lo scopo di assicurarsi lo sfruttamento dei giacimenti auriferi, usando i mapuche, numerosi in quelle zone, come lavoratori schiavizzati una volta conquistati.
Tuttavia i mapuche non erano disposti a diventare servi dei conquistadores nei loro territori ancestrali, così nella seconda metà del secolo organizzarono una resistenza collettiva cingendo d’assedio città e fortificazioni nemiche. Guidati da Caupolicàn e Lautaro, nel 1553 uccisero Pedro de Valdivia nel corso della battaglia di Tucapel sconfiggendo gli spagnoli. Un’epidemia di tifo fermò i mapuche dal tentativo di altre azioni militari fino a quando, quattro anni più tardi, un piccolo contingente, sempre comandato da Lautaro, tentò senza successo di raggiungere Santiago e liberare l’intero Cile centrale dal dominio spagnolo.
Negli anni successivi gli scontri non cessarono mai, ma diminuirono e la guerra si trasformò così nel cosiddetto conflitto a bassa intensità. Nelle prime battaglie contro gli invasori i mapuche riscossero notevoli successi: fin dai tempi degli scontri con gli inca, infatti, essi avevano imparato l’arte di adattarsi al nemico, osservando il modo di combattere e le tecniche altrui e facendole proprie. Così i mapuche non solo cominciarono a servirsi dei cavalli e a calibrare quantità sufficienti di uomini per sconfiggere le truppe dei coloni, ma dagli stessi impararono anche a costruire fortezze difensive sulle colline, a scavare buche e trappole per far cadere i cavalieri spagnoli, a usare elmi e scudi di legno contro gli archibugi. Inoltre perfezionarono la loro arte bellica sviluppando nuove tattiche di guerriglia quali imboscate e agguati.
Come era già successo in occasione del conflitto con l’impero inca, la guerra provocò cambiamenti anche all’interno della sfera socio-politica del gruppo: la pratica adottata da diverse tribù di unirsi in entità più grandi e solide per far fronte ai nemici venne ripristinata e s’intensificò ulteriormente. Venne introdotta la aillarehue, una nuova unità politica su più ampia scala rispetto alle precedenti rehue (insieme di poche tribù). La trasformazione, che perdurò per più di un secolo, testimonia il passaggio a una forma organizzativa maggiormente evoluta, comprovando un grado di solidità militare associativa sovralocale e intertribale dei mapuche, nonostante l’intera popolazione non avesse ancora una strutturazione politica a livello statale.
L’incontro con gli spagnoli provocò significativi mutamenti anche sul piano demografico, e purtroppo il numero dei mapuche iniziò a ridursi drasticamente: le epidemie, le guerre e il lavoro nelle pericolose miniere di alcuni nativi schiavizzati segnarono un primo, considerevole e sintomatico aumento della mortalità indigena. Da qui un ulteriore cambiamento, relativo alla distribuzione della popolazione sul territorio, in quanto i mapuche – in particolare gli abitanti delle valli di Purén e Lumaco – cominciarono ad abbandonare il tradizionale modello di insediamento basato su una miriade di microcomunità sparpagliate e isolate, per andare a concentrarsi in villaggi più ampi e popolosi.
Oltre ai cavalli e ad alcuni strumenti bellici, i mapuche adottarono dagli spagnoli anche la coltivazione del grano, allora sconosciuta nel nuovo mondo, degli alberi da mele e l’allevamento dei maiali, che riscossero un discreto successo. La coltivazione locale più sviluppata rimaneva ancora la patata, prodotto che meglio di tutti si adattava all’ambiente geografico. L’allevamento delle pecore, introdotto nel XVII secolo, superò l’allevamento dei tradizionali chilihueque (i lama), che entrò decisamente in crisi: alla fine del XVIII secolo saranno solo i mapuche di Mariquina e Huequen a crescere questi animali tipici.
Il perenne conflitto con gli spagnoli non si arrestò mai: nel 1598 alcuni guerrieri locali tesero un’imboscata alle truppe di Martin Garcia Onez de Loyola, quasi tutti i soldati furono sterminati o fatti prigionieri. Da questo momento i mapuche iniziarono un’insurrezione generale che portò alla distruzione di tutte le città spagnole nel sud del Cile, così che gli oppressori stranieri furono scacciati verso nord e tutti i territori a sud del Bio Bio liberati dal giogo iberico. In questo stesso periodo alcuni gruppi mapuche – la cui società si era ulteriormente articolata in forme organizzative più ampie ed evolute – attraversarono addirittura le Ande alla conquista di nuovi territori, occupando le attuali province argentine di Chubut, Neuquen, la Pampa e Rio Negro. La Spagna non provò mai a riconquistare i territori perduti in quegli anni.
All’azione conquistatrice militare, come negli altri territori del nuovo mondo, gli spagnoli affiancarono quella missionaria spirituale: i primi padri gesuiti sbarcarono in Araucania nel 1593 per intensificare la loro missione nei due secoli successivi. Il loro operato riguardò principalmente le città spagnole in territorio cileno; l’obiettivo era la conversione del popolo mapuche, che si oppose fermamente anche con episodi di ribellione violenta. Nessuna missione permanente riuscì a stanziarsi all’interno dell’hearthland mapuche fino al XVIII secolo. Per favorire l’opera di conversione i missionari gesuiti dovettero imparare lingua, tradizioni e costumi degli autoctoni, non senza numerose difficoltà, e di fatto ebbero un successo alquanto limitato a livello numerico e spaziale.
La schiavitù formale, abolita dalla corona spagnola, venne mantenuta per i mapuche catturati durante la ribellione di fine XVI secolo in cui vennero distrutte sette città spagnole. Questa condizione sostanzialmente legalizzò di nuovo la schiavitù e gli indigeni continuarono a essere trattati come bestie, considerati di assoluta proprietà dei padroni, acquistati per soldi o scambiati tra gli spagnoli. Divennero così schiavi anche tutti i prigionieri catturati durante la perenne Guerra di Arauco e spesso trasferiti al nord presso La Serena e Lima, fino a quando, dopo diversi tentativi falliti, la schiavitù venne definitivamente abolita nel 1683. In realtà dietro questa decisione potrebbero esservi soprattutto motivazioni di carattere economico, essendo accertato che il lavoro gratuito fornito dai meticci era più economico e conveniente rispetto all’avere schiavi di proprietà.
Dal XVII secolo alla fine del XVIII, nell’area si susseguirono momenti di supremazia degli spagnoli che riuscirono a instaurare governi locali provvisori, ad altri in cui invece la resistenza e successiva controffensiva mapuche si dimostrò più forte costringendo i primi alla ritirata: in questi casi i mapuche mantenevano il possesso delle loro terre in cui dominavano i lonkos, capi tribù che assumevano compiti più vasti di guida e organizzazione di diversi clan riuniti in uno stesso villaggio. La Guerra di Arauco si caratterizzò sempre più per il suo carattere di intermittenza: gli scontri divennero sporadici, riconducibili a tentativi isolati più che a missioni programmate da un lato o rivolte organizzate dall’altro, sostanzialmente saccheggi perpetrati da soldati spagnoli tanto quanto da mapuche o fuorilegge.
Periodo repubblicano: occupazione dell’Araucania e incorporazione statale
La situazione geopolitica all’interno dei territori corrispondenti all’odierno Stato del Cile mutarono drasticamente nei primi decenni del XIX secolo. A partire dal 1810 numerosi creoli, discendenti da spagnoli e nati in Cile, e i meticci iniziarono a maturare un forte sentimento patriottico legato alla loro “patria” cilena, tramutatosi in un progetto per costituire una nuova nazione sovvertendo lo status quo. Al potere vi erano infatti ancora i funzionari spagnoli (peninsulares) che dominavano interamente la scena politica locale dalla quale erano completamente esclusi, per l’appunto, creoli e meticci, e ovviamente gli indigeni come i mapuche.
I leader di questi gruppi emergenti, sempre più strutturati, organizzarono un percorso di opposizione politica per arrivare all’autonomia dalla madrepatria: tradizionalmente questo tragitto, durato tutta la seconda decade del secolo, viene suddiviso in tre differenti fasi chiamate “patria vecchia”, “restaurazione monarchica” e “reconquista” (o “patria nuova”). Nella fase della reconquista si passò anche allo scontro armato terminato nel 1817 con la vittoria indipendentista nella battaglia di Chacabuco, grazie anche all’aiuto delle truppe argentine alleate. Il 12 febbraio 1818 fu quindi proclamata l’indipendenza dalla Spagna e la nascita dello Stato cileno.
Questi sconvolgimenti politico-istituzionali e sociali cambiarono il volto del Cile riflettendosi anche sulla situazione degli autoctoni. La realtà mapuche non giovò di particolari miglioramenti in seguito all’indipendenza, anzi la politica espansionistica del neonato Stato peggiorò la loro condizione, aggravandola irrimediabilmente. Nel 1843 il Cile fondò una colonia nei pressi dello Stretto di Magellano, si insediò a Valdivia e in altre città abitate prevalentemente da immigrati di origine tedesca e addirittura passò alla conquista di porzioni di territorio del Perù e della Bolivia, annettendo anche l’Isola di Pasqua. In questo contesto si inserì anche il progetto sull’Araucania.
Le terre dei mapuche a sud del Bio Bio già da qualche anno avevano iniziato a essere occupate e comprate anche da gente di fuori, in particolare per due motivi: i cileni volevano la continuità territoriale dei loro possedimenti, e inoltre quest’area rimaneva l’unico luogo dove far sviluppare ed espandere l’agricoltura.
In questo scenario provò a inserirsi un discendente di filibustieri francesi, Orelie-Antoine de Tounens, che si autoproclamò re di Araucania alleandosi con alcuni capi mapuche, sconfiggendo in diversi combattimenti l’esercito cileno presente nella zona. Il 17 novembre 1860 venne proclamato il Regno di Araucania e Patagonia (comprendente anche una piccola parte dell’Argentina attuale): i capi mapuche lo riconobbero come loro legittimo sovrano e così i loro territori ancestrali furono per la prima volta totalmente indipendenti. Tounens promulgò inoltre la costituzione del Regno, stabilendo i suoi confini delimitati a nord dal fiume Bio Bio, a est dal Rio Negro, a sud dai territori cileni presso lo Stretto di Magellano e a ovest dall’Oceano Pacifico. Nominò anche un governo, coniò una moneta nazionale per il Paese (il peso) e fece realizzare una bandiera nazionale.
Tuttavia questa autonomia risultò effimera: quando Tounens si recò a Valparaiso per rendere nota e ratificare la formazione del nuovo Stato al governo cileno, il presidente dell’epoca, Manuel Montt, non ne riconobbe la legittimità, anzi fece arrestare Tounens per turbamento dell’ordine pubblico. Dopo la sua liberazione il francese mise in atto altri tentativi insurrezionalisti che furono tuttavia stroncati sul nascere dall’amministrazione cilena, che non si fece trovare impreparata. Il Cile addirittura “passò al controattacco” rafforzando e accelerando il processo di conquista dell’Araucania. Così tra il 1861 e il 1871 il Cile incorporò diversi territori mapuche nella regione. L’area tra il Bio Bio e il fiume Malleco cadde quasi per intero sotto il controllo dal governo cileno: l’incredibile sviluppo della produzione e commercio di grano all’interno dello Stato spinse i cileni ad acquistare sempre più terre nella zona, spesso ottenendole – grazie a imbrogli, vere e proprie frodi o con la forza – a danno dei mapuche.
Contemporaneamente i mapuche si trovarono attaccati anche sull’altro fronte delle Ande, dove l’esercito argentino organizzò una serie di campagne militari (tra le quali la più famosa è conosciuta come conquista del desierto) per ricacciare la popolazione in Araucania, al di fuori del territorio argentino: alcuni capi tribù mapuche vennero fatti prigionieri e l’esercitò penetrò nella valle di Lonquimay, che però il Cile considerava parte del proprio Stato. Questo fatto unito alla rapida avanzata dell’esercito argentino allarmò il governo centrale, ma la campagna argentina si concluse senza ulteriori missioni nel territorio “cileno”: era stato raggiunto l’obiettivo principale di conquistare l’area argentina abitata da mapuche, che furono in maggioranza (circa 15.000) cacciati dalle loro terre verso l’altro versante delle Ande, quando non catturati o uccisi. Quella che venne vista dal governo argentino come una campagna di conquista volta a portare civilizzazione è invece da considerare un tentativo, in gran parte riuscito, di genocidio.
Il peggio per i mapuche era solo cominciato: il governo cileno stava infatti proseguendo nell’annessione dei luoghi ancestrali del gruppo etnico. Gli ultimi anni Settanta dell’Ottocento furono caratterizzati da ripetute azioni di inglobamento compiute utilizzando un misto di forza, armi, raggiri e inganni, con l’obiettivo di far firmare ai capi mapuche trattati che siglavano il passaggio dei territori araucani allo Stato cileno. L’insieme di queste azioni ebbe fine il primo gennaio 1883 quando i cileni procedettero alla rifondazione della vecchia città di Villarrica, ponendo fine formalmente all’occupazione dell’Araucania che poteva dirsi completata. Ora infatti non esistevano più territori di proprietà esclusivamente mapuche sui quali potessero vivere liberamente, ma erano stati tutti incorporati dallo Stato cileno e, in parte, dagli argentini.
Questo segnò di fatto il definitivo dominio del Cile sull’intera popolazione mapuche, sostanzialmente provocandone la decimazione. Sfollati dalla loro terra madre, essi furono costretti a vagare per il Paese in cerca di riparo, cibo e lavoro. Molti non riuscirono a sopravvivere. Si calcola che nel giro di una sola generazione gli indigeni si siano ridotti da circa mezzo milione alle sole 25.000 unità di fine Ottocento. All’inizio del XX secolo lo Stato si impegnò a fornire quasi 10.000 razioni mensili di cibo ai mapuche spodestati dall’Araucania, ma l’iniziativa non contribuì ad arrestare quel vortice di povertà che aveva ormai avviluppato le genti mapuche per non lasciarle mai.
Anche altri fattori sociali ed economici conseguenti all’annessione cilena segnarono la crisi dell’identità e realtà mapuche. L’introduzione dell’educazione statale, già cominciata prima della conclusiva conquista dell’Araucania, ebbe effetti deleteri sull’educazione tradizionale autoctona. Inoltre negli anni successivi l’economia della regione si trasformò divenendo sempre più legata all’agricoltura promossa dal governo centrale e all’estrazione di legname, a scapito delle tradizionali forme di allevamento ovino e bovino sui quali erano fondate le principali fonti di reddito della zona. La perdita dei territori pose freno a queste attività tradizionali svolte da secoli dai mapuche, che continuarono a praticarle soltanto in spazi limitati con risultati decisamente poco remunerativi, e soprattutto erose quel connubio inscindibile tra l’etnia e la terra che era da sempre alla base del loro tessuto socio-culturale.
Suddivisione territoriale
Per comprendere meglio la società mapuche e le logiche attuali del perenne conflitto con il centralismo statale, è necessario fare un passo indietro e concentrarsi, oltre che sulle vicende storiche di cui il gruppo si è reso protagonista, anche sulla sua particolare configurazione politica, sociale e culturale. Già prima degli scontri con gli inca e dell’arrivo dei conquistadores, i mapuche erano suddivisi in gruppi differenti in base alla porzione di territorio che occupavano. Inizialmente si è ipotizzato che si trattasse di gruppi etnicamente variegati uniti soprattutto dalla comune lingua mapudungun che, con il passare dei secoli, grazie alla relativa vicinanza, erano entrati in contatto reciproco iniziando a condividere usanze e tradizioni, alleandosi in caso di pericolo esterno e mescolandosi, fino a diventare a tutti gli effetti un unico “popolo della terra”.
Il territorio mapuche originario era denominato Wallmapu ed era formato da due grandi identità diverse: gulu mapu (la parte più estesa e cuore di insediamento del gruppo) compresa tra l’Oceano Pacifico e la cordigliera delle Ande, e puel mapu dalle Ande alla pampa argentina. Inizialmente i gruppi che componevano la grande “nazione” mapuche erano stanziati prevalentemente in Cile: i picunce (gente del nord) a settentrione vicino al confine con l’impero inca; i mapuche propriamente detti (o moluche o ngoluche, quelli dell’ovest) nell’area centro-occidentale dell’odierno Cile, cuore di Wallmapu; gli uiglice o huilliche (gente del sud) ubicati tra il fiume Tolten e il canale di Chacao; i cuncos, stanziati nel nord-est dell’isola di Chiloè, incredibilmente affini agli huillice.
Durante i secoli XVII e XVIII in particolare, l’espansione delle genti mapuche prese la direzione dell’est, processo che determinò la fusione con altre popolazioni limitrofe ancora più a est delle Ande, in pieno territorio argentino come i pogia e i peuence. Verso la fine del XVIII secolo un ulteriore processo di espansione verso l’oriente argentino permise la mescolanza con altre tribù autoctone: i puelce (per l’appunto, gente dell’est) nome che i mapuche cileni avevano attribuito agli het e tsonek settentrionali, abitanti di questi territori, denominati dagli spagnoli a loro volta patagoni, che chiamavano invece se stessi genanken o gununakena, e i ranchel (gente dei canneti), di origine mista.
In seguito alla perdita dei territori ancestrali e all’entrata forzata negli Stati cileno e argentino la distribuzione delle genti mapuche si è modificata, oltre che sensibilmente ridotta, con una suddivisione geografica differente: i mapuche dell’alto Bio Bio vengono chiamati peuence, quelli delle province costiere occidentali lavchence (genti del mare/genti dell’ovest), gli uiglice sono confinati nelle province di Osorno e Chiloè, mentre nelle province di Malleco e Cautin si utilizzano i nomi di nagche (gente di giù) per quelli che vivono nella Depresiòn Intermedia e wenteche (gente di su) per quelli della Precordigliera andina. Oggi, tutte queste denominazioni risultano tuttavia ancorate a una dimensione territoriale e spaziale piuttosto che culturale.
Organizzazione sociale, politica ed economica
Prima dell’avvento degli europei i mapuche, pur non costituendo una realtà statale ben definita e gerarchizzata, erano comunque dotati di un’originale strutturazione di base. L’organizzazione sociale era fondata sulle relazioni tra diverse famiglie, concetto che faceva riferimento a un gruppo costituito da un padre, le sue donne e i suoi figli. Tutte le famiglie che condividevano un comune antenato, chiamato lov, spesso vivevano in abitazioni vicine (rucas) e si aiutavano reciprocamente: queste famiglie estese ricadevano sotto l’autorità di un capo, il lonko (“testa” in lingua mapudungun). In caso di guerra le unità plurifamiliari si univano in gruppi più ampi composti anche da altre famiglie senza comuni antenati. Tali gruppi, soprannominati rehues, erano quindi composti da numerosi lov che costituivano una comunità paragonabile a un’intera tribù. Ogni rehue era sotto la protezioni di un capo militare, il toqui (“ascia” o “portatore di ascia”), eletto dagli altri membri con il mandato di garantire l’ordine interno e guidare la resistenza in caso di attacco dei nemici.
Quando i mapuche si trovavano a dover fronteggiare gravi minacce come calamità naturali, saccheggi, epidemie e carestie, invasioni militari o qualsiasi altro problema che riguardasse una grande estensione del loro territorio, i vari rehues si riunivano a loro volta per creare i cosiddetti aillarehues, con capo supremo il mapu-tochi, vero e proprio comandante militare di una comarca in stato di guerra o emergenza. Gli aillarehues ebbero notevole importanza durante il periodo di lotta contro la corona spagnola, scontri che contribuirono alla nascita di una nuova organizzazione prima inesistente, il butalmapus, ovvero l’unione dei vari aillarehues. I capi dei butalmapus venivano scelti ed eletti dai toquis, identificabili come i gran tochi delle cronache scritte ispaniche. È stato provato che sono esistiti almeno tre butalmapus nel corso della storia: lavchen-mapu (nella regione costiera sul Pacifico), lelfun-mapu (nella zona degli altipiani), inapire-mapu (nell’area a ridosso della cordigliera andina).
La creazione di queste stratificazioni socio-politiche a livello tribale furono in parte determinate da necessità difensive: infatti, se l’invasione dei conquistadores ha rappresentato una piaga e una tragedia per la vita mapuche, non si può negare che – unico aspetto positivo – abbia contribuito all’evoluzione istituzionale della loro società, spinta a cambiare e a progredire dal contatto violento con gli iberici.
Dal punto di vista economico l’intera sistema produttivo mapuche era incentrato sull’agricoltura e soprattutto sull’allevamento dei lama. Dopo l’arrivo degli spagnoli, i mapuche si dimostrarono abili e rapidi nell’imparare alcune delle numerose novità introdotte dai coloni: perfezionarono la lavorazione dei metalli, imparando l’uso del ferro (in precedenza utilizzavano il rame), mutuarono l’arte del cavalcare fondamentale in battaglia, insieme alla coltivazione del grano e all’allevamento delle pecore. Durante i 300 anni di “convivenza” con gli spagnoli, i mapuche svilupparono con loro anche diversi traffici commerciali, successivamente proseguiti in misura minore anche con i cileni. Protagonisti degli scambi erano soprattutto i manufatti tessili e gli oggetti lavorati in argento, fiore all’occhiello della produzione locale, acquistati con monete d’argento con le quali i mapuche realizzavano copricapi chiamati trarilonko.
Cosmologia e credenze
Il sistema tradizionale di credenze della cultura mapuche era imperniato prevalentemente sul culto degli spiriti e degli antenati, genericamente denominati pillàn. Al centro della cosmogonia, un essere superiore, Nghenecèn, caratterizzato dalla compresenza di quattro individui principali (un vecchio uomo, una vecchia donna, accanto a un uomo e a una donna giovani) i quali, però, prima dell’influenza esercitata dai missionari cristiani, risultavano entità spirituali distinte. Sembra infatti che il concetto della trinità abbia profondamente condizionato questa credenza. Oltre all’onnipotente Nghenecèn vi erano altri spiriti identificabili con alcune forze della natura, chiamati nghen.
La cosmologia mapuche appare anche ricca di numerose nozioni legate ad altri mondi (Wenu Mapu e Miche Mapu) e a spiriti che coesistono con uomini ed animali nel mondo naturale e regolano eventi quotidiani, quali le pratiche spirituali da compiere. Le altre principali divinità della loro mitologia sono i wangulen (spiriti ancestrali) e i wekufe (spiriti demoniaci). Non si tratta comunque di un pantheon paragonabile alla tradizione pagana greco-romana. Nelle loro credenze è di vitale importanza anche la figura della machi, la sciamana, ruolo generalmente affidato alle donne più anziane che ancora oggi – nonostante la sempre più diffusa presenza del cristianesimo che ha portato a numerose conversioni – praticano cerimonie per scacciare il male, per la pioggia, per il raccolto, per la guarigione dalle malattie, interpretano i sogni e detengono una conoscenza assai approfondita delle erbe medicinali cilene, appresa dopo un lungo processo di studio e documentazione. I cileni di ogni origine e classe sociale utilizzano ancora oggi le principali erbe provenienti dalla tradizione mapuche. Le machi conoscono alla perfezione anche le pietre e gli animali sacri.
La cerimonia rituale più famosa è senz’altro lo ngillatum, una sorta di preghiera comune e collettiva di enorme rilevanza sociale e spirituale per tutta la comunità, contrapposta invece ad altre cerimonie minori che si distinguono per il carattere esclusivamente privato, circoscritte all’ambito familiare. I mapuche sono anche soliti compiere sacrifici rituali di animali per mantenere l’equilibrio cosmico, soprattutto dopo catastrofi naturali come terremoti o tsunami.
Come in molte culture, anche in quella mapuche è presente un mito del diluvio in cui il mondo viene distrutto e ricreato in seguito a un’inesorabile inondazione. È protagonista della creazione geografica dell’attuale Cile: in origine – narra la leggenda – esistevano due vipere, una chiamata Cai Cai, che dominava le acque e portava la morte attraverso le inondazioni, e l’altra, Ten Ten, che rappresentava la terra arida e portava invece il fuoco e il sole. Un giorno Cai Cai si arrabbiò e con la propria coda, simile a quella di un pesce, prese a colpire le acque che immediatamente inondarono tutta la regione gettandola nella più totale disperazione: persone e animali continuavano a morire perché l’acqua, che cresceva sempre più, aveva sommerso tutte le terre. I superstiti, come ultimo disperato tentativo, invocarono l’aiuto di Ten Ten che prese tutti, animali e uomini, sul proprio dorso, salvandoli dalla morte.
Una successiva variante vede l’aggiunta di un altro episodio al racconto creazionista secondo cui, in un secondo momento, toccò a Ten Ten adirarsi, con la conseguente eruzione contemporanea di tutti i vulcani, obbligando le persone a rifugiarsi in luoghi più sicuri. Questa variante serve a giustificare la grande presenza di vulcani nella zona, collegata a fenomeni eruttivi e sismici.
È interessante notare come in moltissime tradizioni sia presente, all’interno di miti cosmogonici, l’elemento del diluvio universale: non solo presso i popoli europei e del Vicino Oriente, ma anche in società distanti migliaia di chilometri ricorre questo simbolo della punizione divina per un mondo empio che ha bisogno di essere distrutto per essere completamente ricostruito, ripartendo da un gruppo di superstiti meritevoli.
Prodotti tessili e argenteria
I mapuche sono da sempre noti nel mondo per la loro bravura nella produzione tessile. I primi prodotti di cui abbiamo menzione, ritrovati nel Cile sud-occidentale, risalgono addirittura al XIV secolo. Le indiscusse protagoniste di questa pregevole arte sono le donne: interamente responsabili della tessitura, si dimostrano a conoscenza di tecniche e modelli di filatura trasmessi all’interno della famiglia di generazione in generazione. Le donne che dimostrano una buona abilità nella tessitura vengono ancora celebrate e onorate per i risultati raggiunti e contribuiscono al benessere economico e al mantenimento delle tradizioni culturali all’interno della collettività di gruppo.
L’importanza della tessitura in questa società è testimoniata dal fatto che gli uomini sono soliti prendere in moglie donne con ottime capacità di filatrici. Inoltre i mapuche si avvalgono dei prodotti tessili come di un importante surplus da vendere o scambiare come bene nei mercati e nel commercio. Numerosi sono i resoconti di baratti e compravendite di prodotti tessili a partire dal XVI secolo, sia con altri gruppi indigeni sia con i coloni. All’epoca questo sistema di scambi permise alla popolazione di ottenere quei beni che normalmente non producevano o, come i cavalli, non erano abituati ad allevare.
Un gran numero di abiti in tessuto realizzati da donne indigene e commerciati in Araucania e nel nord della Patagonia argentina divennero fonte di considerevoli entrate per le famiglie mapuche, le quali avevano dato vita a un florido settore economico specializzato. Ovviamente non va dimenticato l’aspetto culturale e tradizionale della produzione tessile, che vedeva e vede ancora oggi i mapuche indossare questi abiti, il più famoso dei quali è sicuramente il tradizionale poncho.
Attualmente esistono fabbriche in cui lavorano donne mapuche e vengono prodotti vestiti in tessuto da loro utilizzati in àmbito domestico, ma anche venduti o barattati. La maggioranza delle persone, causa la decimazione forzata e la dispersione, indossano anche vestiti stranieri fatti con materiali industriali, ma non hanno mai smesso di utilizzare anche i tradizionali poncho con bende e cinture locali. Il lavoro di queste artigiane rappresenta un reddito fondamentale per le famiglie indigene, all’interno delle quali sono proprio le stesse donne a insegnare e tramandare alle figlie le loro conoscenze e tecniche dell’arte tessile.
Un altro elemento di grande rilievo nella cultura materiale mapuche è l’abilità nella lavorazione dell’argento. Nella seconda metà del XVIII secolo gli artigiani cominciarono a produrre una grande quantità di sfarzosi oggetti in argento, dai tratti e dalle forme peculiari. Questo incremento della produzione è legato a un evento svoltosi a Negrete nel 1793, un incontro in cui venne sancita una tregua alla guerra di Arauco tra mapuche e spagnoli. Pertanto, negli anni successivi i conquistadores poterono commerciare con maggiore tranquillità con gli indigeni: i mapuche accettavano i pagamenti in monete d’argento, poi utilizzati come materiali grezzi dagli artigiani per realizzare i gioielli d’argento.
I ciondoli mapuche più antichi spesso contenevano monete d’argento non trasformate completamente, il che ha permesso di datare più facilmente i manufatti. La maggioranza dell’argento spagnolo proveniva dalla celebre miniera peruviana di Potosì. 2) La grande varietà dei disegni e dello stile dei gioielli è dovuta alla loro identificazione con i simboli delle differenti famiglie o tribù, così come di specifici lonko o machi. I disegni che spesso erano legati a concetti filosofici o spirituali propri della tradizione non hanno subìto nel corso dei secoli significativi cambiamenti. Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX l’attività artistica dei mapuche, e in particolare quella della produzione argentifera, raggiunse il suo apice: ogni capo mapuche aveva il proprio argentiere di fiducia.
Il mapudungun
Il mapudungun (da mapu, “terra”, e dungun, “parlare”) è una lingua isolata che non presenta legami certi e provati con nessun altro idioma esistente al mondo. Chiamato anche semplicemente mapuche, mapudungu o, informalmente, araucano, insieme alla lingua huillice, sua diretta derivazione, costituisce le cosiddette lingue araucane. Sono stati ipotizzati diversi legami di parentela, nessuno mai dimostratosi certo. Negli anni Settanta si è parlato di affinità con le lingue maya. Mary Ritchie Key nel 1978 ha invece sostenuto la parentela delle lingue araucane con quelle pano-tacanan (parlate in Perù e in Bolivia), chonan (in Patagonia e nella Terra del Fuoco) e alacalufan (in Cile nella zona di Puerto Edèn). Croese, invece, nel 1991 ha avanzato la teoria di un collegamento con le lingue arawak (parlate nei Caraibi, America Centrale e tutto il Sudamerica a eccezione di Ecuador, Uruguay e Cile). Recenti proposte hanno suggerito connessioni, rivelatesi ancora più labili, con le lingue andeane settentrionali, con la famiglia macro-panoan (Perù, Brasile, Argentina, Bolivia e Paraguay) e macro-waikuruan (Amazzonia). L’unico dato provato è che con il passare dei secoli il mapudungun ha subìto una discreta influenza, soprattutto in ambito lessicale, dal quechua e dallo stesso spagnolo.
Il mapudungun presenta una serie di dialetti a seconda delle diverse zone di diffusione dell’antico gran territorio mapuche: il pehuenche, parlato soprattutto nella provincia argentina di Neuquén; lo ngluche o moluche, diffuso da Limay al lago Nahuel Huapi sempre in Argentina; il dialetto ranquenche parlato in Chalileo, General Acha e nella zona del Rio Colorado nella Pampa argentina.
Infine vi è l’huillice, l’altra variante del mapudungun considerata dai linguisti un vero idioma a sé stante che forma però, insieme all’originaria lingua mapuche, la famiglia araucana. L’huillice (detto anche huilliche o veliche) ha ancora migliaia di parlanti in particolare nell’area litorale di Valdivia e sull’isola di Chiloè, a sud dell’hearthland storico mapuche, dominato dal mapudungun. L’affermazione dell’huillice come lingua unica è da attribuirsi alla sua sopravvivenza dopo l’arrivo dei coloni, la cui conquista portò alla sostanziale assimilazione di tutte le forme linguistico-dialettali con le eccezioni del mapudungun propriamente detto e, per l’appunto, dell’huillice. Questi due idiomi, ovviamente alquanto simili, rimasero all’inizio del XVIII secolo gli unici linguaggi indigeni parlati nel Cile centrale e sono perdurati fino ai giorni nostri, anche se la maggior parte dei mapuche risulta ora essere bilingue o addirittura conoscere esclusivamente lo spagnolo, quasi sempre parlato come prima lingua.
Il grado di bilinguismo varia da comunità a comunità e appare correlato al livello di partecipazione alla società statale cilena, frutto per lo più di scelte di vita individuale, dettate da un maggiore o minore legame con la tradizione culturale originaria piuttosto che con i nuovi stili di vita urbani. In generale i parlanti mapudungun sono oggi sulle 440.000 unità, di cui 400.000 nella valle centrale del Cile e 40.000 in Argentina. Solamente 200.000 però usano regolarmente l’idioma nella vita quotidiana: manca un sostegno, una reale promozione concreta ed efficace, nonostante il tentativo da parte del governo cileno di migliorare la situazione garantendo ai mapuche il completo accesso all’insegnamento della propria lingua in tutta l’area meridionale del Paese. Questo tuttavia rappresenta solo un piccolo tentativo in un discorso lungo e complicato: la realtà in anni e anni di storia parla infatti di una lingua non ufficialmente riconosciuta né in Cile né in Argentina e che per troppo tempo non ha ricevuto alcun supporto governativo.
Prima dell’avvento europeo i mapuche non avevano un sistema di scrittura e l’intero patrimonio culturale era affidato alla trasmissione orale. Nei secoli successivi si sono sviluppati diversi sistemi di scrittura, ma non si è mai raggiunto il consenso sull’utilizzo ufficiale di uno piuttosto che un altro: quello che viene usato più frequentemente (da linguisti cileni e mapuche nelle opere scientifiche) è l’Alfabeto Mapuche Unificado in caratteri latini. È fiorita anche la produzione scritta sia in prosa sia in poesia, i cui maggiori esponenti attuali sono Sebastian Queupul, Pedro Alonzo, Elicura Chihuailaf e Leonel Lienlaf.
Un’altra forma d’arte caratteristica è la musica mapuche, incentrata principalmente su tematiche religiose, accanto a un numero minore di composizioni di genere amoroso e dedicate alla terra natia. Vengono adoperati strumenti di percussione come il cultrùn, d’uso esclusivamente rituale, e la cascauiglia, insieme alla tipica trutruca, canna cava con un corno posizionato alla sua estremità, e al trompe che si serve della gola come cassa di risonanza.
L’identità mapuche oggi: tra legame con la tradizione e risemantizzazione
Al giorno d’oggi una buona parte della popolazione mapuche vive ancora nei territori del Cile e dell’Argentina meridionali. Quasi tutti continuano a praticare agricoltura e allevamento, fonte primaria di sussistenza e principale occupazione, e si mostrano fortemente ancorati alla tradizione culturale del gruppo etnico. Tuttavia esiste anche una cospicua percentuale di persone di origine mapuche che nel corso degli ultimi decenni ha preferito la via della migrazione verso le aree urbane, alla ricerca di migliori condizioni di vita e opportunità economiche. Molti di questi mapuche si concentrano a Santiago e nella sua periferia.
La regione dell’Araucania, il nucleo originario delle terre mapuche, ha una popolazione essenzialmente rurale, costituita per l’80% da mapuche, stanziati nelle zone di Los Lagos, Bio-Bio e Maule. Al riguardo, il censimento indetto dal governo centrale cileno del 2002 portava il risultato di 604.349 persone che si identificavano etnicamente come mapuche: le due regioni con la maggior quantità di questi cittadini erano proprio l’Araucania (203.221) e la regione metropolitana di Santiago (182.963), numeri decisamente maggiori in ognuno dei due circondari rispetto a quelli dei mapuche nelle province argentine.
Negli ultimi anni il governo cileno ha realmente effettuato un tentativo di riparare alle molte ingiustizie subite dagli indigeni nel corso dei secoli: nel 1993 il parlamento ha promulgato una legge che ufficialmente riconosceva i mapuche e altri sette gruppi di minoranze etniche all’interno del Paese, così come ha inserito il mapudungun all’interno del curriculum scolastico delle scuole nella zona di Temuco. Nonostante questa apertura democratica che dimostra un piccolo riconoscimento per la cultura mapuche, molti indigeni non solo hanno continuato a sentirsi e dichiararsi insoddisfatti dell’intervento governativo, ritenuto limitato a un’area ristretta e nel complesso inefficace, ma soprattutto si considerano ancora profondamente discriminati, in particolare dal ricorso ad arresti arbitrari. Forti di questo sentimento diffuso tra la maggior parte della popolazione, diversi leader delle organizzazioni per la tutela dei diritti dei mapuche hanno preso contatti e aderito all’Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli non rappresentati (UNPO), 3) che si occupa del riconoscimento, tutela e protezione della cultura e dei diritti territoriali di queste entità spesso coincidenti con minoranze etniche non riconosciute e popoli senza Stato.
L’identità di gruppo dei mapuche risulta oggi complessa, composita e divergente: infatti è evidente una netta contrapposizione tra i mapuche che abitano ancora nelle antiche terre natie, in ambienti rurali, e quelli che invece si sono trasferiti nelle aree urbane. I primi infatti appaiono in genere legati alle tradizioni culturali proprie della società mapuche autentica, distinguendosi per il rispetto dei rituali, degli usi e costumi e, come detto, in parte anche dell’organizzazione socio-economica, con molti individui impegnati nel settore primario. Essi hanno incorporato la loro storia secolare fatta di indipendenza e resistenza allo straniero come una fiera e mai dimenticata reliquia di un glorioso passato; e la loro memoria, i racconti, le narrazioni e le credenze locali, spesso molto particolari, si inseriscono in un più grande contesto di immutata affezione e adesione ai valori culturali della tradizione mapuche.
La situazione è molto diversa e notevolmente più complessa per quanto riguarda i mapuche che abitano le realtà cittadine. Spesso il sentimento identitario di questi “immigrati” è il frutto di percorsi individuali, i cui risultati di riflesso producono un determinato atteggiamento nei confronti della società e della cultura di origine. Una parte si riconosce pienamente nelle tradizioni di gruppo e, come i mapuche rimasti nelle aree rurali, mette in atto una serie di comportamenti che dimostrano questo attaccamento: indossare abiti e gioielli tradizionali, partecipare alle festività e cerimonie, salutarsi con determinate espressioni linguistiche, praticare la medicina tradizionale e partecipare a corsi di mapudungun. Spesso questi individui, poveri, emarginati nelle periferie e ancora fortemente discriminati, sono anche coloro che si mostrano più attivi nella lotta politica contemporanea, mossa da una dinamica etnica.
Accanto a questa schiera vi sono tuttavia altri cittadini di origine mapuche, che con il passare del tempo sono riusciti ad adattarsi maggiormente alla vita urbana adottando stili di vita e categorie di pensiero differenti, lontane da quelle tradizionali, pian piano abbandonate. Gli appartenenti a questa classe, persone che nelle città hanno ottenuto più successo rispetto ai primi, si sono sostanzialmente integrati nel contesto statale e arrivano addirittura a considerarsi e definirsi cileni o argentini e non mapuche.
Vi è infine una terza categoria, una sorta di via di mezzo, che probabilmente è quella più aderente alla realtà fluida e dinamica odierna, difficilmente catalogabile e definibile in blocchi schematici rigidi e immobili. I protagonisti di questo percorso sono per lo più giovani i quali, in realtà urbane come Santiago in Cile o San Carlos de Bariloche in Argentina, hanno dato vita a nuove forme creative ibride riconducibili a un generale discorso sul riconoscimento etnico. Si tratta infatti di ragazzi di origine mapuche, nati e cresciuti nei contesti urbani, che manifestano il loro legame con la tradizione della società dei loro padri attraverso pratiche diverse e originali come il teatro, la musica, i blog su internet e le scritte sui muri. Ci troviamo di fronte a un tentativo di espressione del sentimento identitario, profondo e arcaico, mediante strumenti e attività contemporanei. I processi adottati dalle nuove generazioni risultano originali e seguono un doppio binario: presentano contenuti e forme di espressione di tali contenuti mai viste prima, multisettoriali, ma hanno intimamente origine e si riallacciano costantemente alla narrazione mapuche di volontà di riconoscimento e autodeterminazione.
In riferimento a questo fenomeno, a inizio XXI secolo il poeta cileno Aninir ha coniato il neologismo mapurbe per identificare questi giovani che fanno parte sia della realtà mapuche sia di quella urbana. Aninir invita i mapuche a sperimentare questa via alternativa per cercarsi un posto in un mondo che, da un lato tende ancora a negare completamente la loro esistenza, e dall’altro li discrimina facendoli sentire come corpi estranei della vita urbana e statale.
I mapurbe dal canto loro non rinnegano e sono consapevoli del legame con la tradizione, tuttavia non accettano l’arbitraria identificazione con la classica figura del mapuche della campagna, quello povero e ancorato alla tradizione con il carico di tutti i caratteri folkloristici dei quali non riesce a liberarsi. Le loro manifestazioni creative richiamano alla decostruzione di questo stereotipo tradizionale, incrementando invece le riflessioni su un processo di ri-semantizzazione dell’identità collettiva, che parte dal rapporto reale con la tradizione ma si traduce in una ri-articolazione dei suoi contenuti attraverso strumenti innovativi. Il riconoscimento, l’accettazione e la costruzione di identità individuali e di gruppo è l’insieme di una serie di processi tortuosi e complessi che sono sempre in divenire, ancor di più in una realtà dinamica e mutevole come quella attuale. L’esempio dei mapurbe di composizione di un profilo ibrido è la testimonianza del loro sentimento di appartenenza simultanea a due realtà che vorrebbero far dialogare maggiormente.
Il conflitto moderno
Per quanto riguarda l’àmbito più strettamente politico, il conflitto con il governo centrale –
responsabile, prima e dopo l’incorporazione della “nazione” mapuche nello Stato cileno, di raggiri, soprusi e violenze nei confronti dell’intero popolo – non è mai terminato. Le legittime rivendicazioni degli indigeni sulle loro terre e sulla libera espressione della loro cultura su di esse non si è mai fermata, anzi è stata alimentata dalle misure repressive spesso adottate dal governo negli ultimi decenni. Anche a livello sociale i mapuche non hanno trascorso bei momenti: comune è stato, ed è tuttora, l’atteggiamento di indifferenza e isolamento sfociato in comportamenti pregiudizievoli e marcatamente discriminatori da parte degli altri gruppi della società cilena. La disputa sulle terre e i confronti violenti hanno assunto la denominazione di conflitto cileno o questione mapuche-cilena con la fine della dittatura di Pinochet, il ritorno alla democrazia rappresentativa nel 1990 e la nascita del Consejo de Todas las Tierras. Infatti all’inizio di questo decennio le rivendicazioni hanno ripreso vigore grazie soprattutto al meccanismo del recupero produttivo, ovvero l’occupazione dei terreni una volta appartenuti ai mapuche e la ripresa della coltivazione.
Un’altra forma di lotta comportava il sabotaggio degli autoveicoli delle imprese forestali, il tutto senza alcuna forma di violenza. Queste lotte hanno riguardato in particolare la sezione settentrionale dell’Araucania tra Traiguén e Lumaco, le province di Malleco e di Arauco, ovvero l’area del Bio-Bio. Si tratta di zone dove si è instaurato un conflitto a bassa intensità tra mapuche e Stato centrale, che ha visto l’immediata risposta della controparte: militarizzazione del territorio con continue incursioni all’interno delle diverse comunità, irruzioni armate nelle case con la scusa di effettuare perquisizioni o arresti mirati, che invece si sono spesso tradotte in aperte manifestazioni di intimidazione, minaccia e pura violenza, accompagnate dalle accuse più disparate nei confronti di esponenti locali con l’utilizzo della carcerazione preventiva e l’applicazione di leggi speciali di sicurezza. Infatti nel XX secolo, durante la dittatura di Pinochet, erano state varate apposite leggi antiterrorismo in vigore ancora oggi, delle quali la carcerazione preventiva rappresentava la misura più frequentemente adottata. Ai suddetti soprusi vanno aggiunti quelli delle forze di sicurezza private e dei gruppi paramilitari.
Nel 1993 è stata approvata la Ley de Desarrollo Indìgena (legge di sviluppo indigena) che promuoveva la cooperazione tra Stato e leader mapuche: tuttavia i maltrattamenti e le brutalità non sono terminati e la pacificazione è entrata in crisi solo quattro anni più tardi quando l’impresa Endesa Espana ha iniziato la costruzione di una centrale idroelettrica nell’area dell’alto Bio Bio. Diversi mapuche pehuenche che vivevano nella zona non hanno voluto abbandonare la propria terra appellandosi al fatto che l’organismo denominato CONADI aveva momentaneamente bocciato il progetto. Il Presidente cileno Eduardo Frei invece, in modo arbitrario, ha annullato il provvedimento del CONADI autorizzando l’allagamento dei territori.
Nello stesso periodo si è anche intensificato un altro fenomeno, quello che ha visto lo Stato cileno appropriarsi fisicamente delle terre storicamente mapuche per poi rivenderle a multinazionali con interessi economici nella zona. In conseguenza dell’aumento della tensione, un rapporto governativo ha stabilito il formale riconoscimento dei diritti politici e territoriali per i popoli indigeni tanto quanto la promozione della loro identità culturale: la validità di questa iniziativa e gli eventuali indennizzi e restituzioni prospettate si sono manifesttati solamente a livello teorico e non nei fatti concreti. Lo sfruttamento indiscriminato delle aree ancestrali è continuato con il coinvolgimento di compagnie cilene, svizzere e giapponesi. Il Cile esporta legname negli Stati Uniti con un guadagno annuo di 600 milioni di dollari, prelevandolo principalmente da queste zone meridionali, e a poco o nulla valgono i tentativi dei capi mapuche di opposizione che chiedono e pretendono la protezione delle specie vegetali nelle foreste della zona, alcune in via d’estinzione.
Negli anni più recenti numerose organizzazioni mapuche hanno denunciato la degenerazione del conflitto nell’ultimo periodo e la strategia dello Stato centrale di criminalizzare la lotta sociale portata avanti per anni, instaurando una vera e propria caccia volta alla deterritorializzazione dell’intero gruppo etnico. Si sono verificati innumerevoli attacchi contro le comunità locali che hanno coinvolto anche bambini, sono aumentati i prigionieri politici in modo esponenziale e dal 2000 sono stati uccisi addirittura 13 attivisti, con i responsabili condannati a pene irrisorie. Nel 2010 molti prigionieri mapuche hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni carcerarie di detenzione e le vessazioni che la propria gente continua a subire in virtù dell’applicazione della legge antiterrorismo. Neanche questo tentativo ha modificato la situazione attuale, che altro non è se non il prosieguo del colonialismo sotto la forma dell’appropriazione statale delle terre indigene e del loro sfruttamento per ottenere vantaggi economici a scapito della popolazione autoctona, nonché di un genocidio, neanche troppo silenzioso, attraverso l’applicazione della violenza militare indiscriminata.
I mapuche argentini e il caso Benetton
La situazione dei mapuche al di là delle Ande non è molto migliore rispetto al versante cileno: anche in Argentina, infatti, il governo ha da anni dato il via a una serie di iniziative finalizzate alla criminalizzazione dell’attività di protesta e resistenza autoctona. Il livello del conflitto è leggermente più basso rispetto a quello cileno, ma le angherie delle autorità non sono mai mancate, così come il piano di ottenere la completa sovranità sulle terre per poter godere a pieno degli innumerevoli vantaggi economici derivanti.
Un esempio che ci riguarda da vicino ha come protagonista l’azienda Benetton, in quanto la famiglia trevigiana nel 1991 ha acquistato per circa 50 milioni di dollari 900.000 ettari di terre da secoli abitate dal popolo mapuche. Le aree sono state comprate dalla compagnia Tierras De Sur Argentino, la principale proprietaria terriera nella Patagonia argentina. La compravendita ha significato il successivo sfollamento dei mapuche ritenuti non compatibili con il progetto commerciale.
I mapuche non sono stati a guardare, ma hanno intrapreso una lotta incruenta, acuitasi negli ultimi anni, incentrata sulla ri-occupazione di parti di terra ora di proprietà Benetton. Più di duecento indigeni hanno invaso l’area installandosi in maniera permanente. L’intervento della polizia argentina nel gennaio 2017, in seguito alla denuncia dei Benetton, ha provocato ulteriori episodi di violenza. Siamo ora nel mezzo di un contenzioso legale con gli imprenditori veneti da una parte che si sono rivolti alla giustizia argentina, e i mapuche dall’altra i quali, stanchi dell’oppressione subita nelle loro terre, non vogliono tirarsi indietro e rinunciare a ciò che gli spetterebbe di diritto.
Quale futuro per questa etnia?
Con la visita in terra cilena di papa Francesco del gennaio scorso si è riacceso il dibattitto internazionale sulla questione mapuche. Il viaggio del Pontefice in Araucania ha confermato l’impegno intrapreso dalla Chiesa nel 2000 che ha pubblicamente preso le distanze dai soprusi perpetrati da alcuni dei suoi membri durante la prima fase della colonizzazione dell’area, stigmatizzandone e condannandone l’operato. Si è inoltre resa portatrice di un messaggio in favore della libertà dei popoli autoctoni e della doverosa opportunità di esercitare i propri diritti perduti.
Anche durante la visita è stato confermato questo orientamento con la Chiesa che continua a impegnarsi, non solamente a livello simbolico, ma con un ruolo attivo nel sostenere le legittime richieste di giustizia del popolo mapuche.
È impossibile prevedere le future evoluzioni del secolare conflitto tra comunità mapuche e Stato centrale, mentre è evidente che gli indigeni non smetteranno di lottare per i propri diritti con tutte le loro forze e secondo le loro forme di protesta e resistenza. Come in tutti gli altri casi in cui il colonialismo ha provocato gravi danni agli abitanti locali, privandoli dei loro beni e delle loro terre, non è possibile tornare indietro per rimediare, ma sicuramente sarebbe opportuno rispettare maggiormente le esigenze di persone che si sono viste spodestate dai loro luoghi ancestrali e che rivendicano solamente ciò che spetterebbe loro di diritto. Si dovrebbe anche porre un freno ad azioni violente e arbitrarie, per lo più gratuite ed eccessivamente “preventive”, che coinvolgono persone innocenti.
Così come il conflitto politico si dimostra sempre aperto, anche la questione identitaria, sul piano socio-culturale, è in perenne fase di mobilità e rimodellamento. Non ci è dato sapere nemmeno qui se i mapuche rimarranno per sempre fedeli ai propri riti e alle proprie tradizioni, oppure se la crescente migrazione verso gli ambienti urbani li porterà ad adattarsi, per la maggior parte, ai nuovi stili metropolitani, più vicini a sentimenti “nazionali” cileni (o argentini) piuttosto che alla cultura specificatamente mapuche. Sicuramente è da tenere in considerazione l’esempio portato dai mapurbe, le giovani generazioni mapuche cresciute in ambito urbano, che mettono in pratica un’originale interpretazione del sentimento etnico attraverso il proliferare di pratiche culturali derivanti dalla tradizione ma dai contenuti nuovi ed originali, diffuse attraverso canali e strumenti propri della nostra epoca. Vista la complessa e articolata identità mapuche odierna, questo fenomeno risulta di notevole interesse in quanto il profilo di natura ibrida dell’individuo mapurbe –
a cavallo tra osservazione ma non radicata emulazione della tradizione, e apertura alla realtà del nuovo contesto cittadino e ciò che ne comporta – rappresenta il tentativo di metter in contatto due mondi distanti, separati e apparentemente inconciliabili, che invece potrebbero trarne vantaggi reciproci.
Non spetta comunque a noi giudicare il diverso atteggiamento intrapreso dalle differenti schiere di mapuche, di sicuro è giusto sottolineare come il mapurbe si adatti perfettamente alle logiche attuali di una realtà di mutamento e ri-modellazione continua.
N O T E
1) L’Araucania è una delle 15 regioni in cui è suddiviso il Cile odierno: è situata nella porzione meridionale dello Stato e formata dalle province di Malleco nel nord e di Cautin nel sud; capoluogo e città più popolosa è Temuco. L’area corrisponde sostanzialmente anche alla storica regione dell’Araucania, che insieme alla sezione meridionale dell’attuale regione del Bio Bio costituisce il territorio originale della popolazione mapuche.
2) La città di Potosì in Bolivia, fondata nel 1545, ospitava la più grande miniera dell’impero coloniale spagnolo ed era il luogo, insieme all’altra grande città mineraria di Zacatecas, da cui proveniva la maggior parte dell’argento in circolazione all’epoca, estratto sfruttando brutalmente il lavoro degli indigeni.
3) L’Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli non rappresentati è un’organizzazione non governativa internazionale democratica i cui membri sono popoli indigeni, nazioni occupate, minoranze, Stati e territori a cui manca una rappresentanza diplomatica internazionale. L’organizzazione si prefigge di proteggere i diritti umani e culturali dei propri membri, conservare i loro ambienti naturali e raggiungere soluzioni non violente ai conflitti che li vedono coinvolti. Nella sua convenzione sono infatti esplicitati cinque princìpi cui ufficialmente si ispira: ugual diritto per tutti all’autodeterminazione, rispetto dei diritti umani, rispetto del pluralismo democratico e rifiuto dei totalitarismi e dell’intolleranza religiosa, promozione della non violenza come strumento di trattativa e protezione dell’ambiente naturale.