Parecchi turisti in vacanza a San Francisco decidono di visitare la terribile prigione di Alcatraz, rocca su un’isola sferzata dal vento al centro della baia, nel bel mezzo di acque gelide percorse da forti correnti. Quasi tutti sanno che ha ospitato Al Capone, che soltanto tre detenuti, di cui non si è saputo più nulla, sono riusciti a evadere nel 1962 (le loro gesta sono state narrate dal film Fuga da Alcatraz). A ben pochi, invece, è noto che quest’isola – il cui nome risale al cartografo spagnolo Juan Manuel Diaz che la battezzò la isla de los alcatraces, l’isola dei pellicani – è stata oggetto di una rivendicazione territoriale. Il 20 novembre 1969, alle prime ore dell’alba, un gruppo di 89 pellirosse, tra cui 30 erano donne e 6 bambini, sbarcarono ad Alcatraz nonostante i tentativi della Guardia Costiera di impedirlo. “Mayday, mayday”, gridò il guardiano dell’isola alla trasmittente, “sono sbarcati gli indiani!”
Già l’8 marzo 1964 un piccolo gruppo di sioux, 40 persone, aveva occupato l’isola per quattro ore, offrendo ironicamente al governo la stessa somma ricevuta per le loro terre, 47 cent per acro, ben 9,40 dollari per l’intera isola…
Gli Indiani di Tutte le Tribù (come si erano battezzati gli occupanti del 1969), nonostante le difficoltà per ricevere acqua e cibo, tennero testa al governo USA per ben 19 mesi. In precedenza, nel lontano 1895, una ventina di hopi erano stati confinati sull’isola dall’esercito per non aver voluto mandare i propri figli nelle scuole americane. Decenni dopo, i nativi tornavano volontariamente nella terra ancestrale per rivendicarla, raggiunti da altri cittadini solidali di tutte le etnie. L’occupazione contribuì a risvegliare l’interesse dell’opinione pubblica per i problemi dei nativi americani.
Visitando Alcatraz, la mia attenzione è stata attirata da una scritta che testimonia il blitz del 1969; è rossa sullo sfondo grigio del grande serbatoio idrico, posizionato in alto e visibile dalla metropoli: Peace and freedom, welcome home to the free indian land, pace e libertà, benvenuti a casa, nella libera terra indiana. La scritta è diventata un simbolo, tanto che quando la cisterna venne restaurata nel 2012 si mandarono a chiamare gli indiani per rifarla.