Leggendo la testimonianza (l’originale era apparso su un sito turco, poi ripreso da “Kurdistan au feminin”) del poliziotto fuggito dalla Turchia, uno magari si chiede perché non abbia reagito prima. Oppure se non stia recitando la parte del “buono” (o del pentito) per garantirsi l’asilo in Svizzera. Racconta in dettaglio le poco onorevoli gesta dei suoi commilitoni, ma appare un po’ reticente in merito alle sue. Quasi fosse stato uno spettatore capitato lì per caso.
Poi decidi che in fondo dovrà vedersela con la sua coscienza. Rimane la testimonianza, comunque cruda. E amara.
Il poliziotto turco Ahmet Gun, ex membro dei corpi speciali, ha deciso di svuotare il sacco. O almeno così dice.
Ha trascorso nove anni nei territori curdi sotto amministrazione turca (il Bakur). Tra il 2015 e il 2017 era impegnato a combattere la resistenza dei curdi a Cizre, Sur, Lice, Nusaybin e Derik.
Un passo indietro. Al momento Ahmet vive, da rifugiato, in Svizzera con la famiglia. Racconta di essere stato licenziato come sospetto seguace di Fettullah Gulen. Con l’aggravante – aggiunge – di essersi rifiutato di eseguire ordini da lui ritenuti troppo crudeli, disumani, durante gli scontri sanguinosi che si sono svolti nelle città curde assediate.
A Nusaybin (praticamente rasa al suolo, dove i soldati si facevano immortalare con la bandiera turca posata sulle macerie) durante il coprifuoco “se per caso dei civili erano rimasti nelle loro case in una via dove noi avevamo l’ordine di entrare, venivano sistematicamente e duramente picchiati”. Come aveva potuto vedere con i suoi occhi innumerevoli volte, almeno 20, dice. E ha spiegato che questo picchiare la gente inerme che tentava invano di giustificarsi “avveniva con uno zelo quasi religioso”. Un giorno, mentre si trovava all’interno di un veicolo blindato (da almeno dieci ore, precisa), uno dei suoi commilitoni scese a terra per orinare. Dopo un poco si sentirono degli spari. Quando risalì il militare spiegò di aver aperto il fuoco contro alcuni ragazzini che si trovavano nei paraggi in quanto “c’è il coprifuoco”. Coprifuoco che in quei frangenti i turchi imponevano anche di giorno.
Ha poi raccontato di case colpite a cannonate senza alcuna ragione. Magari solo per divertimento o perché un militare voleva filmare la scena.
Incidenti, provocazioni che costavano la vita a vecchi, donne e bambini inermi. Nel contempo venivano distrutte le riserve d’acqua, in periodi con la temperatura a oltre 40°. Ahmet Gun ha confermato che erano proprio gli stessi militari a lasciare sui muri diroccati scritte inneggianti alle “Forze di Esedullah” in quanto anche nell’esercito turco si andava diffondendo una mentalità salafita (da integralisti religiosi che praticano la jihad). Fino al 2008, aggiungeva, “questa mentalità nell’esercito e nella polizia non esisteva e i militari si limitavano a scrivere sui muri frasi volgari e sconce. Oppure rubavano dalle case indumenti intimi femminili”. Ragazzate in fondo, sembra suggerire.
Il comandante delle forze speciali turche era stato chiaro al momento di fornire le regole d’ingaggio: “Voglio vedere tutto raso al suolo e non voglio vedere teste attaccate al corpo”.
Si ricordava di un uomo anziano – sempre durante il coprifuoco, praticamente perenne – uscito in strada con un bambino malato di due anni. Un poliziotto gli ha sparato contro un tracciante per intimidirlo, ma l’uomo è rimasto dov’era dicendo che avrebbero anche potuto ammazzarlo, ma che almeno portassero il bambino all’ospedale. Invece lo costrinsero a rientrare senza chiamare un’ambulanza.
“Quel bambino”, osserva, “era molto ammalato e difficilmente può essere sopravvissuto”.
Era il 2016 e a quell’epoca “dei morti si era perso il conto. Non importava a nessuno se i cadaveri restavano nelle strade anche per dieci giorni. Quelli erano gli ordini, quello era il clima”.
A quel tempo, riconosce l’ex agente, il suo punto di vista era sostanzialmente identico a quello dei suoi commilitoni e chiede perdono a Dio per “quello che ho fatto in quei giorni”. Dice però di non aver “mai sparato a un innocente o danneggiato dei beni, ma comunque avrei potuto dimettermi. Poi sono stato espulso, ma avrei potuto andarmene molto prima”.
Terrorismo di stato contro i civili curdi
“Per noi”, si giustifica, “le persone, anche i bambini, erano tutti dei potenziali terroristi. Quelli che non se ne erano andati al momento delle operazioni, quelli che rimanevano per noi erano dei traditori”.
In sostanza dicevano agli abitanti rimasti nelle città: “Se lo Stato vi dice di andarvene, voi dovete partire. Se rimanete, ne pagherete il prezzo”. Promessa poi mantenuta.
Spiega che la maggior parte dei membri delle forze speciali erano simpatizzanti dei Lupi Grigi.
Riconosce onestamente che – una volta che ci si trova a disporre del potere, della forza dello Stato – è difficile opporsi, “mettersi di traverso”. Si diventa una “macchina da guerra criminale”.
Racconta di aver assistito allo sterminio di decine di persone – anziani, donne, feriti: non certo “terroristi” – rifugiate nel sottosuolo. Alla fine vennero estratti ben 120 cadaveri. Non poteva assolutamente trattarsi di esponenti del PKK perché – spiega l’ex militare – questi “non agiscono mai in gruppi superiori alle sette persone”.
I militari sparavano anche sulle ambulanze. Al di fuori di ogni regola, anche di quelle di guerra.
Al punto che ci furono discussioni accese tra militari e poliziotti, dato che non tutti accettavano di adeguarsi ciecamente a questi metodi barbari.
Anche quando sarebbe stato possibile far uscire, evacuare, la gente dai rifugi – magari con i lacrimogeni – i comandanti preferivano attaccare con i carri armati. Chi non è morto sotto le macerie è stato divorato dalle fiamme. “Dal sottosuolo”, ha concluso, “abbiamo estratto decine di corpi di bambini”.
Gli avvenimenti del 2015-2017, secondo il transfuga turco, erano al di fuori di ogni norma sia religiosa che legale. Così come le operazioni qui condotte non avevano alcun fondamento dal punto di vista militare. È giunto alla conclusione che fosse meramente e interamente un’operazione politica. Condotta, ovviamente, contro la popolazione e la resistenza curda; per umiliarle, demoralizzarle, terrorizzarle…
Ma sempre invano, come si è visto.