In occasione dell’anniversario della pubblicazione del Messale riformato da Paolo VI, il 3 aprile 1969, non possiamo dimenticare che, nel nome dell’ingannevole mito della “rivoluzione conciliare” del Vaticano II, si sia stravolta la dottrina della Chiesa partendo proprio dalla liturgia.
Il Concilio nelle più rosee intenzioni, avrebbe dovuto consegnarci il Volto Luminoso di Cristo ancora più bello, ma le conseguenze di quel consesso lo hanno purtroppo deturpato.
Le statistiche dicono che in Italia cinquant’anni fa i fedeli praticanti erano il 50%, mentre oggi sono scesi al 10%, che nel 1910 il 65% dei cattolici del mondo si trovava in Europa e che un secolo dopo sono scesi sotto il 24%.
La religiosità dei cattolici, dalla culla alla bara, dalla Riforma luterana alla metà del XX secolo, regnante papa Pio XII, non subì molte variazioni.
La deriva modernista
Qualcosa di strano filtrò attraverso la “nuova primavera della Chiesa”. Questa luce più umana che divina, dentro le cose del mondo, avrebbe dovuto illuminare “finalmente” il cattolicesimo “caduto nell’obsolescenza”, ma in effetti lo opacizzò alquanto, rendendolo a immagine del “reale” al punto che fra quest’ultimo e Dio non se ne distinguesse quasi il confine. La Santa Messa, esempio della perfezione dell’Universo, nel Novus Ordo Missae ridotta a trionfo dell’antropocentrismo, fece sì che il Signore fosse un “compartecipante” della liturgia e non, come deve essere, la luce centrale.
Il protestantesimo contaminò il Concilio e l’universo cattolico; questa volta senza neppure affiggere, come aveva fatto Lutero, le 95 tesi di Wittemberg, e il “libero esame” trionfò svuotando la Sacra Scrittura d’autorità.
Per la prima volta nella storia si volle far crollare, dal di dentro, le solide mura dell’immutata tradizione a difesa di Cristo e della cattolica verità. La gerarchia cattolica, ai massimi livelli, fece scendere dalla croce la Seconda Persona della Trinità mettendola ai livelli dell’umanità, quasi che la realtà divina, meno accessibile ai sensi, avrebbe potuto ostacolare la figura del Cristo sociale, da spendersi a piene mani nella nuova teologia. Una religione trasformata in sociologia che avrebbe dovuto abbassare Dio al nostro livello, anziché far salire noi verso di Lui; un Dio quindi come semplice partner dell’uomo.
Togliendo molto di Dio, la Messa si è riempita dell’uomo per renderla “interessante”: una tragedia che ha portato alla perdita dell’autentica fede cattolica. Le cattedrali, le chiese dove si pregò e cantò per millenni la gloria del Signore vennero impoverite da un falso pauperismo di facciata che la depredò di molti simboli. Nei primi anni settanta la furia iconoclasta trasformò le chiese in garage, rendendole ambienti asettici spogliati di sacralità. Divelte le balaustre, una delle più belle forme d’arte sacra e barriera importantissima tra il sacro e l’umano, si conquistò militarmente lo spazio del Sancta Santorum. Il presbiterio diventò un palcoscenico: ragazzi e fanciulle al servizio dell’altare iniziarono a maneggiare le sacre ampolle come oggetti qualsiasi.
Il popolo cattolico, in tutta la sua storia, sostenne sempre la necessità di salvaguardare la propria identità religiosa, fatta di riti, musica e arte sacra. Modifiche in apparenza secondarie, come quelle appartenenti alla sfera liturgica, sotto i colpi dei cambiamenti impoverirono parte della nostra identità culturale. Nella stessa misura, il ruolo dei fedeli durante la Santa Messa subì la contaminazione mondana con gravi amputazioni.
Per esempio: fin dalle prime comunità cristiane le donne coprivano il capo per essere degne di entrare rispettosamente nella casa di Dio. L’uomo e la donna nella liturgia rappresentano Cristo (lo Sposo), mentre la donna la natura umana (la Sposa) del Verbo incarnato. Papa Benedetto XV, con il Codice di Diritto Canonico del 1917, prescrisse che la donna portasse il velo di pizzo; bianco per le nubili, nero per quelle sposate. Alla fine del Vaticano II, neanche a dirlo, il velo si dismise.
Nella nuova Liturgia della Parola, fino a quattro letture dei fedeli tuonano oggi dall’ambone e le ovvietà si sprecano: “Preghiamo il Signore perché tutti i ricchi del mondo scoprano anch’essi il valore essenziale della carità”.
Al Padre Nostro, alcuni guardano con curiosità mista a sospetto chi prega manibus junctis, mentre a braccia aperte, copiando il Sacerdote, si tengono per mano, proprio come i protestanti, i quali privi della transustanziazione si stringono a compensazione di ciò che teologicamente si sono amputati.
All’invito del presidente dell’assemblea “scambiatevi il segno di pace”, le vicendevoli strette di mano distraggono dalla preparazione al Mistero. Qualcuno addirittura lascia il proprio posto, passando svelto davanti al Santissimo, senza segnarsi e genuflettersi per raggiungere tizio e caio.
Altri, non riusciti nell’intento, si sbracciano da un banco all’altro o da una navata all’altra in un clima da festa paesana. Ce ne sarebbe già abbastanza, ma a volte il Sacerdote che dovrebbe concentrarsi sul Mistero, parte dalla Sua sede come un rugbista e giunge alla “meta” stringendo un numero imprecisato di mani poi, in tutta fretta, torna finalmente a posto.
Quindi cala il silenzio; le persone che prima si erano date il segno di pace si ricompongono incapsulandosi come bozzoli di seta. Si trasformano: non ti riconosceranno più, né verso l’uscita, né fuori sotto il sagrato.
Tutto ciò avviene nell’intimità della preghiera (finalmente), ma è una breve tregua. Nella distribuzione della Santa Comunione, la parte più negativa dell’Actuosa Partecipatio, il popolo che dovrebbe ricevere il Corpo di Cristo, lo fa proprio – grazie agli indulti di varie Conferenze Episcopali – nel modo più materiale: con le mani, violando addirittura l’esortazione di Dio: “Sono io il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto; apri la tua bocca, la voglio riempire” (Ps 81-11).
Il ritorno alla tradizione
Le dottrine gnostiche articolano la storia in cicli distinti sempre più perfetti; in ognuno di essi sorge un nuovo mondo, che comporta la distruzione del precedente e l’instaurazione di un ordine diverso.
Molti segni fanno capire che, nel cattolicesimo, il fuoco della reazione cova sotto la cenere dell’ecclesiasticamente corretto. Molti fedeli, da tempo messi al bando dalla teologia postconciliare (che da super dogma sta diventando anch’essa un rottame del passato) ma custodi della Cattolica Verità, sembrano uscire dall’iconografia del dipinto Allegoria della fede dell’olandese Van Meer (1632-1675), il pittore protestante che si convertì al cattolicesimo sposando Catherina Bolnes.
Il culto cattolico nell’Olanda protestante non era ammesso in pubblico, ma si svolgeva unicamente in chiese o cappelle private nascoste.
L’Allegoria della fede, probabilmente destinata a una cappella privata, è ricca di simboli. La donna, vestita di bianco e blu, allude al cielo e alla fede. Tiene sotto il piede il globo e guarda alla sfera di vetro: il paradiso.
Crocifisso, Messale e calice sono posti sopra un tavolino e sullo sfondo, a lato di un pannello damascato, c’è un quadro con la Crocifissione. In primo piano la mela simbolo del peccato originale e più avanti il serpente: il demonio schiacciato dal libro, dal Vangelo e quindi dalla verità.
L’esegesi del quadro può essere funzionale a ciò che oggi emerge dalla Chiesa che, plasticamente, sta dividendosi in due identità parallele. Ciò non vuol dire che ci sia un’altra Chiesa; questa non può essere che una, quella fondata da Gesù Cristo. È dogma di fede proclamato dal IV Concilio Lateranense, regnante Innocenzo III, che “è unica la Chiesa universale dei fedeli e al di fuori di essa assolutamente nessuno può essere salvato”. Vi sono piuttosto due identità: una allineata alla neo-dottrina modernista del Concilio Vaticano II, l’altra legata all’infrangibile vincolo della Tradizione di sempre.
L’opera di Van Meer, nella speculazione che si propone, è la traslazione della Chiesa domestica (concetto cristiano di abitazione) nella “camera” di quel cattolicesimo (non scismatico) che tiene in vita una liturgia parallela attraverso gruppi di fedeli che professano senza errore l’autentica fede.
Liturgia che, dopo la potatura a raso da parte del post-concilio, fa sì che non muoia la linfa della tradizione, nell’attesa che passato l’inverno della fede germogli una nuova primavera in Cristo. La camera è l’intimità meno appariscente, spesso poco illuminata dalla luce dell’ecclesiasticamente corretto o non illuminata affatto.
Nulla vi è di più profondo dell’amore di ciò che sentiamo nostro spiritualmente. Gesù a proposito del pregare disse, (Mt 6, 6) : “quando tu preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Risulta ormai chiaro come la speculazione proposta si riferisca al rito antico: un gregge di fedeli, spesso ghettizzato, sta uscendo dal cono d’ombra appena illuminato dalla camera di questa Chiesa domestica.
Il decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, fondato sulla Costituzione Lumen gentium, dice: “La Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, ancorché al di fuori del suo organismo esistono elementi di verità che spingono verso l’unità cattolica”. Questo ovviamente nulla ha che fare con la retta tradizionalista della “Chiesa parallela” alla quale ci riferiamo, poiché essa è parte integrante dell’unica Chiesa e vive a pieno titolo nel suo seno materno. Il testo conciliare, al contrario, rischia d’interpretare le altre “confessioni cristiane” come vie di salvezza incoraggiando l’ecumenismo, contro la netta condanna di Pio XI nell’enciclica Mortalium animos del 1928.
Il cardinale Robert Sarah, nel 2017, a dieci anni dall’anniversario del Motu Proprio (di iniziativa personale) Summorum Pontificum di Benedetto XVI, parlando dei fedeli amanti dell’antica liturgia precisò:
Non sono cattolici di seconda classe a motivo del culto, del canto o delle pratiche spirituali che sono state le stesse dei santi della storia della Chiesa, ma cattolici del Rito Romano. Sono chiamati da Dio, come tutti i battezzati, a far parte della vita e della missione della Chiesa nel mondo di oggi, al quale anche loro sono inviati. Non sono nostalgici, perché anagraficamente [la maggioranza, NdA] non lo possono essere.
Coloro che nel postconcilio hanno perseverato nell’usus antiquior e mantenuto l’orientamento ad Deum (orizzonte naturale dello sguardo a Dio) è giusto che ora escano dal ghetto ponendo fine alla lunga traversata nel deserto. Non solo quelli “autorizzati” dal Motu Proprio, ma anche chi, seguendo l’ortodossia della verità di fede, non ha condiviso gli ultimi atti dottrinali, non dogmatici e quindi non infallibili del Vaticano II. A titolo di esempio ricordiamo sacerdoti, suore, terziari della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata da mons. Marcel Lefebvre nel 1970 in comunione imperfetta con Roma. Essi, pur non avendo una struttura canonica “ufficiale”, fanno parte di quel cattolicesimo che nella forma cultuale tradizionale, agendo in stato di necessità spirituale, ne abbraccia coerentemente il presupposto teologico.
Papa Francesco nel 2015 nel Giubileo della Misericordia riconobbe la validità della Confessione ai preti della FSSPX con il conferimento delle stesse potestà date ai sacerdoti in comunione con Roma. Nel 2017, il cardinale Gherard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede firmò, su mandato del papa, una lettera indirizzata ai vescovi del mondo “circa la licenza per la Celebrazione di Matrimoni dei Fedeli della Fraternità Sacerdotale San Pio X”.
“Ad colorandum” aggiungiamo che persistono riserve mentali rispetto a questi contesti religiosi. Il consiglio è quello di conoscerli meglio, senza pregiudizi e guardando con quanta spiritualità, soprattutto i giovani, si accostano al Mistero, nella speranza di risposte per la vita.
È la miglior risposta a chi vede la Messa tridentina relegata a un passato nostalgico, forse l’ultimo conato barocco, in un’epoca che barocca non è. Lex orandi e lex credendi guidano i contenuti del credere e possono scongiurare ricadute in termini di costumi morali. Juan Donoso Cortés (1809-1853), marchese di Valdegamas, scrittore spagnolo ex liberale convertitosi al cattolicesimo, affermò nel Saggio sul cattolicesimo, sul liberalismo e sul socialismo del 1851 che gli errori politici e sociali del suo tempo scaturivano da corrispondenti teologici.