Con Mo’orea sulla destra e Tahiti sulla sinistra navighiamo verso Maia’o, l’isola proibita. Sono imbarcata sul cargo misto Tahiti Nui, al seguito del gruppo di danza della scuola media di Afareitu, villaggio dell’isola di Mo’orea che ha vinto la Heiva Taurea’a, competizione riservata alle scuole medie. Il loro tema: intrecciare le fibre di fara (pandano), attività principale a Maia’o.
La scuola ballerà per gli abitanti dell’isola: hanno vinto il primo premio e se lo meritano. I ragazzi potranno così scoprire le bellezze di questa isola, tanto difficile da visitare. L’atmosfera è festosa: mentre le ragazze confezionano corone e copricapi floreali, a poppa si è improvvisata un’orchestrina, ragazzi, marinai e professori, ukulele e kamaka, la chitarrina hawaiana, allietano il viaggio sfoggiando tutto il loro repertorio.
Mi sdraio sul ponte dentro al mio sacco a pelo per passare la notte lontana dalla feroce aria condizionata che impazza all’interno. Ci risveglia un’alba rossa come il tramonto, una lunga striscia infuocata che percorre il buio della notte. Siamo fermi in prossimità dell’isola, attendendo la luce piena del giorno per avvicinarci e sbarcare. Si arriva a terra trasportati dalle grandi zattere: prima i grandi macchinari, poi i membri del governo, tra cui il presidente della Polinesia francese e quattro ministri (Agricoltura, Turismo, Equipaggiamento, Infrastrutture).
Con una breve passeggiata siamo in riva al mare. Fra i rami degli aito (alberi di ferro) si intravede una spiaggia paradisiaca: la sabbia è bianca e soffice, l’acqua di un azzurro trasparente. La barriera corallina protegge questo angolo di mondo che ho il privilegio di visitare.
Gli uccelli continuano a pescare, il suonatore di ukulele continua ad allietarci con le sue melodie, alcuni fanno il bagno nell’acqua limpida piena di pesci trasparenti. Un aereo da turismo sorvola la baia: le sue ali, come quelle dei gabbiani, hanno il riflesso azzurro del mare.
Scopro la bellezza di Maia’o, l’isola proibita, con una lunga passeggiata sulla spiaggia.
Tutto risale al 1920 quando lo scozzese Eric Lawford Trower aveva aperto una bottega sull’isola. Era facile fare le compere, specie per le bottiglie di alcol con cui ubriacarsi, bastava prendere e far segnare in un conto chilometrico ciò di cui si aveva bisogno; non serviva pagare, avere i soldi, il credito si otteneva facilmente. Principale acquirente Tauniua, il capo dell’isola, che amava organizzare festini per ingraziarsi la popolazione. Andò avanti così fino al giorno in cui venne presentato il conto: come pagare quelle cifre astronomiche? Così le terre vennero confiscate per coprire i vari debiti. Il forestiero era diventato proprietario dell’ottanta per cento dell’isola! Gli abitanti chiesero una mano al governo che li aiutò con un prestito a ricomprare le terre. Da allora, per non avere più problemi, decisero che nessuno sarebbe potuto rimanere più di 48 ore sull’isola: per approdare è necessario un permesso speciale, secondo il regolamento del 1934 ancor oggi in vigore.
Il leggendario capo cannibale Tamatafetu, della stirpe dei Teurura’i di Huahine, ari’i (re) di Maia’o, si sarà sicuramente rivoltato nella tomba per questa storiaccia.
Quando mi hanno proposto di accompagnare la scuola per filmare le danze, ho immediatamente accettato, abbandonando ogni altra occupazione per avere il privilegio di visitare Maia’o, l’isola proibita.
La reputazione dei suoi abitanti non è delle migliori: l’isolamento li ha resi selvatici e spesso qualcuno di loro si ritrova in tribunale con accusa di stupro. Ma l’accoglienza che abbiamo ricevuto è stata ottima. Gli isolani hanno preparato due grandi banchetti per noi (il primo appena sbarcati): i pantagruelici pranzi polinesiani con pesce crudo e cotto, fifiri, le frittelle a forma di otto realizzate con farina uova e latte di cocco, pua, maiale, arrosto e altre delizie.
I ragazzi hanno ballato sotto il sole cocente, sentendosi importanti, appena tredicenni, al centro di tanta attenzione, non solo da parte degli abitanti ma anche del presidente Edward Fritch con la sua scorta di ministri e politici che hanno assistito alle danze.
A seguire, il banchetto ancor più luculliano di metà giornata, dove è stato arrostito un bue, qualche capretto, numerosi polli, i deliziosi pesci pappagallo, per non parlare dei granchi di cui l’isola è ricca, affogati nella salsa di latte di cocco al curry. Come l’aria si è fatta appena più fresca e il sole si è avvicinato all’orizzonte, ci hanno imbarcato; prevenendo il risveglio dei fastidiosi nunu, piccoli insetti quasi invisibili di cui l’isola è piena per via dei suoi due laghi di acqua salmastra (la loro puntura si manifesta quattro, cinque ore dopo, con piccoli bubboni così fastidiosi che ci si strapperebbe la pelle).
Abbiamo dovuto attendere un bel po’ prima di salpare: il governo aveva fatto dono di materiale da costruzione a ogni famiglia, e i marinai hanno dovuto scaricare quintali di blocchi di cemento trasportandoli sulla zattera fino a terra. Paradosso: l’isola che fornisce ai grandi alberghi di tutta la Polinesia le fibre intrecciate da usare come copertura, non ha più fare, le case tradizionali dove si vive benissimo, con il vento che passa tra il fogliame, ma casupole in cemento dai tetti di latta.
Verso le 23 il cargo Tahiti Nui è potuto salpare e siamo arrivati a notte fonda, le 4 di mattina, non capendo bene se fosse troppo tardi o troppo presto per iniziare la giornata, visto che a Tahiti si segue il ritmo del sole che in questo periodo spunta verso le 6.