Ogni anno in febbraio la capitale della Polinesia francese diventa per una decina di giorni anche la capitale “etnica” dell’intero continente australe. Grazie al suo Festival del Cinema Oceaniano (FIFO), Papeete raccoglie i migliori documentari e cortometraggi brevi prodotti nelle isole del Pacifico, dedicati in particolare alle popolazioni autoctone.
Il problema fondamentale per l’Oceania, dal punto di vista antropologico e geopolitico, è duplice. Da una parte il territorio è stato terra di conquista degli europei, che vi hanno impiantato entità statali poi divenute autonome (ma non nelle mani dei nativi) come l’Australia e la Nuova Zelanda, mentre altri territori più piccoli restano tuttora amministrati da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Dall’altra, tolte le isole maggiori, queste comunità sono fortemente disseminate in una miriade di arcipelaghi e isolette remote, spesso lontanissimi tra loro. Una frammentazione geografica che in sé potrebbe anche non penalizzare le rivendicazioni sociali e geopolitiche degli oceaniani, intesi come gruppi diversi – fondamentalmente melanesiani, micronesiani e polinesiani – opposti a influenze esterne, ma che di certo ostacola la consapevolezza etnica e quindi la sopravvivenza culturale della singole popolazioni. Per esempio, e lo vedremo meglio più avanti, i polinesiani sono oltreché sparsi geograficamente, anche suddivisi politicamente in vari staterelli autonomi e possedimenti d’oltremare (le Hawaii costituiscono addirittura il 50esimo Stato americano); e non è sempre facile per un abitante delle Marchesi rendersi conto che un maori della Nuova Zelanda è un suo “connazionale”.
Il Festival rappresenta quindi un tentativo di far conoscere l’Oceania al resto del mondo, ma anche di “presentare” le une alle altre le varie comunità del Pacifico. Non a caso la manifestazione è nata dall’incontro tra due personalità etnicamente diverse, il kanako Wallès Kotra e il polinesiano Heremoana Maamaatuaihutapu. Conosciutisi a Bordeaux da studenti, i due si ritrovarono anni dopo in Polinesia francese, il primo come direttore dell’emittente tv Polynésie 1, il secondo a capo della Casa della Cultura di Tahiti. Lavorando a stretto contatto, nacque l’idea di organizzare qualcosa a favore dell’intero continente. “Siamo entrambi militanti oceaniani”, spiega Wallès. “Io vengo da una piccola isola, Tiga, dove si prendono 200 canali televisivi con immagini da tutto il mondo. Era assolutamente imperativo creare qualcosa che raccontasse di noialtri oceaniani”.
La prima edizione del FIFO prese il via nel febbraio 2004 a Papeete non senza qualche difficoltà (“era difficile trovare dei film adatti”, racconta Wallès), ma con un’affluenza di tutto rispetto, circa 15.000 persone. Con il passare degli anni, grazie all’impegno di tutte le reti televisive dei vari Paesi del Pacifico australe e la crescita di ottimi cineasti locali, il Festival è diventato un appuntamento importante anche al di fuori dei pur vasti confini oceaniani.
“Etnie” ha raccontato una delle edizioni più ricche, quella del 2018, in un servizio che rende l’idea del livello raggiunto dai documentari e dai cortometraggi ospitati. L’edizione di quest’anno, la sedicesima, cui hanno assistito 30.000 persone, è stata forse la più interessante dal punto di vista etnico in quanto dichiaratamente basata sul concetto di “identità”. Anche perché, come dicevamo, queste popolazioni hanno un po’ la tendenza a ignorarsi a vicenda, nel senso latino di non conoscersi: “Non è naturale incontrarsi in Oceania, poiché ogni isola vive di vita propria”, lamenta Wallès Kotra, tanto più che, come aggiunge il suo collega Heremoana (oggi ministro della Cultura), “qui sappiamo cosa sta succedendo a Washington, a Parigi o a Tokyo, ma non in Nuova Caledonia, a due ore e mezza da casa. Ecco perché abbiamo messo in piedi un’iniziativa che ricrei il legame tra di noi e dove possiamo esistere in un mondo che ci sfugge”.
Verso il 2020
Questo concetto di riavvicinamento, di riscoperta culturale dei propri fratelli lontani è il tema del cortometraggio Te Hono Huimāòhi (Il legame del popolo polinesiano), che è stato presentato alla prossima edizione, la diciassettesima, del Festival del Cinema Oceaniano. C’è un pizzico di “Etnie” in questo video, che è stato scritto e diretto da Manuela Macori – l’animatrice della nostra rubrica Polinesia in Diretta – in collaborazione con lo ‘ōrero (oratore) tahitiano Clément Pito. (Pito ha tradotto il testo in lingua polinesiana e ha iscritto ufficialmente l’opera: gli autori possono essere soltanto oceaniani.)
La filosofia del filmato, che presenta una sfilata di momenti culturali squisitamente polinesiani, va anche oltre le raccomandazioni di riallacciare i rapporti tra lontani appartenenti alla stessa etnia, dimostrando che appena entrati in contatto i loro legami si rinsaldano come se i secoli di lontananza svanissero in un istante. “Quest’anno facevo le riprese al Festival Internazionale Ia Marae te Ao”, racconta Manuela Macori. “Erano presenti tre gruppi polinesiani ma di differente cittadinanza. All’inizio ho notato che restavano divisi senza interagire. Poi Jean-Marie Biret, il direttore del festival, ha avuto l’idea di far ballare a tutti una canzone tratta da Oceania di Walt Disney. L’impegno li ha uniti in modo fortissimo, tanto che io stessa non riuscivo più a capire chi fosse delle Samoa, chi della Nuova Zelanda, eccetera.
Ho capito che si era trattato di un’esperienza importante, qualcosa che non doveva andare persa: ho portato i filmati a Clément, chiedendogli di tradurre e prestare la sua voce, che da abile ‘ōrero qual è fa la sua figura. E sua è la parte introduttiva in cui riassume in poche immagini, tratte dal mio archivio, la storia del popolo polinesiano; senza contare i suoi provvidenziali interventi sul montaggio e l’abbinamento tra foto e testo. Il fine di Te Hono Huimāòhi è sottolineare come questa grande etnia sparsa possa ritrovare la propria unità attraverso l’arte, cioè la musica, la danza e il canto”.
Un traguardo da raggiungere al più presto, prima che si compia il “genocidio bianco” delle genti polinesiane. E quanto sia già grave la situazione lo sottolinea l’autrice del video: “Quando l’abbiamo consegnato, ho spiegato che tutto il testo, riassunto compreso, era in reo Ma’ohi, la lingua polinesiana. La risposta, costernata, è stata: E come facciamo? Il comitato di preselezione non lo parla…”.