Il 18 gennaio, un gruppo ribelle musulmano sciita ha lanciato un attacco terroristico che ha causato la morte di 111 persone nello Yemen.
Giorni addietro, un generale pakistano aveva spiegato, guadagnandosi il plauso popolare, che in caso di uccisioni tra islamici “coloro che hanno preso di mira innocenti [musulmani] in una moschea non possono mai essere veri musulmani”. Si riferiva all’assalto suicida del 10 gennaio in una moschea che aveva mietuto 15 vittime.
È solo una delle tante affermazioni secondo cui il terrorismo islamico sarebbe molto più politico che religioso. Nel 2016, quando l’ennesimo attacco terroristico aveva provocato la morte di musulmani in Bangladesh, il primo ministro, lo sceicco Hasina, dichiarò che “chiunque crede nella religione non può compiere un simile atto. Non hanno alcuna religione, la loro unica religione è il terrorismo”.
Forse è stato Barack Obama a sintetizzare meglio il concetto: lo Stato Islamico “non parla a nome dell’islam”, blaterò dopo l’attacco terroristico di San Bernardino nel dicembre 2015, 14 morti. “Sono criminali e assassini, adepti di un culto della morte. Inoltre, la stragrande maggioranza delle vittime del terrorismo nel mondo sono musulmane”.
I media occidentali sono stati particolarmente garruli su questo punto. Dopo l’attacco terroristico di Parigi del novembre 2015, che ha causato la morte di 130 persone, il britannico “Independent” pubblicò un articolo intitolato Attentati di Parigi: ISIS provoca più morti musulmane che occidentali.
Secondo il “Daily Beast”, “Prima dell’orrore di Parigi, ISIS uccideva musulmani ogni giorno. Noi musulmani disprezziamo questi pazzi più di chiunque altro. Ma le principali vittime di questo barbaro gruppo terroristico sono proprio i musulmani. Ciò è indiscutibile”.
Oltre a tenere ben distinto l’islam dalla violenza (è impensabile che i veri maomettani possano ammazzare i loro correligionari in nome della jihad), siffatta argomentazione affossa ulteriormente la questione di chi sia la vera vittima del terrorismo islamico: perché dipingere il massacro musulmano di non musulmani – siano essi europei, americani, israeliani o minoranze cristiane sotto l’islam – come ideologicamente guidato da uno spirito “anti-infedele”, quando sono i musulmani stessi le principali vittime?
Il problema di questa tesi semplicistica, tuttavia, è che i musulmani “fratricidi” non vedono affatto i loro bersagli come musulmani. In realtà sunniti e sciiti si considerano reciprocamente falsi credenti o, nella migliore delle ipotesi, eretici che dovrebbero sottomettersi al “vero islam”. Da qui la loro guerra perenne. Mentre gli espertucoli occidentali tendono a raggrupparli tutti assieme quali “musulmani”, giungendo così all’errata conclusione che i gruppi jihadisti non siano islamici perché uccidono i “compagni musulmani”, ciascun gruppo vede l’altro come nemico.
Un detto attribuito al profeta Maometto conferma la suddetta opinione: “Questa mia umma [nazione] si dividerà in settantatré sètte; una andrà in paradiso e settantadue andranno all’inferno”. Alla domanda su quale setta fosse quella vera, il profeta rispose: “al-jama’a”, ossia il gruppo che più letteralmente segue l’esempio o sunna di Maometto.
Ciò ha portato a takfir, parola araba che ogni maomettano teme, e che salta fuori ogni qual volta un individuo o un gruppo musulmano accusa un altro individuo o gruppo musulmano di essere kuffar, ovvero non musulmano, infedele, il cui sangue può essere versato impunemente. Takfir ha accompagnato l’islam fin dai suoi albori, a partire dai khawarij (kharigiti) – che massacravano ritualmente i correligionari che non seguivano alla lettera la legge – ed è stato ed è tuttora la logica principale utilizzata per giustificare la jihad tra diverse nazioni e imperi musulmani nel corso della storia.
In altre parole, quando i sunniti o gli sciiti si massacrano a vicenda, lo fanno con la stessa identica logica di quando massacrano le minoranze cristiane o i cittadini europei, americani, israeliani: tutti quanti sono infedeli che devono abbracciare la vera fede, essere soggiogati, o morire.
Ad esempio, nel novembre 2017 lo Stato Islamico ha rivendicato il bombardamento di una moschea sufi in Egitto che ha causato la morte di oltre 300 persone. Qualche tempo prima, un comandante dell’ISIS distaccato nel Sinai aveva descritto l’odio del suo gruppo per i sufi e le loro pratiche, tra cui la venerazione delle tombe, l’uccisione sacrificale degli animali e ciò che egli definiva “stregoneria e divinazione”. L’ISIS ha sempre considerato il sufismo come una “malattia” che deve essere “sradicata”. Tanto che un anno fa decapitò Sulayman Abu Hiraz, un religioso sufi ultracentenario, con l’accusa di stregoneria.
Se fin dall’inizio i musulmani si sono massacrati tra di loro con l’accusa di non essere “abbastanza islamici” o islamici del “tipo” sbagliato, figuriamoci quali agghiaccianti prospettive attendano gli infedeli occidentali…