foto di Giuseppe Russo
Nelle alte valli del Pakistan, nell’angolo nord-occidentale che confina con l’Afghanistan, si estende la Kalash Valley, un comprensorio all’interno del sistema montuoso dell’Hindū-Kūsh. Si tratta del Kalasha Desh, più noto come Kafiristan, dove sorgono alcuni villaggi di etnia kalash. Parecchi abitanti presentano tratti somatici europei con capelli biondi e occhi blu, a costituire una vera anomalia rispetto al resto del Pakistan. La loro origine è controversa. La leggenda dice che alcuni soldati al seguito di Alessandro Magno si fermarono in questi luoghi nel IV a.C. transitando sulla via del Subcontinente Indiano e, mescolandosi con la gente del luogo, diventarono progenitori degli attuali kalash.
I kalash praticano una peculiare religione sciamanica e politeista, hanno una cultura unica al mondo e mostrano un atteggiamento gioioso verso la vita, ciò che li classifica inequivocabilmente come kafir, termine dispregiativo arabo che vuol dire “infedele” e con cui viene chiamato chi non è musulmano. Considerati gli ultimi pagani al mondo, conservano persistenti tracce del culto degli antenati e del fuoco, nonché un pantheon affollato di dèi e spiriti minori, subordinati a Khozai, il Creatore. I kafiri considerano la dea Jestak protettrice dei loro figli e delle loro case, e a lei, come ad altre divinità, sacrificano le capre nelle occasioni importanti.
Le donne vestono i loro tradizionali abiti neri, shalwar kameez, stretti in vita da una fascia colorata, con collane multicolori e in testa uno zucchetto decorato con cipree e monete. Gli uomini invece vestono sostanzialmente alla stessa maniera dei loro vicini monoteisti, salvo per un piccolo particolare distintivo: un ornamento – fiore o nastrino – che appongono sul pakol, il tipico berretto di panno.
La gente di qui crede che il dio pastorale Sorizan protegga le greggi durante l’autunno e l’inverno. Un’altra divinità, Goshidai, le protegge invece durante le stagioni estive e primaverili. I kafiri amano la musica e le danze al ritmo dei tamburi al punto tale da organizzare feste per ringraziare e onorare le loro deità, coincidenti con le 4 stagioni: le più note, il Chilam Joshi di maggio e il Chilam Uchal di agosto. Durante ogni Festival, in un angolo del charsu (grande spiazzo pubblico di ogni villaggio) dove si balla con ritmi sfrenati, gli uomini più anziani e le sciamane del villaggio si riuniscono, cominciando una lenta nenia molto suggestiva, cui segue un flebile raccontarsi di storie e aneddoti passati, tramandandosi oralmente la loro tradizione. Uomini e donne si prendono a braccetto, formando catene umane e cerchi ondeggianti al ritmo del canto. Intorno, i capi tribali in abiti coloratissimi narrano storie del passato. Al loro centro sta il kasi, cantastorie e guardiano delle tradizioni, una vera enciclopedia vivente che canta centinaia di bidra kalein, i racconti mitologici apprezzatissimi dalla comunità.
Una curiosità: tra i kalash, che vivono sparsi nei villaggi di tre distinte valli, quando le persone si incontrano dopo tanto tempo praticano il baciamano, considerato un gesto di cortesia, saluto e rispetto. Questo accade tra donne, ma anche da parte di una donna nei confronti di un uomo anziano e viceversa, in ossequio all’età della persona.