La terza Lettera Enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti del 3 ottobre scorso, composta da 287 punti, nel suo insieme è una lunga teoria di autocitazioni.
Dalle prime valutazioni fatte al documento di Bergoglio emerge la comune critica che egli si sia mosso all’interno di una visione terrena priva della prospettiva celeste. Nella prolissa esposizione, al cristianesimo viene lasciato un breve spazio di manovra che limita la propria azione a una morale genuflessa davanti al pensiero neo-umanista. Una dottrina in cui l’uomo non partecipa alla certezza della Volontà Salvifica di Dio ma, assai più modestamente, a una pia opera terrena. Bergoglio invita il popolo di Dio a mantenere una rotta umanista nel contesto sociale, ma lo fa tradendo una costante e incomprensibile preoccupazione aconfessionale: la canonizzazione del mondialismo. Cosa che non si sposa con la ragione sociale della Chiesa: l’universalità.
Leggendo Fratelli tutti non stupisce che, per esempio, la Gran loggia massonica di Spagna, elogiando il documento, abbia potuto affermare: “L’Enciclica abbraccia la Fratellanza Universale, il grande principio della moderna [massoneria] riconoscendo la dignità di ogni persona umana […] in un desiderio di fratellanza mondiale”. Al proposito è intervenuto l’arcivescovo Carlo Maria Viganò: “Questa Enciclica è il manifesto ideologico di Bergoglio; ha scritto la sua professione di fede massonica, e la sua candidatura alla presidenza della Religione universale, ancella del Nuovo Ordine Mondiale”.
Volendo sorvolare sul buon Viganò, c’è da chiederci come sia stato possibile intitolare un paragrafo di una lettera enciclica papale con il motto laico della rivoluzione francese “libertà, uguaglianza e fraternità”. Pio IX con la sua enciclica Quanta Cura del 1864 – che stigmatizzava la rivoluzione francese e considerava l’illuminismo come “libertà di perdere sé stessi” – si starà rivoltando nella tomba… Bergoglio avrà pur avuto uno straccio di monsignore o di cardinale che lo dissuadesse dallo scrivere le tre parole che caratterizzano l’evento nefasto modernista che ha trasformato l’Occidente in senso laicista e anticristiano…
“Coerentemente”, egli evoca una governance mondiale e nel solco della fratellanza universale fa un affondo rispetto alla proprietà privata, come già in Laudato si’, citando San Giovanni Paolo II quando nel 1979 mise in relazione il diritto di proprietà con la visione cristiana del mondo attraverso la sua finalità sociale: “La Chiesa difende sì il legittimo diritto alla proprietà privata, ma insegna anche che su ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale”. Bergoglio cita il Papa polacco a sostegno dei suoi disegni, aggiungendo che l’enciclica di cui parliamo gli sia stata ispirata da San Francesco. Quale migliore aggancio alla povertà e alla fratellanza, a parte la carenza di nesso tra epoche, luoghi e contesti storici differenti? Per un pelo non cita Michele da Cesena, ministro generale dei Francescani, che nel 1322 appoggiò al capitolo di Perugia gli “spirituali” sulla povertà di Cristo.
Comunque sia, colui che ha assunto il nome del Poverello d’Assisi, come nessun pontefice nella storia ha mai osato fare, ne fa un esempio d’integrazione riferendosi alla famosa visita in Egitto al sultano Malik-al-Kamil. L’impresa, compiuta nel periodo delle crociate, dimostrò il coraggio di S. Francesco il quale, mosso dalla fede in Gesù Cristo, incontrò il sultano senza negare la propria identità religiosa nei confronti dei saraceni o di altri infedeli. Secondo San Bonaventura, con mitezza non abbassò la sua fede a livello dell’interlocutore ma cercò di convertirlo a Cristo; infatti fu molto attivo nel proselitismo, pratica invisa al papa gesuita in quanto “grosso peccato contro l’ecumenismo” (sic!).
Scrive Bergoglio in Fratelli tutti: “Speriamo che il seme di San Francesco cresca in tanti cuori”. Tuttavia egli non può manipolare la realtà storica riducendo il Santo di Assisi a un membro della Comunità di Sant’Egidio. Dice di aver concepito l’enciclica grazie allo “stimolo speciale” del Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, con il quale il 4 febbraio 2019 firmò ad Abu Dhabi il discusso Documento sulla fratellanza umana. In effetti, che un pontefice abbia scritto, in calce a un’enciclica, che un documento magisteriale del cattolicesimo sia stato “stimolato” da un imam supera davvero ogni fantasia interreligiosa post-conciliare. Non v’è dubbio che molte verità su Dio e sulla legge morale siano state conosciute dai pagani e contenute in altre religioni, e che è possibile sperare nella Sua Bontà. Nessuno può escludere che Egli, nella sua Immensa Misericordia – concetto gradito a Francesco – non possa donare la salvezza eterna al di fuori della Chiesa visibile; ma scrivere che “il pluralismo e la la diversità delle religioni sono volute da Dio nella sua saggezza”, vuol dire non riflettere abbastanza sul significato, sul peso delle parole e sulle immani conseguenze che queste possono causare al Depositum Fidei.
Mondialista a singhiozzo
Nel primo capitolo, Sottomissioni e disprezzo di sé, si coglie una contraddizione. Bergoglio scrive: “Alcuni Paesi forti dal punto di vista economico vengono presentati come modelli culturali per i Paesi poco sviluppati invece di fare in modo che ognuno cresca con lo stile che gli è peculiare […] si riscontra l’incapacità di accettare caratteristiche e processi propri, cadendo in un disprezzo della propria identità culturale, come se fosse la causa di tutti i mali […] Si dimentica che non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno”.
Musica per le nostre orecchie di etnisti.
Ma nel capitolo secondo, Un estraneo sulla strada, cambia registro e cita la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37). “Nella tradizione ebraica, come sappiamo, amare l’altro e prendersene cura si limitava alle relazioni tra i membri di una medesima nazione”. Secondo la sua esegesi, nel giudaismo sviluppatosi fuori d’Israele il concetto si sarebbe mutato nell’invito a “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” (cfr Tb 4,15). E prosegue: “Il desiderio di imitare gli atteggiamenti divini portò a superare la tendenza a limitarsi ai più vicini”; e ci invita a guardare all’“altro”, senza fermarsi in prossimità di sé stessi. Prossimità che diventa lontana rispetto alla concreta sofferenza del vicino. Come non essere d’accordo con il precetto di amare il prossimo? Certo, ma non si vuole risultare agnostici, e il papa non può sospendere il giudizio su Dio. Infatti l’amore per il prossimo – in tutte le sue forme – è per il cattolicesimo un bisogno secondario, essendo il bisogno primario il perseguimento della salvezza eterna. Detto questo, Bergoglio, dicendosi a favore di una governance mondiale, va oltre: non si fa scrupolo di definire gli autoctoni dei “narcisisti” che vivono da “eremiti localisti” o appartenenti alla “cerchia dei soci”. Al contrario, il reiterato richiamo ai rifugiati riduce, per sottrazione, lo spazio vitale del nostro prossimo più prossimo: le nostre famiglie e la nostra comunità.
Nel suo apostolico messaggio egli non tiene conto di due gravi conseguenze. La prima è la ricaduta sociale di una impreparata “accoglienza” sulle fasce deboli della comunità locale, causando una guerra tra poveri. La seconda non valuta l’impatto del meticciato, che ha risvolti anche sotto il profilo teologico del cattolicesimo: come si è verificato durante il Sinodo dell’Amazzonia che ha rischiato, in quell’evento, di mutarsi da religione di Dio a segmento sincretico oppure in un’organizzazione secolare ecologico-panteistica. In siffatto contesto, l’attuale Romano Pontefice ha pensato bene di partecipare il 5 ottobre a San Pietro a una sorta di “via crucis amazzonica”, con tanto di statuetta lignea di una donna nuda, simbolo indigeno della Pachamama, la Madre Terra.
Comunque sia, al punto 100, in un passaggio rivelatore delle vere intenzioni del gesuita, si afferma: “Non sto proponendo un universalismo autoritario, dettato o pianificato da alcuni e presentato come un presunto ideale allo scopo di omogeneizzare e dominare”. Qui è fin troppo semplice cogliere il tentativo di lavarsi le mani dal vulnus che egli stesso ha inoculato dentro il cattolicesimo: quel mondialismo che nulla ha a che fare con l’universalismo. Non è possibile vivere “per l’altro”, se prima non si ha cura di sé stessi.
Criticando autoctoni e cattolici
L’enciclica ancora una volta elogia i non credenti, montando un processo alle intenzioni dei cattolici, dando per scontato la loro scarsa carità. Dice Bergoglio: “Il paradosso è che, a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti”. Questo è il suo chiodo fisso, come ha dimostrato nel gennaio del 2019 quando tuonò: “Meglio vivere come ateo anziché dare una contro-testimonianza dell’essere cristiani”. Molti cattolici – già messi a dura prova da scandali sessuali e finanziari gestiti da uomini di fiducia di Bergoglio, protagonisti di turpi traffici in quell’“impero del denaro” denunciato dal pontefice proprio in Fratelli tutti – sono rimasti naturalmente sconcertati da tale conclusione.
Dopo la rinuncia di Benedetto XVI, il nuovo papa eletto avrebbe dovuto riformare la Curia, ma sappiamo fin troppo bene che ogni riforma o cosiddetta tale ha favorito l’espoliazione del Divino a favore dell’umano. Francesco, anche con Fratelli tutti, a parte i papa boys o i cattolici “adulti”, lascia nei cattolici “semplici” un senso di provvisorietà. Non mentiva quando la sera dell’elezione, dal balcone di San Pietro, senza i paramenti confacenti a un papa, con posa da curato di campagna disse: “Vengo dalla fine del mondo”. Ed era vero!