Alla fine della scorsa settimana è giunta all’improvviso una buona e inattesa notizia dal Brasile: il missionario evangelico estremista Ricardo Lopes Dias è stato nuovamente sollevato dal suo incarico di capo dell’unità per i popoli incontattati del FUNAI (Fundação Nacional Do Índio), l’agenzia brasiliana ed ente governativo che avrebbe il compito di tutelare i diritti delle popolazioni native. Si tratta della seconda rimozione del funzionario: per questo la decisione assume una valenza notevole all’interno della diatriba che da mesi vede opposti, da una parte i popoli autoctoni e tutti coloro che, schierandosi apertamente al loro fianco, li continuano energicamente a sostenere con azioni concrete, dall’altra il governo centralista di Bolsonaro che sta intentando una vera e propria battaglia contro questi ultimi al fine di cacciarli dalle loro terre ancestrali.
Questa situazione rientra in un più ampio disegno complessivo dello stesso presidente, deciso a eliminare le tribù indigene per favorire lo sfruttamento commerciale dell’Amazzonia vendendo i terreni a società estrattive e dell’agro-business, nonché a privati allevatori e minatori. Per portare avanti il suo meschino disegno, lo scorso gennaio egli ha una prima volta nominato Lopes Dias allo scopo di affidare la gestione degli affari indigeni a una persona a cui chiaramente non importa nulla del loro benessere. Dias infatti è ancora strettamente legato a New Tribes Mission (oggi meglio conosciuta negli USA come Ethnos 360), una delle organizzazioni missionarie più estremiste del mondo che ha come obiettivo primario la conversione forzata dei popoli isolati, da ottenersi con ogni mezzo e a qualsiasi prezzo. In tal modo Bolsonaro si era assicurato un uomo di fiducia da poter controllare per orchestrare i suoi progetti economici in Amazzonia.
La nomina e il contingente pericolo per i nativi aveva scatenato fin da subito le proteste di buona parte dell’opinione pubblica nazionale e mondiale, che era passata immediatamente ad azioni concrete capeggiata da Survival International, l’organizzazione che difende la vita e i diritti dei popoli indigeni e delle tribù incontattate di tutto il pianeta. Survival, insieme a diverse associazioni locali tra cui l’UNIVAJA (l’organizzazione indigena della Valle Javari), si era rivolta ai giudici dell’Alta Corte chiedendo l’allontanamento del funzionario. La mobilitazione creata intorno alla questione era stata notevole, soprattutto sui social, con oltre 10mila mail inviate al governo, e aveva fortunatamente prodotto il risultato auspicato lo scorso fine maggio.
Il giudice Antonio Souza Prudente aveva stabilito che la nomina di Dias era illegale rimuovendolo immediatamente dal suo ruolo una prima volta. Nella sentenza veniva espressamente sottolineato che il soggetto costituiva una grave minaccia per i popoli isolati, e la nomina stessa palesava un evidente conflitto d’interessi: la procura aveva accertato legami comprovati tra Dias e New Tribes Mission con il suo piano di evangelizzazione forzata delle etnie incontattate, tra cui gli yanomami.
Tuttavia solo dopo qualche mese la decisione, sotto pressioni governative, era stata annullata e Dias aveva ripreso il posto di capo del dipartimento degli Affari indigeni, continuando indisturbato il suo quanto mai discutibile operato. Infatti, oltre al disegno neanche troppo velato di espulsione dei popoli indigeni dietro cui si intravede Bolsonaro, alcune fonti interne al FUNAI hanno dipinto Dias come un personaggio arrogante e piuttosto incompetente in materia di politiche per gli autoctoni: è sotto gli occhi di tutti la sua pessima gestione della pandemia, non avendo saputo assicurare la necessaria attività di prevenzione per la diffusione del Covid-19 tra i popoli incontattati.
Inoltre è emerso come il missionario si sia recato in settembre nella Valle Javari per una visita clandestina, probabilmente per tentare conversioni forzate in un’area in cui vive la più alta percentuale di popoli isolati della Terra.
Il crescente malumore per il secondo mandato di un fondamentalista e la costante pressione ancora una volta esercitata da Survival e UNIVAJA, che si sono rese protagoniste di una nuova agguerrita campagna, hanno fortunatamente portato alla rimozione: un’indiscussa grande vittoria per tutti. La notizia è davvero importante in quanto, per la seconda volta, si è riusciti a far allontanare un diretto rappresentante di Bolsonaro e dei suoi piani, quantomeno rallentandoli e tutelando così i bersagli designati, cioè i popoli nativi.
Tuttavia la contesa non è risolta neanche con il successo della rimozione di Dias: il pericolo esiste ancora, incarnato da minatori, cercatori d’oro e trafficanti di legname che entrano e si aggirano illegalmente nei territori dei gruppi isolati rischiando, soprattutto in questo particolare periodo storico, di diffondere ulteriormente il coronavirus al loro interno. Anche questa delicata situazione non è disconnessa dalle attività del presidente Bolsonaro: è dalla sua elezione, nel gennaio 2019, che sono aumentate le pressioni governative per aprire le terre indigene allo sfruttamento minerario, agricolo e boschivo, utilizzando anche i missionari cristiani evangelici come Dias che hanno moltiplicato i loro sforzi per raggiungere le tribù.
Questo quadro è incoraggiato dal massiccio consenso e dall’ingente supporto economico della destra evangelica nei confronti del presidente e delle sue idee.
Il problema – gravissimo – è che proprio nell’Amazzonia brasiliana risiedono la maggioranza dei popoli isolati del mondo, stanziati nelle ultime porzioni significative di foresta ancora esistenti: negli ultimi due anni questi luoghi vengono continuamente minacciati, oltre che da minatori e trafficanti di legname, anche da allevatori e accaparratori di terra che stanno distruggendo il polmone verde del mondo giorno dopo giorno, mettendo in grave pericolo gli autoctoni.
Queste etnie, come dicevamo, negli ultimi mesi appaiono ancor più a rischio di scomparsa in quanto, essendo assai vulnerabili, possono essere più facilmente decimate dal coronavirus. Non dimentichiamo che il Brasile è al terzo posto mondiale (dopo Stati Uniti e India) per numero complessivo di persone contagiate (oltre 6 milioni) e addirittura secondo per numero di morti con oltre 173mila decessi; e soprattutto, il virus ha raggiunto e colpito anche la regione amazzonica fin dalla prima fase della pandemia a marzo e aprile scorso, insinuandosi in alcune tribù isolate e mietendo diverse vittime.
Risulta accertato che il coronavius è stato introdotto in questi territori proprio dai minatori e dai trafficanti illegali, e pertanto lo scorso giugno gli stessi yanomami si sono mobilitati per fronteggiare l’ingiustizia: hanno lanciato una campagna mondiale per espellere i circa 20mila cercatori d’oro che hanno invaso i loro luoghi ancestrali. Già all’epoca infatti si temeva che l’epidemia potesse portare alla morte migliaia di yanomami e membri della vicina comunità ye’kwana che abitano nella medesima area. 1)
Una ricerca connessa e diffusa simultaneamente al lancio dell’iniziativa ha rivelato che sono realmente migliaia le potenziali vittime yanomami stanziate nei pressi delle zone di estrazione mineraria illegale e che, di conseguenza, la loro terra si connota come la porzione più vulnerabile al virus di tutta l’Amazzonia. L’area infatti era stata invasa a partire dagli anni Ottanta dai famigerati cercatori auriferi, i quali portarono in dote la malaria che uccise un quinto della popolazione yanomami del Brasile.
Nel dettaglio, oggi i minatori sono al lavoro principalmente nei pressi della comunità dei moxihatatema, una tribù di yanomami al confine con il Venezuela che ha da sempre vissuto in ferreo isolamento cercando di evitare qualsiasi contatto con l’esterno, e proprio per questo dotata di difese immunitarie pressoché nulle. Gli Stati brasiliani di Amazonas e Roraima, dove risiedono le diverse comunità yanomami, sono risultati tra i più colpiti dal Covid-19, e i numeri della scorsa primavera che parlavano di circa 2500 morti è praticamente assodato non corrispondessero al vero, con il fondato sospetto che fossero più del doppio.
Diverse associazioni yanomami e ye’kwana hanno quindi promosso questa fondamentale campagna, fortemente supportata da numerose organizzazioni in tutto il mondo tra cui, su tutti, la stessa Survival. Il messaggio ha inondato i principali social network con gli hashtag #ForaGarimpoForaCovid (“fuori i minatori, fuori il Covid”) e il più internazionale #MinersOutCovidOut: l’obiettivo è raccogliere 500mila firme per la petizione con cui chiedere a Bolsonaro di espellere i garimpeiros dai territori indigeni. 2)
Ma la realtà è che i popoli autoctoni sono stati abbandonati a loro stessi proprio dal governo centrale, che ha favorito l’attività estrattiva e l’invasione dei territori indigeni introducendo un disegno di legge atto a svendere le loro terre in favore dell’allevamento, dell’agricoltura, del taglio del legname e della stessa estrazione aurifera. Inoltre non ha elaborato un adeguato programma di prevenzione studiato appositamente per evitare che i popoli isolati amazzonici entrassero in contatto con il virus.
Oggi, ad autunno inoltrato, la situazione si è ulteriormente aggravata e la negligenza delle autorità si è tradotta in una notevole sottostima dei casi di Covid-19 (in alcune aree neanche quantificati), con pochissimi test diagnostici effettuati e la perenne mancanza di farmaci e personale sanitario qualificato. In merito a questo vergognoso comportamento, le ultime evidenze testimoniano che sono state esposte al virus più di 10mila persone, ovvero un terzo della popolazione complessiva yanomami; tra agosto e ottobre i casi confermati sono vertiginosamente aumentati da 335 a 1202; meno del 4,7% degli abitanti del territorio sono stati sottoposti a un test.
La conseguenza è che il coronavirus è ormai largamente dilagato nelle tre regioni con la più elevata concentrazione di miniere illegali, ovviamente importato dai minatori: il popolo incontattato degli yanomami rischia davvero l’estinzione. Per questo è fondamentale continuare a esercitare forti pressioni sul governo, in quanto la loro sopravvivenza dipende direttamente dall’espulsione dei cercatori d’oro.
È quindi indiscutibile che la rimozione di un missionario fondamentalista e per di più decisamente incompetente come Dias abbia rappresentato un importante successo nella lotta all’oppressione dei nativi; ma, vista la grave minaccia cui sono ancora soggetti gli yanomami, non risulta sufficiente. Sperando che stavolta l’allontanamento sia definitivo, soprattutto in questo difficile periodo segnato dalla pandemia, bisogna continuare a lottare per il diritto dei popoli isolati di vivere in pace nei propri territori, di non essere invasi né scacciati da essi per nessun motivo, tanto meno di carattere politico ed economico.
N O T E
1) Gli ye’kwana sono un gruppo etnico che vive isolato nella foresta amazzonica, insediato nello Stato di Bolivar in Venezuela e nella parte nord-orientale di quello di Roraima in Brasile. Parlano un idioma appartenente alla famiglia linguistica caribe.
2) Garimpeiro è il termine solitamente utilizzato in Brasile per indicare un cercatore illegale d’oro o di pietre preziose. Deriva dal portoghese garimpo che significa “esplorazione geologica manuale”.