Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire.
Parimenti, sull’altra sofferta questione se sia nato prima il capitalismo o lo sfruttamento, le gerarchie sociali eccetera, propendo – come mi pare sostenga anche Ocalan – per assegnare la primogenitura alla gerarchia, al potere. Ma come le galline disseminano di uova il pollaio e le immediate vicinanze, così il capitalismo ha diffuso a pioggia l’oppressione nelle sue svariate e molteplici forme.
E arriviamo al Rojava: un enigma geopolitico sospeso tra mille buone ragioni e qualche “effetto collaterale” magari indesiderato. Tra la guerra e l’autogestione, la resistenza e l’ecologia, il rifiuto delle gerarchie e la necessità dell’autodifesa, la rivoluzione delle donne e le milizie in armi… Un “groviglio” non indifferente.
Per districarci, orientarci, capirne qualcosa, abbiamo scandagliato la mappa realizzata da Norma Santi e Salvo Vaccaro, La sfida anarchica nel Rojava, pubblicato da La Biblioteca Franco Serantini. Un documento sull’esperimento sociale – audace e avventuroso, ma non avventuristico – intrapreso dai curdi e dagli altri popoli presenti nella regione considerata (il Rojava ovviamente, ma si parla anche del Bakur e dei Monti Qandil).

L’intervento di Raul Zibechi

Con il suo contributo Raul Zibechi affronta un enigma. Perché mai eventi di tale portata (“il popolo in armi, il ruolo di spicco delle donne, l’autogoverno”) vengano a manifestarsi in coincidenza con tempi duri e condizioni difficili, se non addirittura disperate (“durante una guerra, in una situazione estremamente critica per la sopravvivenza)? Ma del resto lo stesso più o meno avvenne anche in Ucraina nel ’21 e in Catalunya nel ’36.
I precedenti sono relativamente noti: accordi segreti Sykes-Picot del 1916, Trattato di Sèvres del 1920, Trattato di Losanna del 1923, Trattato di Residenza Forzata imposto dalla Turchia nel 1930, le numerose – una trentina – rivolte tra il 1920 e il 1940, l’insurrezione di Dersim nel 1938, la repressione turca degli anni ottanta e novanta…
Arrivando ai nostri giorni, lo scrittore uruguayano spiega come dalla evaporazione delle strutture statali nel nord della Siria (2011) sia derivata l’occasione per formare le Unità di Protezione del Popolo (YPG) e le Unità di Difesa delle Donne (YPJ), le milizie che l’anno dopo avrebbero liberato Kobane e altre città. Di conseguenza, anche la possibilità per il PYD (Partito dell’Unione Democratica) e il KNC (Consiglio Nazionale Curdo) di amministrare in base ai princìpi del confederalismo democratico (ossia del municipalismo libertario). E, nel gennaio 2013, l’opportunità storica per i cantoni di Jazira, Efrin e Kobane di proclamare la loro autonomia. Tra le macerie (le “rovine” che non spaventavano Durruti e compagni) della guerra civile, i curdi avevano cercato e individuato la “loro strada attraverso l’autogoverno”. Un esempio di possibile convivenza pacifica tra curdi, arabi, aramaici, armeni, turcomanni, ceceni…
Quanto al cambiamento di paradigma, non solo politico, operato dal PKK (per inciso: precedente alla carcerazione di Apo) secondo Zibechi costituì un elemento che doveva scatenare la “reazione furibonda degli Stati Uniti e dei loro alleati che decisero di definirlo terrorista e di perseguire il suo dirigente Abdullah Ocalan”. I fatti successivi sono noti. Espulso dalla Siria e anche dalla Russia, dopo un breve soggiorno in Italia (da fonti ben informate, in un primo momento D’Alema aveva garantito a Bertinotti l’asilo politico per il leader curdo perseguitato), Ocalan venne sequestrato, con un’operazione attribuita alla CIA e al Mossad, mentre dall’ambasciata greca in Kenya si recava in Sudafrica su invito di Nelson Mandela.
Secondo Zibechi, quindi, il PKK costituirebbe un serio problema per l’imperialismo in quanto “ora possiede una proposta per tutti i popoli del Medio Oriente”. E riporta, a conferma, le “quattro critiche” allo Stato-nazione mosse dal movimento di liberazione curdo. In sintesi: qualsiasi Stato si fonda sul dominio di una classe, presuppone il dominio di un gruppo etnico o religioso sopra gli altri, tutti gli Stati poggiano sul patriarcato, lo Stato ha necessità di un’economia produttivistica che porta alla distruzione della madre terra.
Da cui si deduce che fatalmente “non si può farla finita con il capitalismo senza eliminare lo Stato e non possiamo liberarci dello Stato senza liberarci del patriarcato”. Amen.
Senza dimenticarsi di rimproverare ai partiti della sinistra turca, pure della sinistra rivoluzionaria, una conclamata inadeguatezza di fronte alla questione curda. Al contrario, proprio la resistenza e l’autogoverno dei curdi sia in Rojava sia in Bakur sembrano aver ridestato la sinistra turca, rimasta a lungo in difficoltà dopo il golpe del 1980.
Tra i vari contributi nel libro – osservo – prevalgono quelli di autori statunitensi: Debbie Bookchin, Paul Z. Simons (giornalista anarchico, scomparso nel marzo 2018), Janeth Biehl, Marcel Cartier, David Graeber (antropologo e attivista libertario, scomparso a Venezia nel settembre 2020), il sito itsgoingdown.
Non è detto che siano esattamente i più indicati per comprendere tali dinamiche. È possibile infatti che La Commune, Kronstadt, la Maknovicina, le collettivizzazioni in Catalunya e Aragona del ’36-’37, eccetera – sconfitte, ma comunque fonte di ispirazione per quanto si va realizzando in Rojava –siano esperienze riconducibili più alla tormentata, secolare storia delle classi subalterne europee che alla “nuova sinistra” statunitense del secolo scorso. Magari una “prosecuzione con altri mezzi” delle jacqueries del 1300, delle guerre contadine e delle insorgenze ereticali, piuttosto che di quel “turbinio di cattivo acido, al mandarino, di amore libero e della famiglia Manson” che – come doveva ammettere il compianto Paul Z. Simon – contraddistinse le “comuni” nordamericane.

Il basco di Murray Bookchin

E comunque, lo ammetto, ci sono nordamericani e nordamericani.
Attraverso la testimonianza della figlia, veniamo informati dell’origine del rapporto tra il leader curdo Ocalan e il pensatore anarchico statunitense ma di origine russa Murray Bookchin (che molti di noi ricordano, basco in testa, a Venezia nel 1984 per il convegno anarchico internazionale).
Debbie Bookchin, esponente dell’Institute for Social Ecology, qui racconta di quando Murray le rivelò che “apparentemente i curdi hanno letto il mio lavoro e stanno cercando di mettere in pratica le mie idee”. Un corpo di idee che il filosofo e storico aveva denominato “ecologia sociale”.
In quei giorni (aprile 2004) Bookchin padre aveva ricevuto una lettera da un intermediario – un traduttore tedesco, Reimar Heider – che scriveva a nome del militante curdo imprigionato a Imrali.
Comprensibile un certo iniziale stupore, visto e considerato che fino ad allora nulla dell’ideologia del fondatore del PKK “sembrava in alcun modo assomigliare a quella di mio padre”.
Invece, come spiegò Heider, “Ocalan stava leggendo le traduzioni turche dei libri di mio padre in carcere e si considerava un suo bravo studente”. 1) Libri che Ocalan aveva potuto ottenere in carcere in quanto necessari alla preparazione di una strategia legale per la propria difesa durante il processo per tradimento. Individuando così nella formazione e sviluppo dello Stato-nazione (a partire dalle prime espressioni conosciute in Mesopotamia, in contemporanea con la nascita dell’agricoltura, dell’allevamento, della schiavitù, dell’oppressione delle donne) le origini storiche del conflitto turco-curdo ed elaborando una soluzione democratica per ristabilire un rapporto di reciproco rispetto e di convivenza.
Il cammino intrapreso dal PKK fino ad approdare nel 1998 al confederalismo democratico, era iniziato nei primi anni novanta (quindi, ripetiamo, prima della cattura di Ocalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva, tra l’altro, i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda Debbie Bookchin, “sei milioni sono curdi” e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo la giornalista, “la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan”. Ne consegue pertanto che “la lotta principale non è più nazionale, ma sociale”. Un’opportunità concreta di emancipazione anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati che – senza esser curdi – subiscono il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.
Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro personale tra i due libertari. Bookchin era già anziano e con problemi di salute, Ocalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare. Nell’ultima lettera al “Mandela curdo” Murray aveva scritto:

La mia speranza è che il popolo curdo possa un giorno essere in grado di creare una società libera e razionale che permetta al loro splendore ancora una volta di prosperare. Hanno la fortuna di avere un leader del talento di Ocalan per guidarli.

Alla morte di Bookchin (30 luglio 2006), il PKK lo volle ricordare con una dichiarazione – dettata dallo stesso Ocalan – di due pagine in cui lo definiva “uno dei più grandi scienziati sociali del ventesimo secolo”.
E aggiungeva:

Ci ha introdotti al pensiero dell’ecologia sociale, e per questo verrà ricordato con gratitudine dall’umanità. Ci impegniamo a far vivere Bookchin nella nostra lotta. Metteremo questa promessa in pratica come la prima società che stabilisce un tangibile confederalismo democratico.

Le donne curde contro ogni forma di oppressione

Particolarmente incisivo l’intervento della sociologa curda Dilar Dirik, ricercatrice al dipartimento di Sociologia di Cambridge. Letteralmente incisivo, in quanto – se interpretato correttamente e compiutamente – incide, penetra e scava nelle coscienze estirpandovi processi mentali consolidati, introiettati sia dalle possibili vittime sia dai potenziali carnefici.
Spiega, in sintesi, cosa sia la gineologia, “scienza e paradigma delle donne” derivante dal curdo jineolojî (jin significa “donna”).
Constatato e verificato che “il sistema educativo, la meccanicizzazione dei nostri pensieri e del loro flusso, sono strutturati per generare oppressione, patriarcato”, il movimento delle donne curde crede si debba “formulare un nuovo paradigma di lotta orientato non solamente contro qualcosa – ad esempio capitalismo e Stato – ma anche a costruire qualcosa, un’alternativa”. Per questo servono strumenti con lo stesso meccanismo della scienza, ma nello stesso tempo “contrari a come l’attuale scienza sociale lavora”; non potendo, secondo Dilar Dirik, “usarne la stessa epistemologia e le stesse categorizzazioni”.
Da cui l’esigenza di un “nuovo linguaggio” che non sia inaccessibile, astratto, di un “nuovo femminismo che possa essere coinvolgente e avere un impatto sulla vita, ad esempio, di mia nonna, della mia vicina, della donna che muore di fame per strada o che ha dieci figli”. Niente a che vedere con l’Accademia, insomma. Accademia che attualmente sarebbe in parte concepita “per tenere sotto controllo i pensieri di sinistra e radicali”.
Invece con la gineologia “noi vogliamo rendere visibile un nuovo approccio alla scienza, un nuovo paradigma su come la scienza sociale può funzionare”. Perché la scienza non può limitarsi a decifrare la società, ma dovrebbe “analizzare veramente la complessità della società stessa e i meccanismi che la rendono così com’è”. Individuando, mettendo a fuoco i collegamenti “non solo ontologici, ma anche gineologici tra gerarchia e Stato, democrazia, concetto di proprietà e il collegamento tra potere e conoscenza, e come questo impatta, soprattutto sulle donne, la natura, le comunità indigene e i poveri”.
Secondo la sociologa curda, nella stessa storia delle nazioni si ritrova “una corrente di pensiero per cui la scienza sarebbe un percorso lineare e lo Stato il culmine dell’evoluzione e fine di questo percorso”. Ossia il dogma che lo Stato rappresenti “la civilizzazione, la fede e la più alta espressione del progresso umano”. Frutto, questa convinzione legittimata da pensatori come Bacon e Descartes, della “divisione soggetto e oggetto, di un dualismo per cui l’uomo è soggetto mentre la natura è oggetto”.
Un pensiero dicotomico per cui “l’uomo è la mente, il soggetto, e la donna il corpo, l’oggetto; la mente è il soggetto, l’emozione è l’oggetto; lo Stato è il soggetto e la comunità, la società sono l’oggetto”.
Una dicotomia, un meccanismo di pensiero che inevitabilmente implica, stabilisce una gerarchia, in pratica “legittima la dominazione e la schiavitù, e naturalizza questi concetti facendo sì che molti movimenti – incluso in passato il PKK – siano arrivati a pensare che lo Stato significa libertà […] convincerci che siamo oppressi perché non abbiamo uno Stato, quando in realtà è lo Stato il problema”.
Questo, senza la pretesa di possedere “una nuova scienza rivoluzionaria”, ma piuttosto di imparare a utilizzare un “nuovo modo di interpretare la scienza, di dare valore alla conoscenza, di riarticolarla cercando di sovvertire il meccanismo gerarchico che le unisce al potere […] rendere il flusso di conoscenza più organico e orizzontale”.
Concetti della gineologia che acquistano ulteriore luminosità se espressi e applicati (attraverso la partecipazione alle case delle donne, alle comuni, ai consigli, alle milizie armate…) in un contesto dove le donne hanno dovuto affrontare il “sistema di Daesh basato sul fondamentalismo che utilizza la violenza sessuale, lo stupro come motivo di propaganda”. Le donne in Rojava vedono nella scienza sociale, nella gineologia il loro maggior strumento di autodifesa. Non nelle armi che tuttavia usano.
E la rivoluzione allora?
“Noi non crediamo”, spiega Diral Dirik, “che la rivoluzione sia una rottura nella storia imposta da un partito o da uno Stato poiché uno Stato non può essere fonte di giustizia. La maggior parte delle forme di oppressione negli ultimi 5000 anni della civiltà moderna sono state create dal concetto di Stato, molti meccanismi di sottomissione nascono con l’emergenza degli Stati”.
E ricorda che uno dei primi Stati “come concetto fu in Mesopotamia” dove vennero costruite le ziqqurat “strutturate come una piramide molto gerarchica e organizzata. In quel momento avvenne un enorme cambiamento, una transizione, una rottura storica; in quel momento sacerdoti uomini presero il monopolio della conoscenza, si costituì il primo esercito, le donne furono cancellate dalla scena e la proprietà privata cominciò a distruggere la morale e l’etica. Possiamo vedere come patriarcato, Stato e concetto di proprietà privata si alimentino a vicenda”.
Ma quasi contemporaneamente, circa 4300 anni fa, si sviluppava la prima parola che ha espresso il concetto di libertà: Amargi (sumero: “ritorno alla madre”). Proprio quando l’oppressione diventava un sistema, un’istituzione.
Da un certo punto di vista possiamo dire che da sempre coesistono “due forme di civiltà” (concetto espresso anche da Ocalan): la civiltà degli oppressori, quella dominante basata su gerarchia, dominazione, abuso di potere, e quella democratica, alternativa rispetto alla corrente dominante, fatta da “donne, poveri, artisti, esclusi, indigeni, una civiltà naturale e comunitaria”. E – aggiungerei – ribelli, rivoluzionari, fuggiaschi, dissidenti e refrattari all’ordine costituito. Anche banditi, talvolta.
Per cui potremmo anche dire che “la Gineologia rappresenta la vendetta, la nemesi della civiltà democratica contro quella dominante”: così, lapidaria, conclude Diral Didik.

Non per martirio (né pubblicità)

Altrettanto meritevoli di considerazione altri contributi internazionali e internazionalisti: latino-americani (l’uruguayano Raul Zibechi, già nominato), turchi (l’intervista a Devrimci Anarsiste Faaliyet), italiani (Norma Santi, Salvo Vaccaro, Eleonora Corace), curdi (oltre a Dilar Dirik, Hawzhin Azeer – citata in Rivoluzionari o pedine dell’Impero?), tedeschi e, presumibilmente, francesi (G.D. & T.L.).
Significative le interviste a chi materialmente “si è sporcato le mani”, come i militanti integrati nelle YPG, YPJ e IRPGF.
In Non per il martirio (a cura di Crime Thinc), oltre a spiegare le diverse motivazioni che spingono giovani turchi, europei, statunitensi, a combattere con i curdi, non si lesina qualche critica al comportamento di quelli che “provano un enorme piacere a mostrare i loro volti, posano con le armi in pugno e gongolano dei loro successi”. Spiegando che non sono mancati i casi di volontari che “hanno usato il conflitto nel Rojava per farsi pubblicità, che fa un po’ parte della logica dell’età del selfie e dei social media”. Questo ha permesso ad alcuni di loro (comunque una “piccola percentuale dei combattenti internazionali, in nessun modo rappresentativi delle motivazioni e delle azioni della maggior parte”) di “guadagnare piccole fortune scrivendo libri e usando la rivoluzione per i loro guadagni personali”. E questa, lo dicono fuori dai denti “è la peggior forma di avventurismo e di opportunismo”. Anche per rispetto a tutti gli internazionalisti morti combattendo contro il califfato (Daesh) o contro l’esercito turco. Tra cui molte compagne: Barbara Kistler, Andrea Wolf, Ivana Hoffman, Ayse Deniz Karacagil, Anna Campbell, Alina Sanchez…
Nel suo Poscritto Norma Santi ricorda in particolare gli anarchici caduti: Michael Israel, Robert Grodt, Haukur Hilarsson, Anna Montgomery Campbell (già ricordata), Sehid Sevger Ara Makhno, Lorenzo Orsetti.
Senza dimenticare altri cinque anarchici (Alper Sapan, Evrim Deniz Erol, Caner Delissu, Serat Devrim, Medali Barutcu) uccisi nella strage jihadista di Suruc (20 luglio 2015) costata la vita a 33 giovani turchi e curdi (membri della Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti) che intendevano portare aiuti ai civili evacuati da Kobane.
Per concludere, un’osservazione. Tra le righe de La sfida anarchica nel Rojava si coglie una preoccupazione ricorrente (e comunque legittima). Ossia quanto siano veramente “rivoluzionari” i compagni curdi. Quanto realmente “anticapitalisti”. E anche quanto realmente “libertari”, “consiliari” se non proprio anarchici.
Preoccupazione legittima – si diceva – ma forse talvolta eccessiva. Dato che non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni rivoluzionarie (YPG, JPG, PKK…), ma anche e soprattutto con un popolo. Un popolo che come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non).
Per i curdi rimane prioritario il fatto di resistere, sopravvivere. Sia agli eserciti statali sia alle milizie parastatali, così come alle squadre della morte; talvolta anche ad altri curdi, più o meno collaborazionisti (vedi in qualche caso il PDK).
Viceversa, andrebbe apprezzato, e molto, il fatto che in un contesto come quello mediorientale, e di questi tempi poi, qualcuno – se non un intero popolo, almeno una sua componente significativa – si auto-organizzi mettendo radicalmente in discussione le gerarchie consolidate: di Stato, di classe, di genere… e talvolta persino l’antropocentrismo.

N O T E

1) Oltre che da Bookchin, Ocalan sarebbe stato influenzato dal pensiero di Braudel, Wallerstein, Mies, Foucault. Presumibilmente anche da Hanna Arendt (le cui posizioni sulla “Terza rivoluzione” – un riferimento alla Comune di Kronstadt del 1921 – convergono con quelle espresse da Bookchin) e dal Comandante Marcos. Quest’ultimo a sua volta influenzato dal situazionismo di Guy Debord che – lo ricordava la figlia – fu tra coloro (cita anche Herbert Marcuse, Daniel Cohn-Bendit, Huey Newton) che con Bookchin ebbero uno scambio proficuo di idee e di reciproche contaminazioni.