Sicuramente la lotta del popolo curdo non finisce qui. Ci mancherebbe! Tuttavia è innegabile che l’orizzonte del Rojava (un territorio esteso più o meno come il Belgio) si vada ricoprendo di nuvole oscure.
E forse tra qualche anno o addirittura qualche mese l’esperienza del Rojava (libertaria, ecologista, femminista, pluralista, comunalista, consiliare, co-presidenziale, autogestionaria) potrebbe venire alquanto ridimensionata. Consegnata, suo e nostro malgrado, alla Storia: quella, pressoché infinita, delle sconfitte subite da popoli oppressi e classi subalterne. Da studiare, analizzare, “criticare”… in vista di futuri, auspicabili, assalti al Cielo.
Significativo che questo timore si stia diffondendo – stando almeno a quanto ci è dato di conoscere – anche tra i ranghi della resistenza curda. In particolare nella regione di Ain Issa, in prossimità dell’autostrada internazionale M4, i curdi sono sottoposti a ulteriori, ripetuti attacchi da parte dei militari turchi e dei mercenari loro alleati. Nella prospettiva di un’altra invasione (sarebbe la quarta, se non ho perso il conto), magari per anticipare l’insediamento effettivo di Biden (forse, ma proprio forse meno disponibile di Trump nel lasciare mano libera alla Turchia nel nord della Siria).
L’invasione turca nel 2018 della regione di Afrin (con la complicità di Mosca) e nel 2019 di Sere Kaniye (con il tacito assenso di Washington), avevano determinato qualche gravissimo effetto collaterale: una vera e propria pulizia etnica ai danni dei curdi. È quindi alquanto probabile che stavolta, piuttosto di dover subire una ulteriore definitiva invasione, i curdi preferiscano riavvicinarsi a Bashar al-Assad (che, pur con tutti i suoi difetti, appare il meno peggio rispetto a Erdogan).
È anche possibile che temendo di perdere ogni aggancio in Siria, gli Stati Uniti facciano pressione su Ankara per moderarne l’ansia di sterminio nei confronti dei curdi. Perlomeno in Siria, dato che in Bakur (territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca) la Turchia ha da sempre mano libera.
Amara constatazione. Nonostante l’eroismo dei curdi e dei loro alleati arabi, assiri, caldei, armeni, turcomanni, turcassi, ceceni, che hanno sconfitto Daesh pagando un prezzo altissimo (oltre 11mila caduti e 24mila feriti su 70mila effettivi), questo sembra proprio il canto del cigno per la rivoluzione. Sacrificata sull’altare della geopolitica dalle potenze internazionali e regionali operative in Siria (Russia, USA, Turchia, Iran) e indotta, costretta a posizionarsi in maniera più compatibile con le ferree logiche del neoliberismo.
A pagarne il prezzo maggiore, ancora una volta, le donne. E non solo in Rojava naturalmente.
Risale alla fine dell’anno scorso un reportage di Sky News in cui si denunciava il traffico umano delle donne curde rapite nel cantone di Afrin. Gestito dalla Turchia verso la Libia, riforniva di schiave sessuali i mercenari siriani qui inviati da Ankara.
Quando il deputato di HDP (partito democratico dei popoli) Tulay Hatimogullari aveva chiesto chiarimenti al ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, non aveva ricevuto risposta. Addirittura la sua richiesta era semplicemente scomparsa, cancellata, censurata, dai registri del parlamento turco.
Così come era già avvenuto per precedenti questioni sollevate da HDP in merito a rapimenti, stupri, torture, uccisioni e vendita di donne sequestrate in Rojava. Una sistematica copertura fornita dallo Stato alle violazioni dei diritti umani e ai crimini di guerra perpetrati dalle forze turco-jihadiste in Siria.
Altra tragedia infinita, quella vissuta dalle donne yazidi di Shengal (Kurdistan del sud, in territorio iracheno). O almeno da quelle scampate al genocidio operato da Daesh nell’agosto 2014. Traumatizzate, costrette a sopravvivere nei campi profughi della regione di Duhok, molte di loro – denunciava in un comunicato TAJE (Tevgera Azadiya Jinen Ezdi, il movimento delle donne yazidi per la libertà) – hanno scelto di suicidarsi.
TAJE chiedeva alle donne di non rivolgere contro se stesse la collera per quanto avevano subìto (rapimenti, stupri, torture) ma contro gli oppressori. Ricordava anche che molte donne e molti bambini (circa 1400) rimangono ancora prigionieri di Daesh.
Si leggeva poi nel comunicato che “le assemblee di TAJE si svolgono in ogni città e ogni villaggio della regione di Shengal. Tutte le donne possono venire nei nostri centri. Noi cerchiamo di discutere e trovare delle soluzioni per ogni problema. Siamo la vostra seconda famiglia”. Un riferimento, presumibilmente, alle difficoltà che molte donne yazidi, prima sequestrate dai miliziani del califfato e poi liberate dalle SDF, ricomprate o fatte fuggire, incontrano rientrando in famiglia dove rischiano di sentirsi emarginate, rifiutate.