Dopo un processo lungo quattro mesi – e quindici giorni di udienze – il tribunale regionale superiore di Coblenza ha condannato un rifugiato curdo, Gokmen Cakil, a tre anni e cinque mesi di carcere. Con l’accusa di essere coinvolto nelle attività del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e aver infranto la legge tedesca ai sensi dell’articolo 129b del codice penale. Una condanna inferiore di soli tre mesi rispetto a quella richiesta dalla procura.
Il pubblico, assai numeroso, aveva seguito con attenzione il dibattimento e al momento del verdetto in molti lo hanno contestato, gridando che il tribunale agiva “in nome di Erdogan” e non del popolo tedesco.
Nel suo intervento Gokmen Cakil aveva espresso il proprio rammarico per il fatto che “tedeschi e curdi si debbano confrontare in questo processo”, cercando di spiegare che con il suo impegno politico non aveva “recato alcun danno né alla Germania, né al popolo e alla democrazia tedeschi”.
Aveva poi aggiunto di considerare la guerra una “dannazione, una maledizione per l’umanità”. Ma chiedendo comunque alla corte: “Cosa fareste voi qualora veniste attaccati con aerei, fucili, carri armati?”. Con una conclusione fin troppo ovvia (o almeno tale per i popoli oppressi): “Non ci si può aspettare che i curdi si arrendano ai loro assassini”.
Per i difensori del militante curdo le vere ragioni della sentenza andrebbero individuate negli “interessi della politica estera ed economica” a cui il tribunale avrebbe dovuto “sottomettersi”.
Preoccupante che un tale verdetto venga emesso nei giorni in cui un ex capo dell’intelligence turca, Ismail Hakki Pekin, aveva esplicitamente invocato – in un’intervista televisiva – la liquidazione fisica dei militanti curdi in Europa. Ossia l’uccisione mirata degli esponenti del KCK/PKK “non solo a Qandil [Kurdistan del Sud], ma anche in Europa”. Richiamandosi esplicitamente a quanto era avvenuto a Parigi il 9 gennaio 2013 (l’assassinio di tre rivoluzionarie curde: Sakine Cansiz, Leyla Saylemez e Fidan Dogan) e rivendicando tale massacro, in sostanza, come opera dello Stato turco.
Su questo delitto rimasto impunito (con un singolare tempismo il presunto colpevole moriva in carcere a pochi giorni dall’apertura del processo, in precedenza ripetutamente rinviato) è intervenuta la deputata tedesca Ulla Jelpke, portavoce per gli affari interni di Die Linke, chiedendo con un appello alla Francia e alla Germania la riapertura dell’inchiesta.
Già in precedenza Ulla Jelpke era intervenuta all’assemblea federale sollevando sia la questione del massacro del 9 gennaio, sia in merito ai documentati preparativi del MIT (l’intelligence turca) per assassinare dissidenti sia curdi sia turchi sul territorio tedesco. Operazioni che – a chi conserva un poco di memoria storica – ricordano quelle dei servizi sudafricani all’epoca dell’apartheid (per restare in Francia, vedi l’uccisione di Dulcie Septembre, esponente dell’ANC).
L’esponente della sinistra tedesca ha quindi aggiunto che “il terrorismo di Stato è parte integrante del regime di Erdogan” Quanto alle affermazioni di Pekin, “costituiscono un’autentica confessione su questa vicenda e dovrebbero portare alla riapertura dell’inchiesta”. Per Ulla Jelpke “il governo federale dovrebbe prendere sul serio tali dichiarazioni [di Pekin] e proteggere i curdi che conducono un’attività politica in Germania”. Anche mettendoli sotto scorta.
Una responsabilità, un impegno non da poco. Nel frattempo “la migliore risposta alle minacce turche sarebbe quella di togliere il bando per il PKK”.