Mentre giungono ulteriori conferme dell’utilizzo di gas asfissianti da parte dell’esercito turco nelle zone frontaliere con l’Iraq; mentre la repressione nelle carceri si va intensificando, in particolar modo nei confronti delle prigioniere curde, la Turchia – sia direttamente, sia indirettamente attraverso i suoi mercenari jihadisti – si rende responsabile di altri crimini contro all’umanità anche nel nord della Siria sotto occupazione.
Nella regione di Afrin in particolare. Qui, come hanno denunciato varie organizzazioni non governative e gli esponenti della società civile in una conferenza stampa a Shehba, dal 18 marzo 2018 almeno 84 donne sono state assassinate e un migliaio rapite. Risale appunto al marzo 2018 l’invasione della regione di Afrin da parte delle truppe di Ankara e dei suoi ascari jihadisti.
Il macabro bilancio è stato annunciato, in arabo e in curdo, davanti a una assemblea di decine e decine di donne. ”Quello che sta avvenendo ad Afrin”, hanno spiegato le relatrici, “va ben oltre i crimini di guerra”. Infatti lo Stato turco “si sta vendicando contro le donne che lottando avevano sconfitto il terrorismo in Afrin, Serekaniye (Ras al-Ain) e Gire Sei (Tall Abyad)” .
Tra le donne che hanno perso la vita a causa dell’invasione, sei si sono tolte la vita a causa delle violenze subite. Oltre un migliaio sono state rapite e di molte di loro non si conosce la sorte. Calcolando solo quelli denunciati, i casi di stupro sono più di una settantina.
Da parte delle donne di Afrin si è levata una pressante richiesta all’ONU affinché prenda posizione e intervenga in maniera appropriata per impedire questi crimini
Quasi in contemporaneità con la conferenza stampa di Shehba, il 24 ottobre un comunicato delle Forze Democratiche Siriane (FDS) ha confermato che le tre persone uccise il giorno prima a Kobane erano sue militanti, integrate nel battaglione di Sirrin. L’auto su cui viaggiavano era stata colpita da un drone turco mentre usciva da Kobane dove le tre combattenti si erano recate per cure mediche. La portavoce delle Unità di Protezione del Popolo (YPG) lo ha definito “l’ennesimo massacro perpetrato dallo Stato turco invasore contro il nostro popolo”.
Non è certo casuale che la violenza della Turchia colpisca in maniera quasi preferenziale le donne, le quali stanno dando un contributo formidabile a quella che possiamo definire la più grande esperienza comunalista in atto. Nel nord della Siria, almeno dal 2012 si va sperimentando un’alternativa radicale alla Stato-nazione, frutto del cambio di paradigma politico avviato da Abdullah Ocalan. Il “confederalismo democratico” cammina fondamentalmente sulle gambe della partecipazione democratica popolare e su quelle del femminismo libertario ed ecologista.
Un incubo, evidentemente, per l’autoritarismo patriarcale di Erdogan e jihadisti vari.