La devastante intrusione in Valsesia del predicatore millenarista Fra Dolcino e dei suoi fedeli “Apostolici” ha lasciato forte tracce nella tradizione popolare locale.
Si crede che sulla roccia detta pè ‘d caval a monte di Quare, una fenditura di forma particolare sia l’impronta lasciata dallo zoccolo d’un cavallo alato con cui il celebre ribelle religioso imperverserebbe nelle notti di tempesta, mentre nel fragore della burrasca si sentirebbero distintamente le urla di dolore dei suoi seguaci dannati per l’eternità e costretti a vagare tra i monti.
Secondo una suggestiva tradizione, le inesplorate caverne della Parete Calva nasconderebbero ancor oggi grandi ricchezze accumulate dagli eretici gazzeri nelle loro scorribande o ricevute in dono dai feudatari che per un certo periodo avevano appoggiato le loro spedizioni; mentre a Campertogno si narra ancora che le anime dei fedeli dolciniani uccisi nella Crociata si spostino inquiete e angosciate nelle notti di tempesta in cerca di pace.
Lavorando di fantasia, a metà Ottocento il biellese Giovanni Florio pubblicava sul “Messaggero Torinese” il cupo racconto delle cosiddetta Tana del Diavolo, un antro montano del Triverese dal nome “ancor terribile […] all’orecchio degli alpigiani”, che la guardavano solo da lontano, “dalla tema compresi di essere da un demonio affogati, che ivi avesse fermata la stanza alla custodia di un tesoro dai Gazzari occultato”… ma questa leggenda era inventata di sana pianta da quell’erudito, così come erano frutto dell’immaginario malevolo di marca clericale i cupi racconti sulle feroci gesta dolciniane.
Dolcino è e resta un personaggio per molti versi misterioso, sia per le sue dottrine escatologiche e millenariste, sia sulle vere ragioni per cui arrivò proprio in Valsesia.
I negligenti cronisti dell’epoca si limitarono a registrare che con un seguito di centinaia di seguaci Dolcino costruì delle difese di tipo militare a Gattinara, poi si spostò a Serravalle, e infine trovò aiuto e riparo a Campertogno per trasferirsi nel 1305 sulla Parete Calva, sempre aiutato dal ricco agricoltore del posto Milano Sola; ma anche sostentandosi – da vero guerrigliero della montagna –
con il taglieggiare i poveri valligiani del posto.
Per poter sopravvivere in qualche modo in condizioni ambientali cui erano poco avvezzi, Dolcino e i suoi seguaci saccheggiarono i pochi beni delle popolazioni locali e i montanari arrabbiati gli si rivoltarono contro. Lo studioso valsesiano Mario Tancredi Rossi descrisse le feroci razzie necessarie a far sopravvivere la massa comunitaria, ricorsa al saccheggio poiché
nelle stalle dei valligiani sono capre, pecore e vacche.
Dolcino organizza le spedizioni predatrici. Spintasi una di queste fino a Varallo e saccheggiatala, il podestà della villa, un Brusati di Novara, tenta invano la vendetta ed è sconfitto ed ucciso.
Alla fine, proprio l’avversione della gente del posto doveva costringere gli Apostolici alla fuga “di vetta in vetta”, finché il 10 marzo 1306 s’avventarono su Trivero, feudo dei conti Bulgaro, dove l’esercito ribelle senza pietà
piomba sul paesetto addormentato, lungi dal sospettar sì vicino il predatore eresiarca e fa strage di abitanti e ruba tutte le vettovaglie e risale quindi il monte rebello, ch’egli ridurrà, con vera mente di condottiero geniale, un imprendibile campo trincerato ed una potente fortezza.
Di Dolcino resta oscuro anche il periodo in cui si trovò invischiato in occulti maneggi da parte di nobili spregiudicati che tentavano di strumentalizzare il suo ardore e le sue indubbie capacità di guerrigliero. Infatti, spiega Mario T. Rossi, vi fu un tempo in cui il movimento apostolico parve ridursi a “strumento della strategia viscontea per recuperare prestigio politico e territoriale dopo le batoste subite dall’azione congiunta dei Torriani e dei Guelfi lombardo-piemontesi”.
Con molta probabilità furono gli assalti ai poveri paesi della valle che indussero i maggiorenti del posto a prendere le armi contro questi intrusi violenti e pericolosi; e (secondo una zoppicante tradizione) a riunirsi il 24 agosto 1305 nella chiesa di Scopa, giurando solennemente di sconfiggere e cacciare gli “iniqui gazzeri”. Promessa tanto solenne quanto improbabile: l’autorevole storico Rosaldo Ordano ha infatti dimostrato che il presunto statuto della “Lega di Scopa” sarebbe “un falso tanto grossolano da rasentare quasi il ridicolo”.
Invece, i dolciniani vennero messi in scacco da una coalizione di capifamiglia paesani e di nobili vercellesi che li costrinsero ad arroccarsi in una, purtroppo per loro, indifendibile ridotta alpina.
Angelo Stefano Bessone, studioso specializzato in storia ecclesiastica, ha autorevolmente sottolineato come su Dolcino
le fonti che abbiamo sono tuttora quelle edite nel ‘700, alle quali poco o nulla di nuovo è stato aggiunto. Ed anche queste fonti sono malfide: c’è da dubitare ad es. dell’autenticità degli “Statuti della lega dei Valsesiani” (1305) e della bolla di Clemente V ai Crociati vincitori (1307).
Si sa soltanto che, il 7 settembre 1306, papa Clemente V nel primo anno del suo pontificato ordinò personalmente da Bordeaux la repressione armata per estirpare la presenza di quei pericolosi dissidenti religiosi e ribelli sociali. Come ricorda Bernard Gui nel testo La setta di coloro che dicono di essere dell’ordine degli Apostoli, pubblicato da Raniero Orioli,
fu così bandita per ordine del papa l’indulgenza plenaria e la crociata contro Dolcino; e gli inquisitori più volte mossero l’esercito contro costui, ma non potevano aver la meglio dato il numero dei seguaci, credenti, ricettatori, fautori e difensori, sempre più moltiplicatosi in zona lombarda.
Ma alla fine gli inquisitori della Lombardia appartenenti all’ordine dei Predicatori, insieme con il vescovo di Vercelli, una volta bandita la crociata e l’indulgenza plenaria, raccolsero un imponente esercito contro Dolcino, l’eresiarca che, più che imitatore di antiche eresie, era soprattutto ideatore di nuovi e perversi dogmi; ed egli molti aveva infettato e molti convinto ed aveva moltissimi discepoli e seguaci e si era stabilito con i suoi sulle montagne novaresi.
Accadde poi che a causa del freddo intenso molti di quelli che si trovavano sui monti, indeboliti dalla fame e dai rigori invernali, morirono mantenendosi nell’errore. L’esercito dei fedeli, una volta sul monte, riuscì a catturare Dolcino e con lui circa centoquaranta persone.
Insieme con Dolcino fu catturata Margherita, donna non tanto criminale quanto eretica e sua compagna di errori e di delitti.
La cattura avvenne durante la settimana santa, di giovedì.
Dolcino venne giudicato dal potere politico, non dalla Chiesa; e questo potrebbe voler dire che, “bolle papali” a parte, i suoi vincitori non vollero sanzionare la sua stravagante dottrina né castigarlo per le eresie professate e per l’eclettica predicazione (qualcuno lo definirebbe “libero pensiero”), ma addebitandogli fatti concreti come i saccheggi indiscriminati, le rapine, le espropriazioni, gli omicidi.
Tonache contro grembiuli
Poiché gli atti d’un processo non sono mai stati rinvenuti, lo storico Giulio Pavignano si è sentito autorizzato a sospettare che un vero e proprio procedimento giudiziario non ci sia neanche stato.
Ciò non di meno, la tradizione popolare più direttamente influenzata dal clero ha tramandato nei secoli la memoria di un feroce brigante piombato da fuori valle per far del male alla povera gente, predicando dottrine infernali e avversando la Chiesa.
Una condanna che all’inizio del Novecento sarà duramente disapprovata dagli uomini del libero pensiero e dell’emancipazione sociale. Nel 1905, un curioso “ricordo poetico” di Dolcino scritto dal poeta dialettale Pinet Turlo veniva pubblicato sul battagliero settimanale socialista di Varallo “La Campana”; uscendo negli stessi giorni in cui numerosi laici e massoni davano vita alla Associazione del Libero Pensiero, animata dal direttore didattico Vittorio Chalant e che contò subito un centinaio di soci.
Fin dal 1906, la neo costituita Federazione Giovanile Socialista Valsesiana era stata intitolata a Fra Dolcino; nello stesso anno un convegno per ricordare gli Apostolici era stato organizzato a Prato Sesia, in settembre, ma lo si era rinviato a causa della vendemmia; e sulla “Campana”, nella primavera del 1907, veniva lanciato un appello per l’adesione alla celebrazione centenaria dell’“antesignano della lotta alla tirannia pretesca”, organizzata sopra Trivero dove i valsesiani salirono in gran numero.
Alla manifestazione tenutasi l’11 agosto sul monte dei ribelli, tra la selva di stendardi svettanti al vento vi erano anche quelli della Lega Muratori e del Circolo Socialista di Varallo; della Società Operaia e della Sezione Socialista di Prato Sesia; della Federazione Lavoratori Panettieri di Borgosesia; del Circolo Vinicolo di Aranco; della Lega Cartai, della Sezione Socialista di Serravalle e della Sezione Socialista di Piane Sesia.
I tempi erano maturi perché della figura dell’eresiarca si appropriasse la massoneria che, come documentano le ricerche archivistiche di Vittorio Gnocchini, nel 1912 aveva visto nascere a Romagnano la Loggia Fra Dolcino, di Rito Scozzese, con gran maestro il dottor Giuseppe Balconi; un sodalizio che due anni dopo si trasferiva a Borgosesia con a capo il maestro venerabile Antonio Scrivano.
Intanto la roccaforte massonica era soprattutto Varallo, dove il professor Adelchi Crippa aveva già fondato nel 1911 la Loggia Pennina, di Rito Simbolico, che sarà sciolta soltanto l’8 maggio 1920.
Negli stessi anni la figura di Dolcino veniva rivalutata dal giovane universitario valsesiano Mario Tancredi Rossi, morto nelle trincee dell’Ortigara il 6 giugno 1917 dopo essere partito volontario per la guerra. Nato a Fobello il 19 dicembre 1893, si era gettato nella grande mischia spinto da ideali nazionalisti, in cui credeva ciecamente con quella sensibilità poetica che gli era propria e che gli faceva vedere nel mito italico il naturale contraltare all’amore per la sua valle e le sue tradizioni. Comprese quelle legate a Dolcino e alle sue imprese, spiegando le razzie e gli eccessi dell’eresiarca con la realtà terribile d’una vita di perseguitati e di esuli:
La Parete Calva: cupa, massiccia, drizzata verso il cielo che pare una immane ombra nera sfidante la chiarità dell’azzurro sulle montagne. Protesa a picco sugli abissi, da una parte, e in fondo agli abissi, foschi alberi di abete, di larice e di pino, giunchiglie serpeggianti, aride graminee e macigni spaccati, o neri o adamantini; dall’altra parte, legata al filone della montagna su cui pende per un salto accessibile sì, ma non valicabile se alcuno di sopra si difenda. Si immagini in tal luogo raccolta una moltitudine di qualche migliaio tra uomini e donne sotto il comando d’un uomo inflessibile e duro, assediato dalla neve e dal freddo che resta colassù otto mesi dell’anno e assediati dalla fame e dalle armi dei valligiani, e poi bisognerà pur convenire che di meravigliosa tempra doveva esser quella mente che sapeva frenare ogni ribellione o stanchezza e infondere eroico coraggio (per un ideale forse non del tutto comprensibile a piccole menti) in quegli uomini emaciati dagli stenti e premuti dalla morte continuamente, come per le paurose gole delle montagne continuamente tuonava lo spaventoso rombo dei torrenti. Ma la genialità d’un uomo sfolgora allora appunto quando egli si trova in pressanti strettezze e sol da lui dipende la vita e la morte.
Il giovane studioso non aveva alcuna remora nel sottolineare responsabilità che non possono essere ascritte alla sola parte dei ribelli, e a suo dire
la crudeltà de cattolici non è minore di quella dei dolciniani. Si disse che un vicino torrente per molte ore abbia scorso in tutta la sua lunghezza col colore del sangue e da quel giorno fu chiamato il Carnasco.
Nel suo breve ma documentato saggio, Rossi faceva a pezzi senza riguardo reverenziale le inesatte e strumentali ricostruzioni della storiografìa ufficiale, e bollava come “mai avvenuta” la cosiddetta “battaglia di Campertogno tra Dolcino e gli alleati” di cui non restava memoria alla gente del posto. Egli non nascondeva la sua simpatia per Dolcino, un “eroe mistico che il Medio Evo solo poteva dare, capace di sommuovere un popolo e lanciarlo alla conquista di altre genti in nome di una cieca fede”, e mostrava tutta la sua ammirazione per l’indomita Margherita da Trento, ricordando che nell’immaginario popolare “è tramandata ancora la figura di lei dietro al nero cavallo dell’apostata, coi capelli sparsi sulle spalle, bianchissima in volto, errante per le montagne solitarie con negli occhi il raggio delle stelle che per lei sembrano implorare pietà”.
Proprio sulla donna dell’eretico, lo studioso fobellese non mancava di ricordare il mistero della sua fine, poiché
un certo ser Boninsegna del fu Oderico da Arco, depone il 31 dicembre 1332 di aver circa 28 anni prima in Arco accolto in “domo sua, Dolcino, homo bonus”; e la sua sorella Margherita gli si unì di nascosto, e non nasconde d’essergli stato riferito, due anni prima della deposizione, che Margherita viveva a Vicenza sotto il nome di Maria sposa ad uno stipendiato.
Una circostanza che porterebbe a credere che la feroce crociata contro gli eretici non fosse riuscita a eliminare tutti i seguaci di Dolcino martirizzato sul rogo.
Quelle del giovane Rossi erano pagine coraggiose d’uno spirito libero, ma in Valsesia è rimasta ben più forte la tradizione popolare che vuole gli “Apostolici” alla stregua di forestieri ladruncoli e briganti, e il loro capo un esaltato fuor di testa, un banditesco tagliagole.
Già in un fascicoletto pubblicato nel 1907 a Novara dalla Libreria Salesiana con il titolo La vera storia dell’eretico Fra Dolcino e della sua compagna Margherita, don Carlo Barbero, dopo aver svillaneggiato la “nobile cricca dei socialisti e dei massoni uniti”, demonizzava senza appello il “santo cornuto che fu il loro Fra Dolcino”.
Non per caso, sotto il portico della chiesa di San Bartolomeo di Scopa un grande pannello esalta il patto d’azione che vi sarebbe stato siglato dai valsesiani concordi e uniti il 24 agosto del 1305, con l’intento di formare una santa lega contro i dolciniani.
Peccato però che l’illustre storico Francesco Cognasso nella sua Storia di Novara abbia eccepito sull’autenticità dell’episodio, poiché papa Clemente V era stato incoronato a Lione solo il 14 settembre 1305, e appare del tutto inverosimile che i valsesiani avessero aderito diversi giorni prima a una sicuramente mortifera avventura armata, per lo più assieme ai nobili vercellesi Tizzoni e a quelli novaresi dei Tornielli che all’epoca erano ghibellini e si trovavano in esilio.
Forse non per caso, ricercando luoghi elevati e più prossimi al mondo celeste, il fuggiasco Fra Dolcino nell’estate del 1305 scelse come rifugio per i suoi seguaci Apostolici l’isolata Parete Calva sopra Rassa, predicando che l’autorità della Chiesa romana era ormai cessata per la malizia del clero, che una nuova stava per giungere prima della fine del mondo e che “sui monte Syon sarà la salvezza”.
La cima degli ultimi giorni sarebbe stata proprio in Valsesia. Un ultimo rifugio sotto il magico Monte Rosa.