Foto di Fabio Zardetto
“Marghera a xe stuàda”, “Marghera è spenta”, mi racconta Gaetano Scardicchio, in arte Sir Oliver Skardy, rollando una sigaretta tra le mani, lo sguardo diretto e acuto di chi è abituato a parlare dritto al cuore senza fronzoli.
Seduti a un tavolino del bar, osserviamo i venditori ambulanti che, tra una battuta e due chiacchiere, smontano con gesti esperti i banchi e le loro mercanzie in questo ventoso sabato di marzo.
È da sempre un difficile rapporto a tre quello tra Marghera, Porto Marghera e Venezia, un po’ la bella e la bestia, con la fata Venezia che tutto genera e tutto decide.
Mar ghe giera: come dice il toponimo, c’era il mare a Marghera, zona paludosa nella terraferma veneta di fronte alla splendida Venezia, luogo ideale da bonificare per creare un’area portuale industriale di supporto alle attività commerciali che avevano reso Venezia famosa in tutto il mondo. A questa necessità si era aggiunta l’impellenza di trasferire una parte dei cittadini veneziani dalle abitazioni sovraffollate del centro storico a nuovi edifici più salubri e vivibili in terraferma.
La fondazione di Porto Marghera e il progetto “Marghera Città Giardino” fu la risposta nei primi anni del Novecento a questa richiesta economica, sociale e demografica di Venezia, città di enorme patrimonio artistico, giustamente desiderosa di preservare la propria unicità e di mantenersi il più possibile lontana dalle contaminazioni dell’industrializzazione.
Da una parte il polo industriale correlato di reti navali, ferroviarie e stradali, destinato a diventare il fulcro occupazionale del nord-est; dall’altra il quartiere residenziale per le maestranze, progettato da Pietro Emilio Emmer sulla base del modello di città giardino dell’inglese Ebenezer Howard. Un centro abitativo di ampio respiro, con grandi viali alberati e abitazioni signorili, circondate dal verde di giardini e orti.
Ma come quasi sempre accade, il sogno svanisce all’alba della cruda realtà di un dopoguerra che rivendica una casa per tutti i ceti sociali: la città delle villette liberty, della Marghera “bene”, si affianca a condomini popolari ben più alti dei tre piani previsti da Emmer, e per i numerosi sfollati si costruiscono “baracche con orti” con il sottinteso invito a un “ritorno alla terra”.
Nei quartieri di Ca’ Emiliani e Ca’ Brentelle, si dormiva in casupole di due stanze, a volte sulla nuda terra, isolati dalla vita sociale, circondati dal fango e dalla desolazione della campagna. La città si ritrovava divisa in zone distinte per classi sociali, ciascuna con una sua fisionomia economica e culturale, attraverso le quali si attuava un sistema di controllo e di sorveglianza fatto anche di segregazione.
La miseria ha sempre avuto l’odioso potere di riportare gli animi al basso profilo, all’asservimento allo status quo, alla filosofia del “sangue dal muro non se ne ricava”, traduzione letterale di un tristissimo detto popolare veneto. I terribili anni dell’inquinamento da prodotti chimici e dei 157 morti accertati hanno fatto il resto.
Skardy avrebbe voluto un destino diverso per la sua città, ma non ci sta a parlare di degrado.
Il concetto di degrado non è così facile, a volte è una percezione personale, intima, che sfiora il senso del pudore e della vergogna. Il degrado, quello vero, è frutto di totale mancanza di politiche sociali e assistenziali. Ma anche nell’abbandono e nella povertà può nascere una forma di bellezza, che spesso diventa arte.
“L’arte nasce dal basso”, mi ricorda Skardy.
A Ca’ Emiliani, in una casupola povera ma dignitosa di due stanze, è vissuto fino al 2001, anno della sua morte, Adamo Vianello noto a tutti come “Nino Bocolo”. Era nato a Venezia, aveva lavorato fin da bambino in laguna a trasportare sabbia e ghiaia, poi la guerra e la prigionia in un campo di concentramento in Germania, infine la musica: cominciò a suonare in ogni luogo dove veniva invitato, suonava a orecchio più di dieci strumenti; a Marghera diventò “il Maestro”, che apriva la porta della sua stanza piena di strumenti a tutti i ragazzini desiderosi di imparare, togliendoli dalla strada della delinquenza e della droga.
Adamo teneva insieme la comunità con amore e arte, e sotto la sua guida si formarono molte band musicali divenute poi famose a livello nazionale.
La musica nutriva lo spirito e donava speranza. Accade in tutto il mondo: dove c’è povertà, c’è la necessità di trovare una via di fuga, un riscatto, e l’arte parla lo stesso linguaggio del cuore, un linguaggio universale accessibile a tutti.
Ca’ Emiliani non esiste più: ora c’è un centro commerciale e tanti moderni condomini. A Ca’ Brentelle le casupole ci sono ancora, e tante persone ancora vivono in pochi metri quadri dove sono amorevolmente stipati i ricordi di una vita.
C’è tanta vita in tutto questo ordinato disordine: nell’apparente decadenza delle teste di leoni di San Marco appoggiate su un cancello arrugginito, nelle imitazioni di motivi floreali e gotici aggrediti dalla salsedine, nelle statue di nani da giardino invasi dalle erbacce, nelle tendine ricamate a mano nascoste da infissi scrostati… una vita di mare e di fabbriche, di sudore e di umanità. Vita vissuta davvero.
Ha ragione Skardy, musicista reggae che dagli anni ‘80, con il gruppo Pitura Freska e poi come solista, interpreta in dialetto veneziano pensieri, idee e sentimenti, anche e soprattutto di denuncia: “Non parlerei di degrado, ma di svalutazione e di mortificazione della parola ‘lavoro’. Negli anni ’60 la gente scendeva in piazza per ottenere qualcosa, ma dagli anni ’80 i pochi che manifestano in piazza lo fanno per difendere qualcosa. C’è una differenza abissale, una voragine sociale che testimonia la rassegnazione alla morte dei sogni intesi come progresso personale”.
Come tante altre città, Marghera ha subìto la piaga delle droghe pesanti, e la Mala del Brenta ha lasciato cicatrici ugualmente pesanti.
“Noi musicisti abbiamo tentato di lanciare messaggi sociali importanti ai giovani degli anni ’80; potevamo tollerare le canne, ma mai l’eroina. Il testo della canzone Marghera lo spiega molto bene; sognavamo una città sana, senza fabbriche, una giungla di ‘pannocchie, pomodori e marijuana’… Siamo rimasti inascoltati”.
A Marghera lo spaccio continua a minare la sicurezza di molti quartieri, nei sottopassi dei cavalcavia, neii numerosi fabbricati dismessi divenuti nuovi dormitori per immigrati e gente senza un lavoro e un soldo in tasca.
Il refrain di Marghera potrebbe sembrare dissacratorio, ma è semplicemente realistico. Si muore di veleni, di ingiustizie, di droga, ma anche di oblio, di assenze, di indifferenza. I veleni del Petrolchimico, il cloruro di vinile, quella maledetta polvere bianca che invade i polmoni, trentacinque anni di silenzi e di morte raccolti meticolosamente in un dossier da Gabriele Bortolozzo, lavoratore dipendente della Montedison, sono noti a tutti.
Era il 1994 e da quella coraggiosa denuncia sono trascorsi quasi trent’anni, molte assoluzioni, troppe vittime e nessun responsabile. Il dramma del “lavoro e mi ammalo ma almeno guadagno i soldi per curarmi” non ha insegnato niente. Il degrado, quello personale, continua.
Dal tavolino del bar della piazza centrale di fronte al Municipio, osservo la gente passare, alcuni del luogo, molti immigrati; presi dalla quotidianità del covid, la guerra in Ucraina e le bollette del gas, sfilano con inerzia sfiorando pareti di edifici abbandonati, cancelli arrugginiti, muri imbrattati da mani rabbiose nelle notti di violenza, nel buio della solitudine e dell’emarginazione.
Dietro la fermata dell’autobus intravedo la scritta “far west”, e mi avvolge la sottile malinconia dell’abbandono. Marghera come Cenerentola, bella e pura d’intenti ma in ombra, serva di un sistema che la vuole sottomessa, piegata. Non può sognare, Marghera, i sogni volano troppo in alto. E la “Grande Venezia” che per rispondere alle esigenze della modernità “abbatteva le proprie mura” ha terminato la sua corsa sui muri di cemento delle fabbriche e dei caseggiati fatiscenti.
“Capisci cosa intendo?”, continua Skardy, i lunghi capelli rasta raccolti sotto il berretto giamaicano dagli inconfondibili colori. “Non mi riconosco più né in questa città dove sono cresciuto, e nemmeno in questo Paese, dove anche la mia adorata musica è al servizio del dio denaro. Ti rendi conto che la critica moderna classifica i miei brani come musica folk? Io che sono cresciuto a pane, Pink Floyd e reggae…” . La mitica band dei Pitura Freska invase Venezia nel leggendario quanto controverso concerto del 15 luglio 1989; un evento musicale storico, gratuito, una notte di magia che consacrò Venezia tra le capitali della musica internazionale di massima qualità. Non c’è veneziano che non ricordi con struggente nostalgia l’atmosfera idilliaca di quella notte del Redentore. E ancor di più Skardy, che con il suo gruppo dedicò proprio a quella serata una delle sue canzoni più conosciute.
Il vento di marzo mi riporta alla realtà. “A proposito di giardino, lo sai che gli alberi del Parco San Giuliano non crescono?”, sorride Skardy prendendomi in giro, “e non perché sono dei bonsai”.
Il Parco San Giuliano, 19esimo parco più grande al mondo, è una zona verde con vista laguna inaugurata nel 2004 con l’intento di rappresentare il polmone d’ossigeno di Mestre e Marghera. È frutto di una storica bonifica ambientale, ma sotto sono stipati rifiuti tossici.
C’è però una buona notizia, ed è recentissima: il parco cresce, raddoppia e si riqualifica. Dopo un’attesa durata 17 anni e la mancanza di fondi che ne aveva fatto arenare il progetto, il polmone verde diventerà nei fatti un secondo Central Park. Grazie all’accordo tra il comune di Venezia e il Provveditorato Opere pubbliche del Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, sono in partenza i primi cantieri che prevedono la pulizia dei canali e il risanamento di aree adiacenti, per una mobilità “green” che risponde alla necessità di un territorio che ha come elemento distintivo l’integrazione armonica tra terra e acqua. Insomma, un segno di speranza che, ora più che mai, affida alla natura e alla sua salubrità il riscatto ambientale da decenni di inquinamento.
Lascio Skardy battendo un cinque e mi accorgo che tutti lo salutano con l’affetto con cui si saluta un familiare. Il bello di Marghera è che, nonostante tutto, la gente è ancora vera. Come vera è la voglia di accogliere, oggi come ieri, chi non ha un lavoro, chi è nei guai, chi ha bisogno di aiuto. E anche chi, come me, è un “foresto” curioso in cerca di storie da raccontare. Tre anziane signore sedute sulla panchina di fronte alla chiesa, le borse della spesa appoggiate per terra, fanno a gara nel suggerirmi cosa andare a vedere: “C’è il quartiere Cita, una volta era un quartiere difficile, ma adesso ci può andare, c’è anche la Torre dell’acquedotto, è stata ripulita l’anno scorso, vada a visitarla, è bellissima!”
Che dolcezza sentire tanto amore e orgoglio per la propria città. C’è una grande dignità nell’orgoglio di sentirsi figli di una terra schietta che ha sofferto, ma che ha dato tanto a tanti, che ha accolto buoni e cattivi, che è madre e non matrigna.
E non importa se l’erba del giardino vicino, questa volta, è sicuramente più verde.