In un lontano passato di pregiudizi le donne più libere e coraggiose cercavano nelle pratiche magiche la “liberazione”. Alcune di loro che avvertivano analoghe esigenze di astrazione dalla vita terrena, avevano visioni e cadevano in estasi.
Ma c’era anche la possessione diabolica, uno stato in cui i soggetti subiscono dapprima la presenza di arcane potenze maligne e poi ottengono lo stato di equilibrio fisico e psichico in virtù dell’intervento dell’esorcista. Pare che questa passività e remissione sia un mezzo per trovare quella pace interiore che non si ha la forza o il coraggio di cercare direttamente.
Nel ‘600 biellese vi sono diversi casi di ossessione diabolica, tutti andati a buon fine, come può orgogliosamente mettere a bilancio il canonico Buscaglia nel suo libro sulle Grazie e miracoli della Madonna d’Oropa, con introduzione del canonico rettore don Giovanni Saino, edito da Ieri e Oggi di Biella. Si registra un unico uomo, tale Giovanni Biatto di Trino Vercellese, liberato dagli spiriti il 28 marzo 1622 dopo sei anni di sofferenze. Tutte le altre erano “donne del diavolo”, possedute come Angela Caterina Mendoza di Vigevano, per otto anni ossessa dal demonio, più volte condotta dall’esorcista a Vercelli e guarita solo a Oropa il 13 gennaio del 1650, quando nuove pratiche liberatorie ebbero finalmente buon esito poiché “cominciò allora a provare vivi dolori in tutta la persona, finchè, comandati i maligni spiriti del Padre Antonio Cavalchino di Vercelli, in nome di N.S. Gesù Cristo e della SS Vergine d’Oropa di rompere ogni malefizio e partirsi dalla povera donna, questa gettò via dalla bocca con molta spuma diversi oggetti superstiziosi e, sentitisi a poco a poco diminuire i suoi dolori, al fine ottenne completa liberazione”.
Analoga grazia sempre in Oropa, nel freddo giorno invernale dell’Immacolata Concezione, ottenne nel 1652 tale Clara Ottino di Pralungo. Sfidato dall’esorcista, il demonio se ne uscì dal suo corpo che tormentava da tre anni, facendo l’ultimo sgarbo di spegnere una candela.
Sempre a Oropa, la lombarda Margherita Leola e la valsesiana Penesia Cunazza di Varallo ottennero la liberazione dal maligno dopo anni di possessione.
Le ossessioni si susseguirono anche nel ‘700, tanto che il collegiale e penitenziere don Domenico Cartotti ha dato alle stampe una dettagliata Relazione distinta di quanto si è veduto di più notabile nel caso di dover qui nel Santuario di Oropa esorcizzare una povera donna della Valle San Nicolao per nome Caterina Reineri, liberata nel 1771.
In molti casi non era necessario ricorrere alla grazia d’Oropa: per veder guarire una donna di Rocca Canavese, tale Maria Peroglia, scoperta “Doemone obsessa”, bastò un suo “voto di verginità, di preghiere giornaliere e di sei Comunioni per sei domeniche all’anno”. I diavoli parvero apprezzare questi casti proponimenti.
Ma queste miracolose guarigioni erano casi straordinari poiché, occultamente, il demonio continuava a possederne tante altre. E non per caso lo scrittore Jules Michelet nel suo documentato studio sulla “Sorcière” localizza il nascondiglio privilegiato delle streghe nelle montagne, e soprattutto in quelle dei Paesi Baschi, quell’Euzkadi tenacemente attaccato alla propria identità antica che tanti punti di contatto ha con il Biellese e la “Garaldea” alpina.
Il più feroce inquisitore delle streghe basche nel Seicento, Pierre de Lancre, nel libro in cui raccolse le sue esperienze nel vano tentativo d’estirpare la mala pianta diabolica, sostiene che nei sabba d’adorazione del maligno avevano gran ruolo dei rospi, i babi della tradizione carnevalesca biellese.
Nel suo Tableau de l’incostance des mauvais anges et des démons, egli scrive convinto che nelle congreghe notturne “i bambini sono pastori che custodiscono ognuno il gregge dei rospi che ogni strega che li ha accompagnati al sabba ha loro affidato. Ciascuno ha in mano una frusta bianca come quelle che debbono portare gli appestati per segnalare il contagio”.
Fantasie? De Lancre riporta il testo degli interrogatori – non si sa quanto spontanei – di alcuni partecipanti alla cerimonia infernale, e tutti insistono sull’uso di droghe allucinogene e veleni. Pertanto l’inquisitore giunge alla conclusione che alcune streghe “preparano del veleno, che altre comprano e che è fatto di rospi, lingua di bue o di vacca, una capra, delle uova stantìe e fradice e cervello di bambini e li mettono a cuocere in una caldaia” ed altre “si danno a tagliare la testa ai rospi ed a farne veleni”.
Esattamente come avevano finito di confessare le povere streghe di Muzzano, madre e figlia, Luigia de Ghittinis e Giovannina de Anselmettis fu Antonio… Messe alle strette, avevano dichiarato d’essere state più volte “alli balli et radunanze delle streghe, cioé due volte nella sera del giovedì et le altre in altri giorni della settimana ed andava in questo modo, cioé sua madre l’ungeva sotto li piedi con un olio che aveva in un olletta indicata… et poi subito camminava per aria, due volte sopra le spalle della propria madre, et altre volte portata da un non so che, che pareva un gatto”, mangiarono abbondantemente tenera carne di neonato “et le cavarono il sangue con una cosa che pareva una conchiglia ossia ‘lumaga’ et quel sangue sua madre che le diede la morte portò di lì a poco con essa a casa et poi lo vuotò nell’olletto ossia vaso dell’unto con il quale si ungeva mentre andava per aria”, allontanandosi “gambe a cavallo del bastone”.
Scartando quanto la fantasia aveva suggerito alle povere perseguitate, è del tutto evidente che il convegno infernale si basava sulla somministrazione di intrugli di vario tipo che alteravano la percezione della realtà delle iniziate ai riti.
Le donne refrattarie che si rifugiavano nottetempo al Pian delle Masche conoscevano probabilmente l’uso della Atropa belladonna, detta anche “erba delle streghe”, una pianta perenne che cresce spontanea sulle Alpi e sui Pirenei e contiene da 0,30 a 0,80% di atropina, sostanza che provoca eccitazione motoria e psichica, con offuscamento del sensorio e della conoscenza.
Nel suo prezioso studio www.samorini.it/doc1/alt_aut/lr/marszal.htm L’elemento tossicologico nella stregoneria e nel demonismo medioevale, S. Marszalkowicz ricorda che diverse altre piante delle solanacee possono causare gravi alterazioni, prima fra tutte l’apollinaris (Hyoscyanus niger), una pianta allucinante ed esaltante comune anche sulle Alpi biellesi che provoca forti allucinazioni visive e uditive, sonno profondo e sogni spaventosi. Gli intrugli diabolici si basavano su questo.
Ma grazie ad ataviche conoscenze sapienziali, l’attività prevalente delle streghe non doveva essere esclusivamente “diabolica” ma anche legata alla medicina popolare.