Sia come sia, alla fine il criminale attentato di Istanbul del 13 novembre (su cui aleggia il legittimo sospetto di un’operazione da manuale di “strategia della tensione” del tipo false flag) ha fornito a Erdogan il pretesto che gli mancava. Consentendogli di rompere gli indugi e riprendere i bombardamenti sul nord della Siria in maniera estesa.
Già nella tarda serata del 19 novembre fonti locali denunciavano come diverse località curde in aree frontaliere con la Turchia fossero bersaglio dell’aviazione turca. In particolare nelle regioni di Kobane, Tirbespiye, Derik e Shehba.
Stessa musica nel nord dell’Iraq (Bashur) dove i caccia di Erdogan colpivano le regioni di Qandil, Shengal e Sulaymaniyah.
Più intensi comunque, almeno in questa fase, i bombardamenti nel nord della Siria dove si sono protratti incessantemente per tutta la notte tra sabato 19 e domenica 20 novembre. Puntando con ogni evidenza soprattutto obiettivi civili come ospedali e scuole.
Tra le prime vittime finora accertate, due civili che viaggiavano in auto nei pressi del villaggio di Teqil Betil a Dêrik.
Dopo questo primo attacco i bombardamenti riprendevano mentre la gente si prodigava nell’aiutare i numerosi feriti.
Nel secondo bombardamento su Teqil Betil altre sette persone perdevano la vita (tra cui il giornalista Isam Ebdullah dell’agenzia di stampa Hawar News). Altre sei vittime (3 civili e tre soldati siriani) nel corso dei bombardamenti su alcuni magazzini per la conservazione del grano nei villaggi di Til Hermel e di Dehril Ereb (Dahir al-Arab, a nord di Zirgan nella regione di Hassaké). E anche in questo caso si contano numerosi feriti.
Sempre nel corso della notte tra il 19 e il 20 novembre l’aviazione turca ha infierito a lungo nella regione di Kobane, bombardando la strada che porta a Jarablus, il quartier di Kaniya Kurdan, il villaggio di Helinc e soprattutto Miştenûr. Questa città, così come le colline circostanti, sono state nuovamente bombardate nella mattinata del 20 novembre con la conseguente totale distruzione dell’ospedale.
Invece gli attacchi sul villaggio di Şewarxa (distretto di Şera di Afrin) sembravano indirizzati – non è dato di sapere se intenzionalmente – sulle posizioni delle truppe di Damasco. Qui avrebbero perso la vita una decina di militari a cui vanno aggiunti numerosi feriti.
Il Consiglio Democratico Curdo in Francia (CDK-F) ha emesso un comunicato di ferma condanna. Esortando inoltre le Nazioni Unite, la Coalizione internazionale anti-EI, l’Unione Europea, la Francia e gli Stati Uniti ad agire affinché il loro alleato turco “si comporti coerentemente con i propri impegni internazionali, in conformità con il diritto internazionale, mettendo fine agli attacchi contro il popolo curdo”.
Nel comunicato si sottolinea come “ancora prima di aprire un’inchiesta, il regime turco ha accusato le unità di difesa del popolo e delle donne del Rojava (YPG-YPJ) e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Nonostante le forze democratiche siriane (FDS) e il PKK avessero duramente condannato l’attentato e smentito qualsiasi implicazione”.
Quella in corso non è certo la prima campagna di aggressione nei confronti del popolo curdo e, temo, difficilmente sarà l’ultima. Campagna che, secondo il CDK-F, avrebbe lo scopo di “distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica turca dalla crisi che tormenta il Paese da almeno due decenni”.
Quanto al Bashur, il Kurdistan posto entro i confini iracheni, dal 17 aprile viene ripetutamente attaccato e – stando ai dati forniti dai curdi – qui sarebbero state impiegate le armi chimiche in ben 2700 occasioni. Non solo. L’esercito turco avrebbe dato alle fiamme i cadaveri dei suoi stessi soldati per mascherare in qualche modo il numero effettivo delle perdite subite.
È presumibile che al recente G20 di Bali, Erdogan abbia ottenuto l’atteso “semaforo verde” per attaccare nuovamente e in grande stile il Rojava. Da chi? Sempre presumibilmente, da quella coalizione internazionale contro l’esercito islamico (e soprattutto dagli USA) che stavolta potrebbe girarsi dall’altra parte. Non sarebbe la prima del resto.