Coloro che abitavano il territorio scandinavo settentrionale già nove-diecimila anni fa erano i diretti antenati dei sami: tribù nomadi provenienti da oriente qui stanziatesi subito dopo la fine dell’ultima glaciazione, conclusasi all’incirca diecimila anni prima di Cristo. La presenza di queste popolazioni dalla fisionomia mongolica sul territorio della penisola scandinava è testimoniata dalla scoperta in varie aree archeologiche, soprattutto tra Norvegia e Svezia, di incisioni rupestri databili fin dall’VIII secolo a.C., in cui sono presenti figure stilizzate di animali (soprattutto renne, orsi e alci) e di umani.
Tra i siti più importanti vi sono quelli norvegesi di Bølaristningen e di Alta; in particolare vicino alla città di Alta si trova una vasta area che a ridosso della baia affacciata su un fiordo, chiamata dai sami Jepmaluokta, cioè la Baia delle Foche, dove sono visibili su grandi massi piatti di roccia arenaria circa tremila incisioni rupestri datate dal 6200 al 2000 a.C. e distribuite in due complessi distanti tra loro circa un chilometro.
Queste incisioni rupestri sono state realizzate mediante una pietra dura che fungeva da scalpello e un’altra pietra che fungeva da martello, scalfendo superfici rocciose che si trovavano vicine all’acqua, mentre la terra cominciava a riemergere dal mare. Vi sono ritratte scene di caccia all’orso, che era ritenuto probabilmente un dio o un simbolo di fertilità, o tratte dalla vita di ogni giorno, con uomini e renne, gli animali da cui si ricavavano il cibo e le pelli per coprirsi; e sono presenti addirittura delle commoventi renne incinte, con una piccola renna nel ventre di un’altra.

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I graffiti rupestri di Alta, in Norvegia.

Ma le incisioni ritraggono anche imbarcazioni con uomini a bordo che pescano o cacciano balene, o persone che “sciano” sulla neve con strumenti che possono davvero essere considerati gli antenati degli sci moderni, evidentemente in uso già a quel tempo per muoversi agevolmente sulla neve.
Molte altre tracce degli antichi abitanti di questo territorio risalenti all’età della pietra sono state rinvenute nel territorio circostante, tra cui resti di abitazioni e suppellettili, le quali indicano come la zona fosse oggetto di piccoli insediamenti che non dovevano superare magari il centinaio di persone; ma può anche essere, come asseriscono alcuni archeologi, che questo fosse probabilmente un luogo sacro, in cui le persone di varie tribù nomadi si riunivano seguendo momenti specifici del calendario astrale, anche per periodi relativamente brevi, allo scopo di eseguire riti magici e religiosi.
Tra gli altri siti preistorici che documentano la presenza di popolazioni sami sul territorio scandinavo vi sono poi quello svedese di Nämforsen, poco a sud di Junsele, con incisioni rupestri raffiguranti scene di caccia o di pesca, e quello finlandese di Sammallahdenmäki, nei pressi della città di Lappi, con trentasei tumuli funerari in granito databili a partire dall’età del bronzo, come quelli detti Kirkonlaattia (letteralmente “pavimento della chiesa”), con un tetto piatto, e Huilun pitkä raunio (“il lungo tumulo di Huilu”), circondato a sua volta da una cinta muraria anch’essa in pietra.
Un altro di questi tumuli, databile tra il 1320 e l’anno 1000 a.C., è caratterizzato da una struttura interna a spirale, simbolo del sole. Vi sono poi alcuni tumuli più recenti, dell’inizio dell’età del ferro, a cavallo tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C., segno evidente che il sito fu lungamente abitato, così come altri due siti abitativi nella vicina Kivikylä, anch’essi risalenti all’inizio dell’età del ferro.

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Le prime notizie storiche e Olao Magno

Le prime fonti scritte sulla terra dei sami risalgono invece al 98 d.C., allorquando lo storico romano Tacito, parlando nella sua Germania di una popolazione del nord da lui chiamata “popolo dei fenni”, così li descrive: “Mangiano piante, vestono abiti in pelle di animale e dormono per terra. L’unica cosa di cui si fidano sono le lance appuntite. Gli uomini e le donne si nutrono della stessa cacciagione”.
Tuttavia i romani lambirono appena, anche nella fase di maggiore espansione del loro impero, la penisola scandinava, mentre alle popolazioni insediatesi qui già da vari secoli iniziarono ad aggiungersi tra il III e il IV secolo d.C. i vichinghi; a loro volta danesi e normanni, giungendo dal mare, iniziarono poco tempo dopo a insediarsi sulle coste seminando il terrore tra le popolazioni autoctone e spingendole, come accennavamo, sempre più verso nord e lontano dal mare di occidente.
Notizie frammentarie su queste genti si ritrovano, nell’àmbito dei documenti scritti, ancora a metà del VI secolo d.C. nella Storia delle guerre di Procopio di Cesarea; mentre bisognerà attendere in pratica un intero millennio per la prima opera letteraria in cui si parli estensivamente degli usi e costumi dei popoli del nord Europa: stiamo parlando della Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno, opera monumentale in ventidue libri pubblicata a Venezia nel 1555, a tre anni dalla morte del suo autore, tradotta successivamente anche nella “lingua toscana” (cioè in volgare italico) e pubblicata anch’essa a Venezia, dove l’autore trascorse gli ultimi anni di vita.

storia dei samiOlao Magno era un importante uomo di Chiesa, a tal punto da essere stato nominato anche arcivescovo di Uppsala, ma con la passione per la geografia e la storia (oggi si potrebbe definire un etnologo). La Svezia di allora si trovava davanti alle prime lotte tra i fautori della riforma luterana e i tradizionalisti della Chiesa romana, e in meno di un secolo il Paese sarebbe passato alla dottrina protestante per volere del sovrano Gustavo I Vasa. In questo contesto Olao, rimasto devoto al cattolicesimo, si diede agli studi e ai viaggi, prima di essere costretto a lasciare definitivamente la sua terra e autoesiliarsi in Italia per rimanere fedele al cattolicesimo.
Il primo di questi suoi viaggi nella Scandinavia dei suoi tempi fu proprio quello intrapreso verso il nord della Svezia per conoscere il popolo che l’abitava e di cui giungevano a Uppsala e a Stoccolma vaghe notizie. Nel 1518, da legato pontificio, visitò le varie comunità sparse nell’enorme regione del profondo nord le quali, seppur già convertite (con la forza, intendiamoci!) al cristianesimo, continuavano a tramandare di padre in figlio (magari di nascosto) i vecchi culti pagani, rendendo di fatto ibrida la propria cultura delle origini rispetto a quella nel frattempo maturata nel resto della Scandinavia per la presenza delle nuove popolazioni giunte.
Ma proprio grazie all’opera di Olao, per la prima volta il mondo latino e mediterraneo iniziava a conoscere lo sconosciuto e misterioso estremo nord, i suoi usi e costumi, gli animali che popolavano le sperdute foreste e le leggende che ruotavano intorno a essi, come ha sottolineato Nicola Pisetta in un suo articolo dal titolo Olao Magno, l’ultimo cattolico di Svezia.

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Antico tamburo sciamanico.

Quello descritto da Olao Magno nelle terre dell’estremo nord era un popolo di cacciatori e di avventurieri, che per muoversi tra le grandi distese di neve delle terre artiche usavano le slitte trainate dalle renne e gli sci; abitavano in capanne coniche trasportabili, chiamate kota, o in tende chiamate lavvu.
Per la cronaca, fu proprio lui a portare con sé in Italia la prima coppia di sci, inizialmente considerati strumenti del diavolo dalla Chiesa, e a promuoverne l’uso tra le popolazioni alpine solamente grazie alla sua autorità ecclesiastica, quando fu chiamato nella veste di arcivescovo di Uppsala a partecipare al Concilio di Trento, svoltosi tra il 1545 e il 1549.
E fu sempre lui a proporre, tra i vari argomenti trattati nel Concilio, che lo stoccafisso diventasse alimento alternativo alla carne nel periodo quaresimale. Lo stoccafisso era un altro alimento tipico da secoli dei popoli del nord ed era giunto in Italia solamente un secolo prima, portatovi dal navigatore Piero Querini che aveva trovato i merluzzi posti a essiccare all’aria dai pescatori delle isole Lofoten, al largo delle coste norvegesi, ancor oggi famose proprio per la produzione e l’esportazione dello stoccafisso; ma fino a quel momento la Chiesa lo aveva rifiutato come “alimento non adatto ai buoni cristiani”.
E fu sempre Olao Magno a tracciare una carta, seppur approssimativa, con la descrizione della lunga costa dell’estremo nord europeo, dall’Islanda alla Finlandia, terre che a quell’epoca erano quasi completamente sconosciute in Italia e nell’Europa meridionale, localizzandovi le città e i villaggi dei popoli scandinavi e dei sami, e inserendovi, secondo l’uso del tempo, immagini a metà tra il reale e il fantastico. La mappa era formata dall’unione di nove xilografie a colori, ciascuna di 55 centimetri per 40, che unite insieme formavano un grande foglio di 170 x 125 centimetri. La prima edizione, scritta in latino, con note tradotte in italiano e tedesco dallo stesso Olao Magno, fu pubblicata nel 1539; la seconda definitiva edizione apparve invece nel 1555 insieme all’edizione in latino della Historia de gentibus septentrionalibus.

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La mappa di Olao Magno.

Contrasti con danesi e svedesi

Può sembrare paradossale che proprio i pastori della Chiesa riformata siano divenuti, a partire dalla seconda metà del ‘500, i maggiori nemici dei sami. Accadde infatti che alle violenze delle popolazioni danesi, svedesi e normanne che nel periodo precedente erano andate insediandosi con la forza nelle terre per secoli occupate dalle tribù lapponi, si aggiungessero adesso le vessazioni dei cristiani, istigati dai loro pastori. Questi – similmente a quanto accadeva con i missionari al seguito di spagnoli e portoghesi nel centro e sud America – sentivano su di sé il compito profetico di evangelizzare con la forza le popolazioni autoctone dedite a una religione politeista basata sulle forze della natura, mandando spesso al rogo i loro “sacerdoti”, cioè gli sciamani, autori di riti propiziatori per prevedere il futuro attraverso l’utilizzo di tamburi magici: strumenti che furono ovviamente considerati diabolici e che divennero oggetto di una vera e propria caccia indirizzata alla loro sistematica distruzione.
Inoltre i sami erano dediti fin dalle loro origini, similmente ai nativi americani, a vari riti propiziatori collegati con gli animali. Per esempio, quando una bestia veniva uccisa, un pezzo di carne di ogni parte del corpo veniva inserito in una specie di tomba per essere seppellito, nella convinzione che la divinità, ingraziata dal sacrificio, facesse rivivere l’animale in un altro mondo. Anche i sami pensavano che gli uomini fossero composti da corpo e anima, ma ovviamente il loro concetto di anima era profondamente diverso da quello cristiano; e questo valeva anche per il loro mondo dei morti, col quale pensavano di potersi mettere in contatto attraverso i sogni e grazie agli sciamani.
Fu così che i sami che non volevano convertirsi divennero oggetto di una vera e propria caccia all’uomo, finché il loro numero non iniziò ad assottigliarsi progressivamente proprio in corrispondenza con l’aumento del numero delle nuove popolazioni scandinave.
La situazione non mutò nei secoli successivi; anzi andò ulteriormente aggravandosi con l’obbligo, sancito dalle Chiese del nord, di assistere alla messa domenicale. Andarono così sorgendo, soprattutto in Svezia, dei veri e propri borghi ecclesiastici, data la scarsa presenza di chiese nell’àmbito dei territori di nuova urbanizzazione, e ciò al fine di consentire la partecipazione alla messa anche a chi abitava in piccoli villaggi rurali dai quali sarebbe stato necessario percorrere tratti di strada troppo lunghi, tra andata e ritorno, per colmare in un solo giorno la distanza con la chiesa più vicina. Vennero quindi creati alcuni “villaggi domenicali”, costruiti su terreni parrocchiali, in grado di ospitare le famiglie del contado nel fine settimana, consentendo il pernottamento del sabato, in modo che le persone potessero assistere alla messa della domenica, dividendo il viaggio di andata e ritorno in due giorni (vi erano nella sola Svezia del ‘600-‘700 oltre settantacinque villaggi religiosi di questo tipo).
Questa organizzazione consentiva però, di fatto, anche un capillare controllo dei presenti e degli assenti. Da qui il proliferare delle persecuzioni per i sami che si ostinavano a non cristianizzarsi non partecipando alla messa domenicale. Da qui anche la possibile conversione “di facciata” di quanti, temendo per la propria vita, accettarono formalmente di passare al cristianesimo lasciando tuttavia all’intimità delle proprie comunità e delle proprie famiglie la continuazione dei riti della tradizione religiosa sami.

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Davanti al goathi, la tipica tenda sami.

Fu ancora la Svezia a farsi di fatto portabandiera di un genocidio sistematico del popolo sami nei due secoli successivi con il “Proclama Lapp-mark”, emanato nel 1673: si trattava di un atto legislativo che di fatto regolava la colonizzazione dei territori sami, offrendo grandi vantaggi ai coloni svedesi che si fossero installati al nord, tra cui un’esenzione fiscale di quindici anni. In tal modo i coloni, spingendosi verso nord, furono autorizzati dallo Stato svedese a cacciare i sami dalle loro terre con ogni mezzo.
La colonizzazione proseguì senza sosta fino alla prima metà del ‘900 aumentando periodicamente, come in vere e proprie ondate migratorie, i conflitti con i sami. L’800 diventò addirittura anche per norvegesi e finlandesi quello che Lola Fonta, in un suo articolo del 2020 su “Le Journal International”, ha definito il “terreno di coltura del movimento pan-scandinavo”, che diffondeva l’idea dei legami comuni tra i Paesi nordici, e soprattutto della loro unità linguistica e culturale. Questo movimento ha contribuito notevolmente allo sviluppo del mito dell’omogeneità etnica scandinava. Di fatto, i sami erano considerati inferiori e arretrati, e gli Stati si assunsero la responsabilità di civilizzarli. La chiave fu l’assimilazione di questi popoli alla lingua, alla cultura, ai valori e alla religione “scandinavi”.
Se ciò non fosse già sufficiente a far comprendere la repressione attuata dai popoli scandinavi nei confronti dei sami e della loro secolare cultura, dobbiamo aggiungere l’episodio più drammatico di questo genocidio sistematico. Accadde ancora in Svezia nel 1922, ed è un fatto storico del tutto dimenticato dai libri: la Svezia fu il Paese che, anticipando perfino i proclami e le leggi varate da Hitler nella Germania del Terzo Reich, creò un vero e proprio centro di eugenetica volto formalmente allo studio delle razze umane, in particolare a quelle del nord Europa. Ma, in effetti, dietro il velo formale della ricerca scientifica, il vero obiettivo era migliorare la razza nordica, una categoria rispetto alla quale i sami erano considerati l’antitesi (come anche altre minoranze e i disabili fisici e psichici). Negli archivi dell’Università di Uppsala si trovano 12.000 scatti di individui di cosiddetta “razza inferiore”, spesso nudi, contrapposti a soggetti più atletici definiti “nordici”.

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Assimilazione attraverso la scuola.

L’accettazione nel secondo dopoguerra

Dopo la fine della seconda guerra mondiale e la caduta del nazismo, per i Paesi scandinavi giunse finalmente il momento di fare i conti con un passato che li metteva in forte imbarazzo rispetto alla rinascente Europa pacificata e democratica. In tutti e tre i Paesi della penisola scandinava, i sami iniziarono a loro volta a prendere coscienza del loro status e iniziarono a far sentire la loro voce sulle questioni politiche, culturali e ambientali.
Uno degli episodi più eclatanti di questa presa di coscienza furono le numerose proteste, negli anni ’70 e ’80, contro la costruzione di una centrale idroelettrica sul fiume Altaelva, nella Norvegia settentrionale, proteste che le cronache dell’epoca intitolarono “la controversia di Alta”. Fu proprio a partire da quelle proteste di argomento ambientalista che i sami iniziarono anche a far sentire la propria voce nell’àmbito politico, arrivando a chiedere forme di autogoverno o di autonomia amministrativa.
Le richieste sfociarono nell’attribuzione del titolo di “popolo originario”, cioè residente in loco prima degli altri scandinavi, attraverso il quale i sami ebbero il diritto di usufruire di terre loro riservate per il pascolo e un monopolio sull’allevamento delle renne.
In particolare fu la Svezia nel 1966 a sancire, grazie al cosiddetto “Patto internazionale sui diritti civili e politici”, il diritto di ogni individuo residente sul proprio territorio “all’autodeterminazione individuale, politica, economica, sociale e culturale”. L’articolo 27 ne stabiliva anche le condizioni, riconoscendo che le persone appartenenti a minoranze di qualsiasi tipo avrebbero potuto esercitare liberamente il loro diritto di praticare la loro lingua, cultura o religione.
Si giunse così alla formazione, tra il 1973 e il 1993, dei parlamenti sami in Svezia, Finlandia e Norvegia, mentre quello nato per volontà dei sami in territorio russo e costituitosi a Murmansk (il Kuelnegk Soamet Sobbar) non ha mai ricevuto alcun riconoscimento politico da Mosca. Tuttavia, anche nei tre Paesi scandinavi bisogna evidenziare come il potere politico di questi organi sia rimasto molto limitato, se non sostanzialmente nullo, dato che i parlamenti dei sami non hanno una reale influenza politica sui parlamenti nazionali dei tre Stati; essi inoltre non hanno alcun potere di veto sulle decisioni delle amministrazioni locali, non possono avviare una legislazione propria e autonoma, e non hanno alcun potere in materia fiscale e finanziaria: sono solamente organi consultivi. Inoltre, i fondi per le attività e le organizzazioni culturali dei sami dipendono dai tre Stati.
Ciò non toglie che la minoranza abbia oggi anche un proprio inno nazionale (il Canto della famiglia sami), il cui testo è stato scritto da Isak Saba, il primo parlamentare di etnia sami eletto in Norvegia, mentre la musica è stata composta da Arne Sørlie, nota musicista anch’essa norvegese; e che abbia persino una propria bandiera, oltre a una festa nazionale che ha luogo il 6 febbraio.
La storia della nascita di questo vessillo merita un approfondimento. Una prima bandiera, disegnata dall’artista Synnøve Persen nel 1977 e ispirata ai colori dei costumi nazionali, fu usata proprio nel corso delle manifestazioni a sfondo ecologico per la difesa e la tutela del territorio, come quella per la centrale idroelettrica sul fiume Altaelva. Un incontro tra le tribù sami dei vari Paesi organizzò successivamente una competizione per la proposta della bandiera definitiva, e la scelta finale fu sancita nel corso del XIII congresso del popolo sami tenutosi ad Åre in Svezia mell’agosto 1986.

storia dei samiLa bandiera scelta era stata disegnata da Astrid Båhl, che utilizzò anch’egli i colori del gákti (il costume tradizionale dei sami) con bande di colore diverso e larghezza proporzionale al numero di abitanti sami nei quattro Stati del nord: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia (la banda più larga perché proprio la Norvegia ospita la maggior parte della popolazione sami). Ma, oltre alle quattro bande colorate, venne realizzato un anello centrale volto a rappresentare simbolicamente il sole (il mezzo cerchio rosso) e la luna (il mezzo cerchio blu), elementi spesso presenti sui tamburi sciamanici dei sami che, come già detto, non a caso furono oggetto di sistematica distruzione nei secoli della loro cristianizzazione forzata. Al riguardo va aggiunto che, sebbene i sami siano ormai quasi del tutto cristianizzati, minoranze sciamaniche sopravvivono ancor oggi in alcune tribù, tanto che nel 2012 il governatore della Contea di Troms, in Norvegia, ha riconosciuto l’Associazione Sciamanica di Troms.
Sulle discriminazioni, sugli episodi di razzismo e sulla sistematica denigrazione che il popolo sami ha dovuto affrontare nel corso degli anni è stato realizzato un film, intitolato Sami blod (sangue sami), dalla giovane regista Amanda Kernell, nata da madre svedese e da padre di origine sami, presentato nel 2016 al Festival Cinematografico di Venezia, col quale la Kernell vinse un premio come regista emergente. Il film rievoca le vicende del passato dei sami con chiarezza e forza narrativa inaudita attraverso gli occhi di una ragazza di quattordici anni che fugge dalla vita tradizionale perché vuole studiare, cercando di entrare nella società svedese ma scontrandosi contro un muro di pregiudizi.

Essere sami oggi

Per quanto oggigiorno la vita dei sami non sia più avversata in modo drammatico dagli altri scandinavi come lo è stata nei secoli passati, va tuttavia notata una certa recrudescenza del fenomeno razziale, soprattutto nella Svezia che è stata oggetto negli ultimi anni di immigrazione estesa. Ciò che è stato riconosciuto ai sami, per qualcuno è solo un insieme di “privilegi”, che negli ultimi anni sono stati fortemente contestati in particolare dai leader e dai seguaci del partito dei Democratici Svedesi. Essi contestano formalmente il principio secondo cui alcuni cittadini, sulla base di criteri etnici non meglio definiti, possano godere di diritti speciali a svantaggio di altri.

Anche se da vari decenni sono cessate le politiche violente di discriminazione razziale da parte delle altre popolazioni scandinave, ancora oggi essere un sami non è sempre facile: la loro identità culturale rimane molto forte e sentita anche tra le nuove generazioni, e il considerarsi un popolo senza uno Stato spesso non li rende ben accetti agli scandinavi.
La loro colpa non è (e invero non è mai stata) quella di custodire ricchezze o potere, come vari popoli dell’Africa defraudati per pochi spiccioli dalle politiche coloniali o neo-coloniali delle grandi potenze delle loro materie prime (oro, diamanti, uranio, cobalto, eccetera), i cui frutti in ogni caso arricchiscono solamente i pochi al potere; piuttosto è il loro rifiuto, comunque garbato, di accettare la “civiltà” occidentale a farli apparire ancora strani, ignoranti e quindi inferiori. Se poi riemergono la loro religiosità e le loro tradizioni, la loro impermeabilità al progresso diventa per alcuni addirittura pericolosa.
La presenza dei sami nei territori artici più settentrionali d’Europa ci fa ricordare l’altrettanto triste storia dei nativi d’America, che si opposero ai bianchi in estenuanti battaglie da cui si salvarono soltanto in pochi, ancora oggi ricordate dagli americani con la loro “mitologia” sul far-west esportata da tanti film in tutto l’Occidente; abituato quindi sempre a vedere gli “indiani” come brutti, sporchi e cattivi, esattamente come sono stati visti i sami dai popoli del nord Europa.
In vero le varie tribù sami si sono opposte a molte cose che a noi occidentali sembravano “ovvie”: al graduale disboscamento delle foreste scandinave per la produzione industriale del legno e della carta, al fenomeno crescente dell’urbanizzazione, alla costruzione di nuove vie stradali e ferroviarie, alle centrali elettriche, all’estrazione di minerali e petrolio anche al largo della costa, alla deviazione dei fiumi che solcavano la tundra e i boschi per la costruzione di centrali idroelettriche, all’installazione di pale per i parchi eolici, eccetera.
Tutto questo è sempre avvenuto in nome di un rispetto della natura mai dimenticato e mai sottovalutato, nemmeno di fronte all’avanzare imperterrito della modernità, o quanto meno di un progresso invasivo e non rispettoso dell’equilibrio e dell’armonia universali, alla base non solo del loro misticismo religioso, ma anche semplicemente della loro abituale vita quotidiana da individui e da gruppo sociale.
I sami hanno inoltre scoperto di essere, potenzialmente, tra le principali vittime del cambiamento climatico. Da un rapporto di Survival International, che ha avuto vasta eco nei Paesi scandinavi (e quindi anche tra gli stessi sami), emerge che l’impatto del cambiamento climatico è (e sarà sempre più nel tempo) maggiore per coloro che abitano nelle aree artiche; quindi i sami, dipendendo in larga parte dall’ambiente per il loro sostentamento e per ogni aspetto anche collaterale della loro cultura e vita sociale, intuiscono di essere ancora più esposti ai cambiamenti climatici di tanti altri popoli del mondo. D’altronde, si sa che lo stile di vita dei sami dipende da due fattori strettamente legati: il ghiaccio e le renne.
Quindi l’innalzamento delle temperature è divenuto un vero e proprio dramma per questo popolo. Lo scioglimento dei ghiacci, infatti, sta provocando una netta riduzione nel numero delle renne, poste di fronte a pericoli finora sconosciuti, come la difficoltà di procurarsi il cibo e il rischio di annegare attraversando i sottili strati di ghiaccio che ricoprono i laghi negli ultimi inverni. Lo scioglimento della neve prima che il ghiaccio sui laghi si sia completamente indurito, ha reso inoltre più rischiosi gli spostamenti e l’attraversamento lungo i sentieri tradizionalmente usati per la transumanza.
Ma anche per i sami che vivono sulle coste e che operano con la pesca e la conservazione del pescato attraverso l’affumicazione o la salatura, sta accadendo qualcosa di irreparabile a causa del clima più caldo degli ultimi anni e delle diverse rotte usate dai branchi di merluzzi, aringhe e altri pesci normalmente pescati in prossimità delle coste a queste latitudini. E comunque tutte le stagioni da qualche anno appaiono sempre più variabili e calde, con gli inverni spezzati spesso anche da ondate di temperature più miti e caratterizzati da nevicate sempre meno abbondanti.
Fatto sta che, se un tempo i sami erano anche bravissimi a prevedere in modo “naturale” (senza strumenti o computer) le condizioni metereologiche e riuscivano a orientare le proprie attività sulla base del tempo e della durata delle stagioni, oggi è come se questa loro capacità di previsione fosse messa sempre più a dura prova e, di conseguenza, come se le conoscenze degli avi non funzionassero più.
La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (DNUDPI), approvata nel 2007, ha certamente contribuito a rafforzare la lotta per la sopravvivenza della cultura sami all’interno degli Stati scandinavi, al pari della creazione dei parlamenti sami in Norvegia, Svezia e Finlandia; mentre ben poco è cambiato nel territorio lappone russo della penisola di Kola, dove i sami sono considerati soltanto una parte minoritaria della popolazione locale, senza quindi specifiche tutele, quanto meno formali, come almeno accade almeno in Norvegia, Svezia e Finlandia.
C’è tuttavia da sottolineare che il tracciamento di confini nazionali tra fine ‘800 e inizio ‘900, quando il territorio scandinavo è stato suddiviso tra i tre attuali stati (Norvegia, Svezia, Finlandia), ha ulteriormente disorientato un popolo che si è sempre considerato una nazione, ma che non solo non ha mai avuto un proprio Stato, ma vive oggi addirittura in quattro diversi, dei quali solamente i tre citati hanno almeno le frontiere aperte, a differenza della Russia, dove vive un’esigua minoranza sami, che invece rimane uno Stato che limita fortemente la libertà di movimento di tutti i suoi cittadini anche all’interno della stessa Federazione Russa. Queste frontiere, per quanto aperte, hanno messo in enorme difficoltà gli allevatori di renne, le cui mandrie non conoscevano fino a un secolo fa alcun confine per il pascolo e gli itinerari della transumanza, mentre oggi i sami sono soggetti a pesanti multe nei casi di sconfinamento dei loro animali tra Stato e Stato.
Non è quindi così strano che sempre più giovani sami cerchino di trasferirsi nelle città appena possono, quasi abiurando la propria cultura e le proprie tradizioni. La citazione del film Sami blod, di cui abbiamo parlato, ne è solo un esempio, una specie di traduzione in chiave narrativa di un malessere che pervade molti giovani sami, sempre più desiderosi di integrarsi col resto della popolazione scandinava a costo di perdere il senso delle proprie radici e della propria storia, e a costo di troncare i legami familiari con i genitori, i parenti e quella “famiglia allargata” che è sempre stata nella logica della società sami nei secoli passati.

storia dei sami
Museo sami a Karasjok, cittadina norvegese considerata la capitale della Lapponia.

I giovani tendono sempre più a studiare l’inglese (oltre alla lingua del Paese in cui vivono, norvegese, svedese o finlandese che sia), trascurando spesso la lingua degli antenati che in molti di fatto non comprendono più. Tendono a frequentare le università, a lavorare all’occidentale come professionisti o anche come semplici operai, a spezzare insomma i legami di solidarietà con parenti e amici, abbandonando quanto più possibile il legame con l’animale simbiotico col quale hanno condiviso l’esistenza per secoli, la renna. Tendono, se possibile, perfino ad “annacquare” i loro connotati somatici per formare famiglie etnicamente miste e poter avere quindi figli che non debbano sentirsi inferiori ai modelli scandinavi solo per come appaiono in viso.
Non è certamente una grande vittoria per tutti noi, non è una vittoria per l’Europa, e non lo è nemmeno per gli Stati scandinavi, ormai presi dai problemi di un’immigrazione sempre più vasta numericamente a ogni anno che passa e quindi sempre più mal tollerata da una popolazione che è riuscita a creare un sistema di welfare che non ha uguali al mondo e che teme di doverlo perdere a causa della presenza crescente di siriani, afgani, russi, ucraini e chissà quanti altri.
Nella ricerca di un futuro diverso, migliore, spesso si infrangono i sogni di tanti giovani; e se la scorciatoia delle droghe e dell’alcol si insinua ormai prepotente perfino tra gli immigrati islamici, non c’è da stupirsi che questo sia il prezzo pagato anche da molti individui delle nuove generazioni dei sami, spesso persi nelle città norvegesi o svedesi dove hanno provato a trovare, insieme a un nuovo futuro, forse anche una nuova identità, in un certo senso liberatoria della loro atavica inferiorità etnico-sociale. Né, in un contesto di questo genere, deve stupire l’alto tasso di suicidi tra questi giovani, ancora maggiore di quello – già abbastanza alto rispetto alla media europea – degli adulti scandinavi e russi che vivono nel medesimo territorio, come emerge da una recente ricerca condotta da Jon Petter Stoor e Niclas Kaiser per l’International Journal of Circumpolar Health.
Al di là della perdita di un’identità certa – elemento comune a molte minoranze etniche in vari Paesi, in particolare della fascia artica – il suicidio dei giovani sami non è considerato solamente un grave problema di salute pubblica, soprattutto in Svezia, poiché le comunità sami comunque danno un senso al suicidio in relazione al potere e all’identità all’interno del loro contesto culturale quando questo è minacciato, o quando qualcuno cerca di abbandonarlo perché se ne vergogna sentendosi additato come “diverso”, o perché in uno stato di inferiorità culturale o socio-economica.
Il suicidio, in questi casi, è quindi inteso come un atto che ha luogo e ha senso allorché un sami non ha più il potere di mantenere un’identità sami, risultando disconnesso dal mondo degli avi e collocato in un vuoto esistenziale (né sami né “non-sami”) in cui il suicidio appare l’unica via d’uscita, l’unica concreta soluzione esistenziale.
Ciò accade, sempre secondo questa indagine, prima di tutto quando i sami sono trattati negativamente dalla società “maggioritaria”; in secondo luogo quando alcuni di loro subiscono un trattamento negativo da parte di altri sami (violenza domestiche, tentativi di emancipazione culturale non accettati dal resto della comunità), finendo quasi espulsi dalla loro stessa famiglia in una sorta di ostracismo strisciante o addirittura palese; infine quando divengono insopportabili psichicamente le perdite storiche e culturali che legano l’individuo alla sua comunità (ma anche quelle legate alle tradizioni religiose o linguistiche), tanto da trasformarne l’esistenza in un vuoto incolmabile e tanto doloroso da indurre i soggetti più deboli a rinunziare a vivere (o a vivere in modo alternativo a quello imposto dalle tradizioni e dalle consuetudini familiari).

Adattamento

Eppure, c’è anche chi riesce a coniugare serenamente tradizione e modernità. Un esempio è quello di Annikki Sarre, nata vicino a Inari, ma residente stabilmente da anni a Roma, forse l’unica sami con cittadinanza italiana. Ella rappresenta un esempio di evoluzione del modello tradizionale della cultura della sua gente e insieme di “non rinunzia” al mondo dei suoi avi. È un esempio di chi, anche tra le nuove generazioni, non ha mai rinunziato a sentirsi e a dichiararsi orgogliosamente di etnia sami pur riuscendo a muoversi in un contesto non più legato al mondo tradizionale del suo popolo, sia culturale sia geografico.
La Sarre ha voluto recarsi di persona nell’autunno del 2019 a votare per le elezioni dei rappresentanti dell’ultimo parlamento Sami a Inari, ritrovandosi dopo anni nuovamente nella sua terra d’origine, anche per recuperare in un certo senso le proprie radici culturali e ambientali. “Le mie radici e tradizioni familiari non vengono scalfite da una lunga permanenza all’estero, ma, in un certo senso, rafforzate dalla lontananza e dai ricordi… Sono orgogliosa di appartenere a un popolo antico e ricco di espressioni culturali, che però allo stesso tempo si adegua e si adatta, senza nulla rinnegare, al nostro tempo e alle diverse situazioni. Penso che il ruolo del Sámediggi [il parlamento dei sami finlandesi] sia fondamentale nel promuovere e difendere, con gli strumenti dell’informazione, dell’istruzione e della partecipazione, la consapevolezza delle nuove generazioni sulle tradizioni anche linguistiche del popolo”, ha dichiarato in un’intervista rilasciata all’epoca alla rivista “Affari internazionali”. E ha aggiunto, sorridendo, di sentirsi profondamente europea, dato che è in possesso della cittadinanza finlandese, di quella italiana e, in più, per nascita, di quella sami.
Ci sono quindi sami delle ultime generazioni che tendono a nascondere la loro provenienza, preoccupandosi di continuare a sentirsi schiacciati dal peso di un’origine ancora mal tollerata dal risorgente nazionalismo scandinavo; e c’è chi invece rivendica con orgoglio la propria origine e l’appartenenza alla cultura di un popolo di cui si continua a essere fieri, pur in un rinnovato contesto politico e sociale pan-europeo: tra questi l’uso dei social media come Snapchat, Instagram e Facebook hanno suscitato un grande interesse.
Negli ultimi anni c’è stato un grande coinvolgimento di giovani sami nell’àmbito della comunicazione sociale, con campagne come #kofedag (il Costume-day), una manifestazione nella quale i ragazzi e le ragazze sami (e talvolta anche loro amici di etnia scandinava, come segno di “riconciliazione” dopo le politiche razziste del passato) hanno indossato un costume tradizionale sami, pubblicandone e condividendone sui social le immagini. Ci sono state inoltre alcune campagne, sempre sui social, come “Parla sami con me”, che si sono rivelate molto utili per rendere la loro cultura più nota pubblicamente, incoraggiandone l’uso proprio tra i giovani cresciuti al di fuori della cultura tradizionale dei piccoli centri; e la lotta ai cambiamenti climatici ha ulteriormente rafforzato la partecipazione e l’integrazione delle giovani generazioni sami alle campagne transnazionali degli ecologisti.

Ovviamente c’è ancora chi – seppur in numero di anno in anno sempre minore – rimane legato pedissequamente all’attività e alla cultura dei propri avi e non pensa ad altro se non a continuarne il lavoro per antonomasia, quello dell’allevatore tra i pascoli usati per le renne da padri, nonni e parenti ancora più lontani, come se fosse un fatto ovvio e senza alternative, rimanendo così in stretta simbiosi con gli animali e contribuendo a dare linfa vitale a quello che è stato per secoli il mondo tradizionale dei sami, assicurando una continuità con l’impegno dei loro padri per il bene delle collettività e della natura che le circondano.
Cosa accadrà tra venti o trent’anni non è dato sapere; cosa accadrà ancora oltre è ancora più enigmatico. Di sicuro lo decideranno le generazioni future, anche se l’integrazione culturale e sociale non potrà essere arrestata, come accade in ogni parte del globo per tutti i popoli rimasti subalterni e minoritari rispetto al resto della popolazione di uno Stato o di un’area geografica. Forse, come nella Lapponia russa, potremo vederli all’interno di qualche parco tematico, intenti a intrattenere i turisti e a vendersi per qualche foto o per un tour tra le bellezze del loro paesaggio sulle slitte trainate dalle renne; o magari dei sami leggeremo in futuro solo qualche racconto o qualche leggenda sui libri di storia, ne guarderemo le immagini in foto sbiadite o ne ascolteremo qualche joïk in brani elaborati in chiave elettronica dimenticando quella triste e tenera melodia vocale che per secoli è stata l’unica chiave di trasmissione culturale tra le loro generazioni, in assenza di un linguaggio scritto e di libri. O forse, per conoscere qualcosa di un popolo che nel frattempo si sarà avviato quasi all’estinzione etnica, dovremo visitare qualcuno dei musei etnografici già presenti nei territori sami, gli unici luoghi che ci ricorderanno chi furono e cosa fecero nel passato queste donne e questi uomini vissuti per tanti secoli insieme alle loro inseparabili e amate renne.  


 

Le foto contemporanee sono dell’autore. Il testo è tratto dal suo libro: