Le proteste dei lavoratori del tessile in Bangladesh sono ricorrenti per cui non è il caso di stabilire quale sia stato l’inizio dell’ultima fase, abbastanza radicale da forare il muro dell’informazione.
Considerando soltanto gli ultimi quindici giorni, va ricordato che nella mattinata del 30 ottobre gli operai di alcune aziende di Gazipur, Ashulia e Savar (ma le iniziative si erano presto estese ad altre località) avevano protestato vigorosamente con manifestazioni, picchetti e anche bloccando l’autostrada.
Da tempo i lavoratori, in maggioranza donne, chiedono un aumento: il triplo dell’attuale salario mensile minimo di 8300 takas (70 euro), con la richiesta di arrivare a 23mila takas (190 euro) indispensabili per affrontare l’aumento del costo della vita.
Fatalmente erano scoppiati duri scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine. Le cariche si intensificavano nel pomeriggio con ampio uso di manganelli e gas lacrimogeni.
Nel corso degli incidenti un lavoratore di un’azienda del gruppo Energy Pack (Rasel Hawlader) rimaneva a terra cadavere per un colpo di arma da fuoco. Il fatto non poteva che infiammare ulteriormente la protesta. Gli operai in lotta, dopo aver incendiato un furgone della polizia, avevano forzato l’ingresso della Jamuma Fashion e di qualche altra azienda, compiendo all’interno azioni di sabotaggio e devastazione. In particolare la fabbrica di confezioni abm di Konabari veniva data alle fiamme risultando completamente distrutta.
Altri scontri si registravano nella prima settimana di novembre nella città di Ashulia, a ovest di Dacca, quando circa diecimila operai hanno tentato di impedire la ripresa del lavoro nel corso di uno sciopero di massa che aveva coinvolto oltre seicento aziende. I manifestanti, oltre a scagliare pietre e mattoni sulla polizia che sparava proiettili di plastica, tentavano di bloccare le strade.
Tra i feriti più gravi, una donna di 35 anni colpita al volto durante la protesta che si svolgeva a Sreepur, una sessantina di chilometri da Dacca.
Le aziende coinvolte nello sciopero erano centinaia, comprese alcune delle più grandi del Paese: Gap, Walmart, h&m, Zara, Bestseller, Levi’s, Marks and Spencer, Primark, Aldi…
Per sopire le proteste, gli industriali avevano garantito un congruo aumento dei salari entro una settimana. Aumento che alla prova dei fatti risulterà comunque inconsistente (se non addirittura “ridicolo” stando ad alcune fonti sindacali).
Secondo soltanto alla Cina, il Bangladesh al momento risulta essere uno dei maggiori esportatori nel campo dell’abbigliamento, con oltre 3500 aziende e quasi quattro milioni di lavoratori, in maggioranza donne.
Ancora lanci di gas lacrimogeni e di pallottole di plastica il 9 novembre contro gli operai che a migliaia manifestavano per l’inconsistenza dei previsti aumenti. Da parte dei sindacati inoltre venivano denunciati arresti e intimidazioni.
Il 7 novembre, il comitato del salario minimo aveva fornito i dati dell’aumento salariale per circa quattro milioni di lavoratori del tessile. Si trattava del 56,25% del salario mensile di base, per cui si arrivava a 12.500 takas (104 euro). Cifra giudicata irrilevante di fronte all’aumento del costo della vita e quindi rigettata da lavoratori e sindacati.
Tra le maggiori proteste, quella di Gazipur dove venivano nuovamente bloccate alcune strade. Venivano erette barricate, poi date alle fiamme e lanciate pietre contro le forze dell’ordine. Anche nella periferia nord di Dacca migliaia di operai erano usciti dalle fabbriche di Ashulia scendendo nelle strade per protestare. Un esponente della federazione indipendente degli operai dell’abbigliamento del Bangladesh, Mohammad Jewel, veniva arrestato e tre operai – quelli finora accertati – perdevano la vita nel corso della protesta.