Cosa avreste detto se negli anni ottanta una manifestazione contro l’apartheid e per la liberazione di Mandela fosse stata impedita arbitrariamente, da un momento all’altro, in un Paese europeo democratico? Ovviamente vi sareste indignati e avreste gridato allo scandalo. Bene, avete un’altra occasione per farlo.
Sabato 9 dicembre a Berlino, una manifestazione di centinaia di curdi e solidali è stata dispersa, praticamente senza preavviso. Motivo: l’esposizione sulla pubblica via di ritratti di Abdullah Öcalan. Imprigionato nell’isola di Imrali dal 1999 in isolamento totale e di cui non si hanno notizie da mesi, tanto che si teme per la sua stessa vita.
Molti dei partecipanti si sono spontaneamente seduti, rimanendo a lungo sul posto per protesta.
Organizzata dal Consiglio delle donne di Dest-Dan e dalla Libera comunità curda di Berlino (Nav-Berlin), la manifestazione rientrava nelle iniziative per la campagna internazionale “Libertà per Öcalan e soluzione politica della questione curda”. Campagna con cui si chiede la liberazione per il leader curdo in modo che possa prendere parte alle trattative per risolvere il conflitto tra popolazione curda e Stato turco. Come avvenne, se pur in un contesto diverso, con Mandela in Sudafrica.
Nella stessa situazione del fondatore del pkk versano altri tre prigionieri politici (Hamili Yıldırım, Ömer Hayri Konar e Veysi Aktaş). Anche della loro sorte non si conosce praticamente nulla dal marzo 2021.
E come per Öcalan, da allora né i loro familiari, né gli avvocati hanno potuto avvicinarli.
Commentando questo fatto, Hüseyin Yılmaz (co-presidente di Nav-Berlin) ha ribadito che “se non viene garantita la libertà di Abdullah Öcalan, non ci potrà essere un futuro favorevole per il popolo curdo e per gli altri popoli del Medioriente”. Aggiungendo che dietro la proibizione della manifestazione del 9 dicembre si può riconoscere “la stessa mentalità che ha portato al suo sequestro”, in quella che ha definito una “cospirazione internazionale”.
Tutto questo, paradossalmente, mentre da più parte si levava la legittima, sacrosanta protesta per la proibizione inflitta ai familiari di Jina Mahsa Amini di ricevere il Premio Sacharov per la Libertà di Coscienza. Al punto da averne sequestrato i passaporti per impedir loro di lasciare l’Iran. Come è noto la giovane curda venne arrestata il 13 settembre 2022 per non aver indossato “correttamente il velo (hijab) ed era deceduta tre giorni dopo a causa delle torture subite. La sua morte divenne l’innesco per una delle maggiori ondate di protesta contro il regime islamico con lo slogan, ormai universale, “Jin, Jiyan, Azadî”.
In quella circostanza gli europarlamentari richiesero dure sanzioni contro i funzionari iraniani e contro i Guardiani della Rivoluzione. Sanzioni ulteriormente inasprite nel 2023.
Molto bene, ovviamente. Peccato per la latitanza dell’Europarlamento in merito alla questione curda, soprattutto per quanto riguarda il Bakur (il Kurdistan sotto amministrazione-occupazione turca).
Ma per fortuna non manca un altro genere di solidarietà, quella degli oppressi e diseredati.
In questi giorni i membri della Comunità Mazhauga, riuniti nella Casa del Pueblo di Ciudad de México hanno organizzato alcuni incontri-dibattiti, dal titolo Le idee non si possono imprigionare, per discutere gli scritti di Abdullah Öcalan e approfondire le sue tesi in merito a una società democratica, ecologica, rispettosa delle donne, egualitaria.
A conclusione, una cerimonia in onore di tutti i popoli che resistono e per le prigioniere e i prigionieri politici.