Unica consolazione: seppure per una sola e ultima volta, lo scampolo di foresta alpina, di taiga, che rendeva unica Villabalzana, ha potuto godere, prima di venire massacrato impietosamente, della nevicata di qualche giorno fa che aveva imbiancato le sommità dei Colli Berici.
Per il resto, niente da dire, niente da aggiungere a quanto già detto in altre occasioni (“Ma i veneti odiano gli alberi?”).
Solo l’amarezza, il senso di vuoto (non in senso metaforico) che irrompe, dilaga osservando la desolazione nel prato in prossimità della chiesa di Villabalzana. Una decina di grandi alberi, citati come rimarchevoli anche in qualche guida, cedri nobili e maestosi, abbattuti da un giorno all’altro con motivazioni, a mio avviso, alquanto discutibili. Ossia che con l’intensificarsi di “eventi estremi” (burrasche, forti venti, eccetera) avrebbero potuto venire sradicati. Danneggiando… ma la cosa è alquanto opinabile vista la distanza… una trattoria. Al massimo qualche auto parcheggiata, penso.
In ogni caso sarebbe bastato, sempre mio modesto avviso e in base a esperienza personale, un blando intervento di potatura. Invece no, via tutto. Con la scomparsa di quello che senza ombra di dubbio costituiva l’elemento più bello, esteticamente parlando, e più naturalistico della località.
Una prima ipotesi era che la cosa fosse in qualche modo collegata (magari per costruirvi un parcheggio) al previsto utilizzo delle cave, abbandonate da anni e già in avanzata fase di rinaturalizzazione (vedi la presenza di chirotteri, sassifraga berica…) di un’area ex militare. Divenuta in qualche decennio uno scrigno di biodiversità, perlomeno rispetto alle aree circostanti, proprio in quanto “abbandonata” e poco frequentata. Ora si vorrebbe “valorizzarla” in senso turistico, non si capisce bene come, pare con luci intermittenti e altre amenità. Forse per fare il paio con quanto è avvenuto al sottostante lago di Fimon, “valorizzato” a uso e consumo dei pescatori eliminando di fatto il vasto canneto che forniva riparo, tra gli altri, al tarabusino e al cannareccione. E trasformando il primordiale specchio lacustre nella versione locale dell’Idroscalo.
Ma, tornando a Villabalzana e stando a quanto dichiarato dagli “addetti ai lavori” colti sul fatto (inutili le nostre lamentele, recriminazioni, proteste, richiami al senso di umanità, cosiddetto), l’ipotesi sarebbe quelle di piantarvi degli ulivi. Nientemeno! Anvedi l’originalità!
Ora chi conosce i Colli Berici sa bene che qui ormai si può parlare di mono-coltura ulivista (o al massimo di bi-coltura: va forte il prosecco). A scapito non solo dei grandi alberi – sempre meno – ma del bosco in genere. Grazie anche ai finanziamenti di cui godono questi due presunte “eccellenze” beriche, “pompate” in quantità industriale…
In zona i precedenti non mancavano. Elencando: le quattro querce secolari lungo la strada sottostante la collina di Montruglio (dicembre 2016, quelle rimaste sono salve soltanto per il pronto intervento di un escursionista di passaggio), i tigli di Ponte di Barbarano, “el moraro de Col de ruga”, il cedro gigante di Longare (2022), i due bagolari e il platano (gigantesco, prova deontologica dell’esistenza di Dio) nel bel mezzo di un campo prima della strada per Campiglia. E anche le decine di platani, olmi, aceri campestri, morari e robinie di notevoli dimensioni che ombreggiavano la vecchia ferrovia Treviso-Ostiglia. Divelti senza criterio durante i lavori per la pista ciclabile. Un controsenso, a mio avviso.
Ma la furia ecocida sembra essersi scatenata con particolare veemenza in prossimità delle chiese. Esorcismo antropocentrico preventivo per la “paganità” intrinseca nel rispetto (culto?) per gli alberi? Vedi a Villaganzerla, Castegnero e ora appunto Villabalzana.
E quindi? Niente, ormai penso sia inutile anche solo rammaricarsi. La deriva è questa. Inasprimento ulteriore della colonizzazione, della riduzione dei Colli (come per gran parte della montagna veneta) a parco giochi, a sfogatoio del “tempo libero” (sostanzialmente una fonte di profitto sotto mentite spoglie) e zona residenziale per benestanti in fuga dalle città (ma portandosi dietro tutta la spazzatura, materiale e spirituale, del consumismo).
Contraltare solo apparente dell’altra tendenza, quella che va cementificando, impermeabilizzando, degradando a perdita d’occhio la pianura sottostante a furia di capannoni, autostrade, basi militari.
In attesa… di cosa? Forse di una generazione di ambientalisti veri e consapevoli in grado di porre un limite alla trasformazione del pianeta in un guscio vuoto e avvizzito, in una discarica sconfinata dove contemplare inermi e sconsolati il Nulla che avanza.
E concludo evangelicamente: “Perdona loro, non sanno quello che fanno”.