Inevitabilmente da qualche parte si griderà all’ennesima “rivoluzione colorata”. Anche se in questa circostanza appare piuttosto monocromatica. “Verde” per la precisione.
Comunque va preso atto che, in Cambogia, la manifestazione convocata per il 18 agosto dall’opposizione in esilio è sostanzialmente fallita. Phnon Penh blindata e decine di nuovi arresti, tra cui alcuni esponenti della klsa (Khmer Student League Association), nei giorni immediatamente precedenti, avevano evidentemente scoraggiato i dissidenti.
Stavolta la questione riguardava la clv (Cambodia-Laos-Vietnam Triangle Development Area), la zona economica speciale pianificata ormai da vent’anni.
Il mese scorso era stato diffuso un breve video realizzato da tre attivisti (Srun Srorn, Peng Sophea e San Sith) che denunciavano l’ambizioso progetto in quanto foriero di nuove spoliazioni di terre, deforestazioni e anche di una possibile perdita dell’integrità territoriale a favore del Vietnam.
Immediata la reazione del presidente del senato Hun Sen (ricordo che l’anno scorso aveva poco elegantemente “ceduto” la guida del governo al figlio Hun Sen), il quale direttamente dagli schemi televisivi ne aveva preannunciato l’immediato arresto dei tre. Minacciando quei cittadini che avessero avuto l’intenzione di scendere in strada per protestare.
Con la clv, almeno ufficialmente, si vorrebbe incrementare lo sviluppo economico e il commercio tra le province di confine in Vietnam (cinque), Laos (quattro) e Cambogia (quattro: Ratanakiri, Kratie, Mondulkiri e Stung Treng), consentendo il libero flusso di persone, merci e investimenti.
Ma evidentemente in Cambogia c’è ancora chi diffida temendo che le concessioni (pluridecennali) su vasti terreni attualmente agricoli divengano di fatto proprietà di investitoti stranieri sottraendole al controllo del Paese.
Per i leader dell’opposizione in esilio il progetto non sarebbe altro che una copertura per consentire “devastanti deforestazioni illegali, allontanamento forzato delle popolazioni dalle terre in cui vivono e soprattutto sfruttamento intensivo delle risorse naturali”. Forse non lo dicono esplicitamente, ma par di capire che lo si considera una forma di colonizzazione vera e propria.
Per analogia vien da pensare a quanto avveniva il mese scorso (2 luglio) quando dieci militanti di un collettivo ambientalista cambogiano (Mother Nature Cambodia) venivano condannati a pene carcerarie varianti dai sei agli otto anni, accusati di “complotto” e di “insulti alla corona” (lesa maestà). La loro colpa, aver denunciato nel 2021 il versamento di rifiuti tossici nel fiume Tonie proprio di fronte al palazzo reale di Phnom Penh.
Per mettere in guardia sui gravi problemi ambientali della Cambogia, dove in nome dello “sviluppo” (o piuttosto dei profitti dei privati), si sacrifica l’ambiente, i giovani ambientalisti del collettivo incriminato avevano realizzato diversi video di denuncia, diffondendoli poi nelle reti sociali. In particolare sull’inquinamento del Mekong e sui danni prodotti dal dragaggio della sabbia nella provincia di Koh Kong. E ricevendo, sempre nel 2021, il prestigioso premio svedese Right Livelihood Award. Le condanne nei loro confronti sono state stigmatizzate sia da Amnesty International sia dal portavoce delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Anche perché non è certo il primo caso di repressione ingiustificata del dissenso. Visto che la Cambogia si colloca al 151esimo posto su 180 in materia di libertà di stampa. Tra il 2021 e il 2022 altri tre ambientalisti (Thun Ratha, Long Kunthea e Phuon Keoraksmey) avevano trascorso oltre un anno di carcere per “turbamento dell’ordine pubblico” avendo organizzato una marcia pacifica contro il riempimento di un lago.