Harvard non vuole maschi bianchi, e il prof se ne va

James Hankins.

Se si vuol capire la crisi delle università di élite in America, ecco una testimonianza d’eccezione: l’addio a Harvard di uno dei più grandi studiosi della cultura classica occidentale, un italianista di fama mondiale. È un divorzio pubblico, annunciato e motivato perché Harvard ha ripudiato questa tradizione culturale: la nostra. È solo l’ultimo episodio di una storia che ha almeno sessant’anni alle spalle…
James Hankins (nato nel 1955 a Philadelphia) è uno dei più importanti storici americani, uno specialista del Rinascimento italiano e della tradizione classica. È stato professore all’Università di Harvard dal 1985, e dopo oltre quattro decenni di insegnamento, ha assunto lo status di emerito in quell’ateneo. Questo grande classicista, autore di oltre venti saggi tradotti nel mondo intero, la cui produzione spazia dall’antica Grecia all’epoca aurea della cultura umanistica italiana, oggi annuncia che lascia Harvard definitivamente. Non per anzianità, non per andare in pensione. Ecco perché, nelle sue parole:

Due settimane fa ho tenuto la mia ultima lezione a Harvard University, dove sono stato professore di storia per quarant’anni. Quattro decenni di esperienza in una delle principali università del mondo mi hanno offerto un punto di osservazione privilegiato per seguire la progressiva sostituzione della storia dell’Occidente con la storia globale. Questo cambiamento è una parte della ragione per cui le giovani generazioni si trovano oggi in uno stato di disorientamento morale e intellettuale. Sono arrivato al termine di un contratto quadriennale che avevo firmato nell’autunno del 2021.
In quell’anno decisi che non volevo più insegnare a Harvard. Venivamo da quasi due anni sottoposti al rigido regime Covid dell’università. Si trattava di una forma di governo emergenziale che rispecchiava fin troppo fedelmente l’accettazione acritica, da parte dell’intero Paese, in nome della presunta “Scienza” sostenuta dal potere pubblico, di invasioni tiranniche della vita privata. A Harvard ai professori veniva imposto di tenere le lezioni con la mascherina e di svolgere i seminari su Zoom. Nessuna delle due pratiche era compatibile con la mia idea di educazione liberale.
L’anno precedente l’università si era inginocchiata collettivamente durante l’Estate di George Floyd [le proteste di massa guidate da Black Lives Matter dopo l’uccisione dell’afroamericano a Minneapolis da parte di un poliziotto]. Pensavo che si trattasse di un vuoto gesto di virtù esibita, ma mi sbagliavo: ebbe conseguenze serie sul modo in cui conducevamo le nostre attività. Nell’autunno del 2020, esaminando le candidature ai programmi di dottorato, mi imbattei in un candidato eccezionale, perfettamente adatto al nostro corso di studi. Negli anni precedenti sarebbe balzato immediatamente in cima alla graduatoria. Nel 2021, però, un membro della commissione ammissioni mi disse informalmente che “quella cosa” (cioè ammettere un maschio bianco) “quest’anno non poteva succedere”.
Nello stesso anno, uno studente universitario che avevo seguito come tutor, di un’intelligenza fuori dal comune, letteralmente il miglior studente di Harvard – vincitore del premio per il laureando con il miglior curriculum accademico complessivo – fu respinto da tutti i programmi di dottorato ai quali aveva fatto domanda. Anche lui era un maschio bianco. Telefonai a diversi amici in varie università per capire perché fosse stato respinto. Ovunque mi raccontarono la stessa storia: le commissioni di ammissione ai dottorati in tutto il Paese stavano seguendo lo stesso protocollo non scritto che valeva anche da noi. L’unica eccezione che trovai a questa esclusione generalizzata dei maschi bianchi era una persona che era nata donna.
Credo che Harvard oggi stia seguendo una rotta migliore sotto la guida del suo attuale presidente, Alan Garber. La reazione alla sconcertante indifferenza dell’università verso le manifestazioni antisemite seguite alle atrocità del 7 ottobre 2023, ha costretto la Harvard Corporation – l’organo che sceglie il presidente – a cercare una guida sicura. Ciononostante, ritengo di poter utilizzare molto meglio il mio tempo e la mia esperienza nella mia nuova sede istituzionale – la Hamilton School of Classical and Civic Education presso la University of Florida – anziché a Harvard. Il motivo è semplice: la Hamilton School è impegnata nell’insegnamento della storia della civiltà occidentale. Quando la pedagogia progressista ha sostituito i corsi sulla civiltà occidentale con la storia globale, si è prodotto un danno serio alla socializzazione dei giovani americani. Quando non si insegna ai giovani che cosa sia la civiltà, si scopre che le persone diventano incivili.

Il rifiuto di studiare e di insegnare quella cosa orribile che è la cultura e civiltà occidentale, in realtà ha una storia ben più antica dell’Estate di Floyd, di Black Lives Matter, della “woke culture”. Ho ricordato un antefatto nel mio saggio Grazie, Occidente un anno fa. L’università di Stanford, uno degli atenei più elitari della California, abolì il suo corso di storia intitolato “Civiltà occidentale” già nel 1963. Oltre sessant’anni fa. Cioè, occhio al calendario: ben tre anni prima che Mao lanciasse la Rivoluzione culturale in Cina, cinque anni prima del Sessantotto europeo, in America un pezzo di cultura accademica era già pronta a inabissarsi nel disprezzo di sé. E Stanford non era considerata un’università radicale, anzi era un ateneo moderato rispetto alla vicina Berkeley, dove di lì a poco sarebbe scoppiato il Free Speech Movement, la prima contestazione studentesca degli anni Sessanta.
La distruzione della nostra eredità culturale, l’amputazione delle nostre radici, ha una storia antica. Quello che il classicista e italianista Hankins evoca in modo pudico – la sostituzione della “storia occidentale” con la “storia globale” – è in realtà un insegnamento ideologizzato che ha una tesi precisa: dobbiamo studiare le culture delle altre etnìe per imparare da loro, e per correggerci dei nostri peccati originali. È uno degli errori dell’Occidente che mandano in estasi dei leader come Xi Jinping (la cui figlia ha studiato a Harvard), Putin, Erdogan, Mohammed Bin Salman. Per loro è semplicemente incomprensibile che una civiltà rinneghi sé stessa, volti le spalle alla propria storia, smetta di insegnarla, o addirittura la metta in stato di accusa permanente.
La resa di conti di Trump contro Harvard è solo un micro-episodio, un aneddoto recente, marginale e forse irrilevante. Lo scontro Trump-Harvard non affronta alle radici l’opera di distruzione sistematica dell’autostima americana-occidentale, che una parte dell’accademia persegue dall’inizio degli anni Sessanta.
Trump e l’America maga non hanno i mezzi, né politici né economici né intellettuali, per invertire quella tendenza in modo sostanziale e durevole. La reazione deve avvenire in modo endogeno, cioè dall’interno del sistema educativo. Un segnale interessante è proprio che un grande studioso del Rinascimento come Hankins non getta la spugna, bensì cambia università. L’America è pluralista, anche nelle istituzioni accademiche. La concorrenza interna può aiutare, tanto più che gli atenei super-élitari dell’Ivy League hanno aggiunto al loro antico antiamericanismo e antioccidentalismo altre pulsioni auto-distruttive: l’escalation predatoria delle rette, per esempio, semina dubbi sulla validità dell’“investimento su Harvard” (o Yale, Princeton, Columbia), alla luce delle probabilità di ammortizzarlo e ripagarselo sull’attuale mercato del lavoro.

Federico Rampini, “Corriere della Sera”.