Il 7 ottobre dell’anno 1571 avvenne il titanico scontro tra la flotta europea e quella turca, il cui esito fu determinante per i destini della civiltà cristiana. Il conflitto nacque da una politica dei turchi sempre più aggressiva nei confronti di Venezia, che da sola dovette nei secoli fronteggiarne l’espansionismo. L’elezione nel 1566 a Papa di Michele Ghisleri, che prese il nome di Pio V, fu il preambolo necessario a costituire una alleanza tra le potenze cristiane dell’epoca per mettere in scacco l’avanzata musulmana.
Pio V era risoluto a sfruttare la rivitalizzazione della Chiesa Cattolica avvenuta dopo il Concilio di Trento del 1563. Purtroppo i Cristiani protestanti del Nord Europa rimasero sordi ai suoi appelli, né la Francia diede il suo appoggio (anzi, segretamente appoggiava i turchi per indebolire le posizioni delle rivali Venezia e Spagna). Il fattore scatenante che fece intendere la necessità di costituire la Santa Lega, fu l’aggressione portata all’isola veneziana di Cipro nel 1570. Era allora Sultano Selim II, figlio di Solimano il magnifico. Ecco la descrizione che ne dà l’ambasciatore veneziano a Costantinopoli, il bailo Andrea Badoer nel 1573:
D’aspetto è bruttissimo e di tutte le membra sproporzionato in modo tale che pare a giudizio universale più simile ad un mostro che ad un uomo, massimamente avendo tutta rovinata ed arrostita la faccia sì dal soverchio vino, come della gran quantità d’acquavite che usa di bere per digerire. È rozzissimo nelli discorsi, malpratico negli affari e molto alieno dalle fatiche, a talchè lascia tutto il peso di sì gran governo sopra le spalle del pascià primo visir. È avaro, sordido, lussurioso, incontinente e infine precipitoso in ogni sua azione. Ma quello di che più si diletta è il bere e il mangiare, il che usa fare per Selim II dei giorni continui, poiché, per quanto vien detto, sta sua maestà talune volte due o tre giorni a tavola continuamente; e da ciò nasce che egli ama sommamente Michel giudeo, inventore di preziosi cibi e di bevande delicatissime, il quale viene così ad avere grande autorità.
Il primo visir nominato dal patrizio veneziano Badoer si chiamava Mehemet, ed era amico dei veneziani, di cui godeva la reciproca stima. L’ebreo Michel nominato nella relazione era invece il marrano (ebreo rinnegato) Joseph Nasi, esponente di una ricca famiglia di commercianti ebrei di origine spagnola, che si era stabilito a Costantinopoli cambiando nome in Joan Miches, e aveva creato una rete commerciale concorrente a quella veneta. Conquistate le simpatie del Sultano, e divenuto il massimo appaltatore delle imposte dell’Impero Ottomano, consigliò fortemente Selim II di impadronirsi dell’isola di Cipro, ricco possedimento della Veneta Repubblica entrato pacificamente sotto la protezione di San Marco nel 1489.
Nel 1569 Selim II tenne un consiglio di guerra e, vinte le opposizioni di Mehemet, inviò il cubat (ambasciatore turco) a Venezia. Il testo che egli lesse al Senato aveva questo tenore: “Vi domandiamo Cipro che ci dovete per amore o per forza. E guardatevi dall’irritare la nostra terribile spada, perché vi muoveremo guerra crudelissima in ogni parte; né confidate nella ricchezza del vostro tesoro, perché faremo in modo che esso vi sfugga di mano come torrente…”
Il senato per bocca del Doge Piero Loredan respinse indignato l’ultimatum con queste parole: “La giustizia ne darà la spada par difender i nostri diritti e Dio el so santo ajuto per resister co’ la razon a la forza e con la forza a la vostra ingiusta violenza”.
Venezia chiese aiuto e si appellò a Pio V, che si fece portavoce presso tutti i potentati cattolici: la Francia, la Spagna, il Portogallo, presso l’imperatore Massimiliano e le varie potenze minori. Aderirono infine solamente la Spagna, con una flotta di 49 galere al cui comando pose il genovese Gianandrea Doria, il Papa stesso con 14 galere comandate da Marcantonio Colonna, il Duca di Savoia con 3 galere, i Cavalieri di Malta e Venezia con il grosso della forza complessiva, oltre 100 imbarcazioni (Venezia era all’epoca ancora la prima potenza marittima d’Europa).
Don Giovanni d’Austria, fratello del Re di Spagna, era stato posto al comando dell’intera flotta. In totale essa era composta da 207 galere (navi lunghe circa 50 metri), 30 navi a vela e le 6 galeazze venete (erano grosse navi da trasporto riattrezzate a uso militare letteralmente ricolme di artiglierie). Complessivamente vi erano 12.920 marinai, 42.500 rematori, 28.000 soldati e 1815 cannoni. I rematori delle navi erano quasi tutti schiavi, tranne che nella flotta veneta dove, accanto a una parte ingaggiata a pagamento, vi erano molti detenuti che scontavano la pena con la condanna al remo.
Nella flotta turca la massima parte dei rematori era costituita da schiavi cristiani. Una volta stabilito l’accordo sull’alleanza, la flotta fu radunata a Messina. Nel frattempo l’assedio di Cipro aveva il suo esito nefasto: con un’impiego massicio delle proprie forze, i turchi attaccarono nel 1570 l’isola valorosamente difesa dalla guarnigione di Famagosta, comandata dall’eroico veneziano Marcantonio Bragadin. I suoi 6000 uomini resistettero per 11 mesi sotto l’assedio di 200.000 armati, muniti di 1500 cannoni che spararono non meno di 170.000 colpi sulla piazzaforte veneta, e che con 150 navi praticarono il blocco dei rifornimenti dalla madrepatria veneta.
Nell’agosto 1571 i turchi, dopo aver perso oltre 60.000 uomini e increduli della resistenza nemica, offrirono generosi patti di resa ai superstiti di Famagosta: in cambio della capitolazione offrivano salva la vita a tutti, e garantivano la possibilità di andarsene liberamente. Bragadin voleva rifiutare l’accordo, fedele agli ordini di Venezia di resistere, ma pressato dai superstiti che erano in condizioni miserevoli, e a corto di ogni genere di viveri, medicamenti e polvere da sparo, infine accettò.
Una volta entrati, i turchi uccisero o fecero schiavi i difensori e il Bragadin fu spellato vivo.
Proprio la notizia della caduta di Famagosta stimolò la flotta cristiana a dare la caccia a quella ottomana, nonostante dopo metà settembre la stagione della navigazione fosse ormai al termine. Dietro insistenza di Sebastiano Venier, l’ammiraglio veneto che assisteva il giovane comandante in capo, il venticinquenne Don Giovanni d’Austria, la ricerca proseguì finché la flotta turca non fu scovata nel golfo di Lepanto (ovest della Grecia) il giorno 6 ottobre.
La notte fu trascorsa in preghiera da tutto l’equipaggio, rematori compresi. A questi venne promessa la libertà in caso di vittoria, e furono perciò armati per lo scontro imminente. Fu chiesta la protezione della Santissima Vergine Maria sulle vite e sull’esito dello scontro. Il giorno dopo, il mattino del 7 ottobre 1571, la gigantesca formazione si schierò dinanzi al golfo, presso le isole Curzolari (la battaglia viene appunto chiamata nei documenti veneziani Battaglia delle Curzolari).
La flotta fu divisa in 3 squadre: al centro la squadra papale con l’ammiraglia di Don Giovanni d’Austria, la Real, su cui garriva un enorme stendardo blu con la raffigurazione del Cristo in Croce. Sulla sinistra la squadra veneziana comandata dall’abile ammiraglio Agostino Barbarigo, che morirà nello scontro. Sulla destra la squadra spagnola guidata dal Doria. Davanti allo schieramento cristiano furono collocate le 6 galeazze veneziane, due davanti a ciascuna squadra, sotto il comando di Francesco Duodo. L’utilizzo di queste navi, mai visto prima, era avversato dagli spagnoli ma caparbiamente voluto dai veneziani.
I turchi, già da qualche giorno allarmati, si prepararono allo scontro. La flotta di cui disponevano era ugualmente immensa, essendo composta da 272 navi. Anch’essi si divisero in 3 squadre: al centro l’ammiraglio Ali Pascià, che perirà nella battaglia, con 94 galere. Sulla sua nave, l’ammiraglia chiamata Sultana, sventolava uno stendardo verde, prelevato alla Mecca, che recava ricamato in oro per ventottomila volte il nome di Allah. Sulla sinistra, contrapposta agli Spagnoli, la squadra di 63 galere comandate dal suo ammiraglio Occhiali (UludsAly); sempre sulla sinistra, anteposta ai veneziani, la squadra di 55 galere guidata da Scirocco (Mohamet Saulack).
Quel mattino, un lungo silenzio carico di tensione regnava tra i due schieramenti. Il giovane Don Giovanni d’Austria chiese consiglio all’anziano Sebastiano Venier: “Che si combatta?” “Necessita, e non si può far di manco” fu la secca risposta.
Il silenzio venne rotto da una scarica a salve della Sultana a cui rispose un tiro della Real. La battaglia aveva inizio. I turchi presero l’iniziativa e si lanciarono contro la linea cristiana. Appena a tiro, cominciò il fuoco infernale delle 6 galeazze veneziane, l’arma segreta di Venezia, che munite di cannoni lungo tutto il perimetro erano fortezze galleggianti che falcidiarono le fila del naviglio ottomano. Tanto era la potenza di fuoco che nessuna nave turca riuscì ad avvicinarle. Le trombe cristiane e i tamburi turchi producevano un suono assordante, misto agli scoppi e ai fumi delle scariche e alle urla dei combattenti.
In pochi minuti le navi si toccarono e fu l’apice dello scontro. Il turco Scirocco investì l’ala veneziana e, con un’abile manovra resagli possibile dalla conoscenza delle profondità del mare, che i veneziani potevano solo stimare, riusciva a superare la linea nemica aggirandola sulla costa, e ad assaltare la nave di Agostino Barbarigo con 8 diverse galere. Il Barbarigo nel pieno della mischia, mentre per farsi udire dai suoi uomini si scopriva il volto dallo scudo, veniva trafitto all’occhio da una freccia, ma non volle scendere in coperta e, fattosi legare all’albero maestro, continuò a dirigere lo scontro con il sangue che usciva a fiotti.
Sei galere veneziane, a due ore dall’inizio dello scontro, erano colate a picco mentre numerose di quelle turche imbarcavano acqua. Lo scontro era estremo, con ferocia da ambo le parti, e a un certo punto pareva favorevole alle forze comandate dallo Scirocco, che poteva contare su un maggior numero di armati. Ma i rematori delle navi ottomane, schiavi cristiani, liberatisi dai ceppi assalirono i turchi alle spalle.
I militari veneti combattevano con valore; lo stesso Scirocco cadde dopo uno scontro corpo a corpo e i veneziani, innalzando la sua testa su un’asta, fecero crollare il morale dei turchi, che vennero soppraffatti dopo quattro ore di carneficine.
Intanto nella parte centrale dello schieramento, costituita dalle galere pontifice e rinforzata con numerose galere venete e dei Cavalieri di Malta, aveva luogo uno scontro altrettanto terribile. Superata la linea di fuoco delle due galeazze, le navi turche si abbatterono sui legni cristiani. La Sultana puntò e speronò con violenza l’ammiraglia avversaria, la Real, agganciandola e richiamando sul posto altre navi, turche e cristiane, in soccorso delle rispettive ammiraglie. Il combattimento tra i ponti e il sartiame, tra i cadaveri sempre più numerosi, fu cruentissimo, e dicono le cronache che in quel punto il mare divenne color vermiglio. Sebastiano Venier, seppur settantacinquenne ma di corporatura alta e vigorosa, per dare l’esempio si gettava dove la calca era maggiore. Portava la corrazza, ma ai piedi per sua scelta calzava pantofole, e venne lì ferito da una freccia, che non lo fece desistere dal menare colpi di spada.
Dopo due ore di mattanza, un colpo di archibugio – pare di un soldato sardo imbarcato su una nave veneziana – colpiva mortalmente Ali Pascià, a cui fu prontamente tagliata la testa che venne issata su una picca per incutere scoramento agli islamici. Venne ammainata la bandiera verde della Sultana e al suo posto fu issata quella del Regno Pontificio. I combattimenti scemavano con i turchi ormai soverchiati.
Nell’ala destra, invece, il Doria si sottraeva allo scontro, permettendo a quaranta galere turche comandata da Occhiali di guadagnare il mare aperto e fuggire. Se queste fossero riuscite ad attaccare alle spalle lo schieramento centrale, sarebbe stato il disastro. Il Doria ebbe così la gran parte delle navi al suo comando integre, e fu accusato di tradimento e di vigliaccheria dagli altri alleati.
La battaglia comunque era finita, ma lo scenario era apocalittico: migliaia di cadaveri galleggianti, moribondi che gemevano, navi che bruciavano come torce, resti galleggianti ovunque. Il Barbarigo, che aveva resistito agonizzante, quando gli fu comunicata la notizia della vittoria esalò finalmente l’ultimo respiro.
Alla sera si tenne il consiglio di guerra sulla nave ammiraglia del Doria, immacolata, e di cui ironicamente Don Giovanni d’Austria elogiò lo sfarzo degli adobbi, tutti in perfetto ordine dopo una battaglia tanto feroce. Dopo quattro ore di battaglia, la Lega cristiana aveva perso più di 7000 uomini, di cui 4800 veneziani, 2000 spagnoli, 800 pontifici; i feriti erano circa 20000. I turchi, letteralmente distrutti, contavano più di 25000 perdite e 3000 prigionieri; 80 galere turche furono distrutte, 117 catturate. Le galere perse dalla Santa Lega furono dodici.
Oltre allo stratagemma delle galeazze, determinante per la vittoria fu la tecnica costruttiva delle navi veneziane, più robuste, munite di pannelli in legno per proteggere i soldati prima dell’arrembaggio, e con un’artiglieria ben più raffinata e precisa. Alcuni giorni dopo, il 17 ottobre, la galera di Onfrè Giustinian, trascinando le bandiere della flotta nemica e sparando a salve con tutta l’artiglieria, entrava nel porto di Venezia, dove una folla grande si assiepava silenziosa in attesa: portava la notizia della grande vittoria in Europa. Le scene di gioia furono indescrivibili. Il 22 la notizia raggiunse a Roma Pio V, che aspettava con grande ansia l’esito dello scontro.
Ci furono in tutto il mondo cattolico grandi festeggiamenti e ringraziamenti, con la realizzazione di numerose opere commemorative. Pio V, sull’onda della vittoria, inviò nuove ambasciate ai sovrani. La testa di Alì Pascià venne mostrata ai combattenti d’Europa, e ci furono appelli allo Scià di Persia, al Re d’Etiopia e allo Sceriffo di Matahat, signore dell’Arabia. Il Papa sperava di convincere anche questi rivali dell’Impero Turco ad assestargli il colpo di grazia e liberare la Terra Santa. Il Papa però morì il 1° maggio dell’anno seguente; e, mentre Venezia costruiva nuovo naviglio e risistemava quello danneggiato, la Spagna, preoccupata che i veneziani traessero troppo vantaggio dagli eventi e appesantita da gravi problemi finanziari, si mise a temporeggiare su nuove azioni militari contro l’Impero Ottomano.
Questi già ad agosto aveva varato una nuova possente flotta, e quella della Lega la cercò senza convincimento, tanto da far passare invano il periodo buono per la navigazione. Ciò irritò particolarmente la Veneta Repubblica. La Spagna voleva che le azioni della Lega fossero rivolte al Maghreb al fine di allargare i suoi possedimenti, Venezia preferiva andare a colpire il Turco nei suoi domini storici. Dopo queste continue divergenze, il 7 marzo 1573 Venezia firmò una pace separata con i turchi, facendo infuriare il nuovo Papa Gregorio XIII e mettendo fine alla Santa Lega. Nel 1575 la Spagna dichiarò bancarotta.
La sconfitta turca di Lepanto fruttò oltre 70 anni di pace nel Mediterraneo. Tuttora si festeggia il 7 ottobre la Madonna del Rosario, a ricordo della vittoria cristiana. I monumenti funebri del Bragadin e del Venier (che divenne Doge) sono visibili presso la Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia. Il loro sacrificio e quello degli altri eroi che combatterono al largo di Lepanto, vengono tuttora ricordati in cerimonie solenni nella loro Patria Veneta.