Foto di Valerio Raffaele
Chernivtsi, non lontano dalla cattedrale armena. Lungo la Verminska, una strada in discesa in pieno centro. La “soffiata” me l’ha data Natascia Popova mentre eravamo in viaggio. “In città c’è un caffè gestito da un italiano. Vedrai che il locale lo riconoscerai subito”, mi aveva detto. Infatti non è difficile trovare il Caffè Italia, un frammento della penisola trapiantato in terra ucraina. L’insegna illuminata è un tricolore verde, bianco e rosso che con la neve caduta sul marciapiede in questi giorni risalta ancor più luminosa sopra la porta d’ingresso del locale. All’interno regna un’atmosfera tranquilla, dall’aria molto familiare. Tre donne sono sedute a un tavolo in fondo vicino alla parete. “Sei tu l’italiano?”, chiedo all’unico uomo in piedi davanti al bancone vestito con un’elegante camicia bianca. “Sì, in realtà sono solo uno degli italiani di qui”, risponde lui un po’ sorpreso. Alberto, trentottenne torinese trapiantato in Ucraina, gestisce da qualche tempo il Caffè Italia di Chernivtsi. Conosce alla perfezione il russo e, con maggiore fatica, parla anche l’ucraino. “Per noi italiani è più semplice il russo”, mi dice quando siamo seduti a un tavolo mentre in sottofondo scorrono i successi musicali di Adriano Celentano. “Solo che qui se parli in russo la gente ti risponde in ucraino. Sono piuttosto nazionalisti da queste parti. Come si chiama il vostro eroe nazionale?”, chiede l’uomo rivolgendosi in ucraino a una ragazza dai capelli rossi tagliati a caschetto, che fino a quel momento ci stava osservando in piedi vicino al tavolo. “Stepan Bandera”, risponde lei con fermezza. In tutta l’Ucraina occidentale Bandera incarna il ricordo della strenua resistenza contro il tiranno sovietico.
Anna, questo il nome della giovane, lavora nel locale insieme a Marianna, una statuaria ragazza alta dai capelli lunghi e neri che sta dietro il bancone. Marianna, mi dice Alberto, era in piazza a Kiev durante le proteste di Maidan. Portava il tè tra le tendopoli ai volontari delle brigate di ritorno dagli scontri con i berkut, le famigerate forze speciali del precedente governo. Con un orgoglioso cenno affermativo del capo, la bella ragazza conferma le parole del suo datore di lavoro. In quei giorni burrascosi il saluto che andava di moda tra i rivoluzionari e che vidi scritto un po’ ovunque sui muri di Kiev lo scorso mese di aprile era “Viva l’Ucraina, viva gli eroi ucraini”. Un motto usato ancor oggi e che risale ai tempi del nazionalismo ucraino di Bandera.Strana città Chernivtsi, punto d’incontro di traiettorie migratorie diversissime. Quelle delle badanti ucraine e quelle degli italiani emigrati. Costrette dalla mancanza di prospettive le prime, più per scelta di vita che per necessità i secondi. “In Italia avevo una piccola azienda di autotrasporti. Poi mi sono stancato della burocrazia italiana, ho mollato tutto e sono venuto qui. E non sono l’unico”. Alberto mi parla di altri italiani che hanno fatto la stessa scelta. Un pensionato conosciutissimo in città, sposato con un’ucraina e che con la pensione italiana fa una vita da nababbo. Rocco da Lecce che ha aperto una pizzeria. Un imprenditore di Biella che ha investito in una gelateria pasticceria in pieno centro. Ernesto da Napoli che ha avviato un’attività nel settore del legno. A quanto pare, nonostante il momento difficile, l’Ucraina continua a essere una fucina di opportunità. “Aprire un locale qui per certi versi è più semplice che in Italia. La gente poi è molto ospitale anche se devi entrare nella loro mentalità per capire dove vivi. Per esempio qui gli italiani sono ancora visti come una fabbrica di soldi”. Nostalgia dell’Italia? “Tutto sommato direi di no. Qui volendo posso permettermi di uscire tutte le sere, in Italia al massimo due, quando andava bene”. Certo non è tutto rose e fiori qui in Ucraina. Il torinese mi parla di un sistema politico malato nelle sue fondamenta. Qui il problema non è tanto la burocrazia bensì la corruzione. E non è solo una questione di persone, di Poroschenko o di Yanukovich. Anche se negli ultimi tempi la situazione è in parte migliorata. “Quanto meno la polizia adesso ha paura a fermare gli automobilisti ai posti di blocco per chiedere soldi”. Prima era la regola, ora invece gli uomini in divisa hanno paura di incappare nei volontari di EuroMaidan i quali, essendo considerati alla stregua di eroi nazionali, sarebbero legittimati a dargliene di santa ragione. Negli ospedali invece la situazione è spaventosa. Il pagamento della tangente è la regola, dal dottore che opera all’infermiera che fa l’anestesia. E con l’inizio della guerra la situazione è solo peggiorata. Soprattutto quella economica. “La hryvnya ormai è carta straccia, il suo andamento è legato al rublo che a sua volta sta crollando. I prezzi sono aumentati e gli stipendi della gente sono sempre gli stessi. In media chi lavora guadagna cento, centocinquanta hryvnye al giorno. A fine mese fanno più o meno tremila. Prima con il 50% dello stipendio un affitto si pagava, ora quasi tutto va via per la casa”. Mentre parliamo le tre donne sedute al tavolo in fondo lasciano il locale. “Sono venute a festeggiare il compleanno di una di loro. Qui la gente è molto semplice, si accontenta davvero di poco”.
Altri scandali, questa volta legati alla guerra, stanno scuotendo la comunità di Chernivtsi. Alberto traduce le parole di Anna che segue seria i nostri discorsi rimanendo sempre in piedi. Il più recente è quello che interessa il sindaco della città, sotto inchiesta per aver risparmiato sui giubbotti antiproiettile destinati al fronte e che si sarebbe intascato parte di quella commessa. A quanto pare i giubbotti dovevano essere da 8 millimetri di protezione mentre quelli assegnati ai militari erano da 2 millimetri. Con tutte le conseguenze tragiche del caso. E con il tentativo da parte delle autorità di insabbiare tutto. I due mi mostrano poi il video di un deputato costretto dalla folla a “buttarsi” volontariamente in un cassonetto vuoto della spazzatura perchè colpevole di essersi intascato i proventi destinati ai reduci della sciagurata guerra che l’Unione Sovietica intraprese in Afghanistan a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80. Le immagini mostrano un uomo dalla faccia smagrita che tradisce un misto di paura e vergogna. Mentre viene trascinato nel cassonetto sporco per le vie della città cerca inutilmente di coprirsi il volto, costretto dalla gente ad alzare lo sguardo per dire qualcosa davanti a un microfono e a una telecamera.
La vicenda peggiore di questi tempi è però la guerra in corso nel Paese con tutte le nefaste conseguenze. Come la leva obbligatoria per coloro che hanno compiuto 18 anni e che sono mandati al fronte dopo un approssimativo addestramento di appena tre mesi. Alberto e Anna raccontano che la scorsa estate, nei piccoli villaggi attorno a Chernivtsi, le madri e i familiari di ragazzi giovani destinati al fronte hanno manifestato bloccando le strade per evitare che i postini recapitassero a casa la lettera di chiamata alle armi. Molti sarebbero fuggiti dal Paese per evitare l’arruolamento. “In una guerra che per di più li avrebbe visti combattere contro militari russi che hanno alle spalle anni di duro addestramento”, precisa Alberto a voce alta, preso dalla foga dei suoi discorsi. L’unica scelta possibile se si vuole evitare la prigione è quella di darsi alla macchia fingendosi emigrato. Sembra uno scenario da guerra mondiale. Lo stesso presidente Poroschenko nelle sue dichiarazioni ufficiali ha più volte cercato di alzare la posta in palio dando così l’impressione al suo popolo che quella in corso sia una guerra che l’Ucraina sta combattendo in nome dell’Europa intera. C’è da chiedersi se qualcuno abbia spiegato agli ucraini che quella stessa Europa per cui credono di combattere li ha prima sedotti e poi abbandonati, sacrificando il loro Paese sull’altare di una politica estera europea schizofrenica e senza una direzione ben precisa.
Alberto ha assunto recentemente nel suo locale una nuova cuoca. Il suo nome è Luda P., rifugiata in città dal mese di settembre. Luda viveva a Luhans’k, l’altro focolaio separatista attivo nell’est del paese oltre a Donets’k. Superata una certa riluttanza iniziale, la donna accetta di sedersi con noi al tavolo e raccontare la sua testimonianza. Luda ha 48 anni, è ucraina e a Luhansk si era trasferita per lavoro. Quando si è vista arrivare i carrarmati russi e piombare i missili vicino a casa – non si sa bene se sparati dagli ucraini o dai separatisti – ha deciso all’improvviso di radunare il minimo indispensabile, chiudere a chiave l’uscio di casa e scappare con la propria auto insieme al marito Petrov e ai tre figli, Andrei, 26 anni, Sergei di 24 e Natascia di 19. Quest’ultima ha dovuto abbandonare di colpo la scuola. “Ma tutti e tre ora sono più tranquilli e di notte riescono finalmente a dormire”, mi dice seduta tra me e Alberto con lo sguardo fermo e la voce decisa di chi non lascia spazio ad alcun rimpianto. Solo un pezzo di carta dimostra che è ancora lei la legittima proprietaria della casa che ha lasciato. Un certificato di proprietà che non si sa se e quando la donna potrà far valere in futuro. Luda però spera. La sua storia ricorda quella dei palestinesi fuggiti nell’ormai lontano 1948 dal neonato stato di Israele e che ancora oggi conservano gelosamente le chiavi delle loro case di Giaffa o di Haifa nella speranza di un risarcimento per quel torto subìto. “La mia è ancora in piedi, anche se ora è occupata dall’esercito russo. Quella dei vicini però è stata distrutta da una bomba. Come il ristorante in cui lavoravo saltato in aria durante i combattimenti”. E i rapporti con i russi di Luhans’k? “Prima dell’inizio della guerra erano buoni. Da quando sono arrivati i soldati russi invece qualcosa si è incrinato. Come se la presenza dei militari avesse contribuito a risvegliare in loro un senso maggiore di appartenenza all’etnia russa. Tutti vogliono andare con la Russia”.
Un classico esempio di risveglio nazionalista che si credeva sopito, ma che abilmente strumentalizzato prende il sopravvento su tutto. Anche sulle amicizie. La storia è piena di esempi simili. Nella ex Jugoslavia tra serbi, croati e bosniaci nel 1991. Tra armeni e azeri nel 1988, al crepuscolo di un’Unione Sovietica che da lì a poco si sarebbe frantumata. Vicini di casa che da un giorno all’altro non si parlano più, amici che di punto in bianco diventano nemici, senza un reale motivo se non la differenza etnica. Ai semplici steccati dove bastava alzare un poco lo sguardo per parlarsi si sono sostituite invalicabili muraglie che precludono qualsiasi dialogo. Luda si sente al telefono con gli ucraini rimasti a Luhans’k almeno una volta alla settimana. Molti hanno deciso di restare, chi per scelta, chi per obbligo. “La situazione è peggiorata molto per chi è rimasto, soprattutto per gli anziani che sono impossibilitati a muoversi e che non ricevono da mesi la pensione dallo Stato. Le banche poi, cadute nelle mani dei separatisti, sono tutte bloccate”. Nell’ultima telefonata di una settimana fa gli amici rimasti le hanno parlato di carrarmati che girano per la città. E la sera con il buio scatta il coprifuoco. “Su tutti gli edifici pubblici sventolano le bandiere russe. Sul fronte ucraino a ovest la città è completamente isolata. È aperta solo a est, sul lato della Russia. Solo da lì possono arrivare gli aiuti. Ed è dove sono concentrati anche gli scontri maggiori”. Come a Donets’k, anche a Luhans’k è l’area dell’aeroporto quella dove si combatte maggiormente. Tempi durissimi per gli ucraini a quelle latitudini. “Se qualcuno si azzardasse a inneggiare in pubblico all’Ucraina farebbe una brutta fine”, dice la donna con uno sguardo pallido che non tradisce alcuna emozione. Come pensi si possa risolvere la situazione Luda? Staccare il Donbas dall’Ucraina e annetterlo alla Russia? “No. Luhans’k è una città ucraina. Nonostante tutto ci sono persone là che dicono di essere ucraine anche se non possono manifestarlo apertamente. Non so cosa pensare. Non capisco il motivo di tutto questo. La gente comune non vuole la guerra. Ci saranno pure vecchie questioni irrisolte, motivazioni politiche. Ma non si può arrivare a un regolamento di conti in questo modo, giocando sulla pelle delle persone”. Quando sarà tutto finito, se sarà possibile ritornerai a casa? “No”, risponde di botto con un’espressione glaciale e un tono di voce che non nasconde tentennamenti. “Scappando dalla guerra ho dovuto ricominciare da zero. E come me tante altre famiglie. Credo proprio che la mia nuova vita sarà qui, a Chernivtsi”.
Storia di una città di confine
“I suoi abitanti amano chiamarla la piccola Parigi. Ne vanno orgogliosi e si ritengono i naturali eredi di un passato grandioso di cui restano antichi palazzi dai più disparati stili architettonici”. Così parlò di Chernivtsi una delle signore ucraine giunte con me dall’Italia quando arrivammo in città. Stavamo attraversando un lungo ponte e feci appena in tempo a scorgere nell’oscurità un cartello storto e arrugginito dove la scritta “Prut” si leggeva appena. Il grande fiume – che poco più a valle segna il confine tra Romania e Moldavia – scorreva invisibile sotto di noi tra le tenebre. Nel risalire la strada dal fondovalle apparve ai miei occhi una città imbiancata immersa in un paesaggio da fiaba. Le flebili luci dei lampioni coloravano di giallo le possenti mura dei palazzi imperiali. Le cupole dorate a forma di cipolla risplendevano luminose come fari nel buio sopra il tetto delle chiese. Ben presto mi resi conto che il rollio dei pneumatici sul selciato grigio che stavamo calpestando con l’auto non era un rumore qualsiasi. Era l’eco di voci lontane, il canto antico di pietre che narravano di un passato travagliato di guerra e pace costellato da mille invasioni e altrettanti domini. Entrarci per la prima volta percorrendo viali innevati completamente deserti mi diede l’idea di varcare la soglia di una città dove il tempo sembrava essersi fermato.
Alla luce del giorno però l’immaginazione svanisce, e girando per le vie di Chernivtsi ci si rende presto conto che la dura realtà supera di gran lunga la fantasia. Le scuole che propongono corsi di inglese, francese, italiano e spagnolo sono da tempo spuntate come funghi. E non per l’aspirazione tutta culturale di imparare un’altra lingua, bensì per preparare le ucraine alla partenza. Grossi cartelli pubblicitari appesi un po’ ovunque invitano infatti a considerare l’emigrazione all’estero come un investimento su cui puntare. A vederli così colorati, sembrano la versione moderna dei più modesti manifesti che a fine ‘800 erano affissi sulle banchine dei porti italiani per incentivare i connazionali di allora a compiere la grande traversata oceanica in terza classe. Sono cambiati i tempi, i luoghi e i modi di emigrare, ma oggi come allora è la fuga lo strumento principe di sopravvivenza quando si vuole migliorare la propria vita. Un rimedio, o presunto tale, che a Chernivtsi crea un contrasto stridente con quel fascino da nobile decaduta che la città emana da ogni dove.
Più che una petit Paris, Chernivtsi dà l’impressione di essere simile – forse per la suggestione di vederla ricoperta di neve – a una Vienna in miniatura. Da buona città di frontiera essa tende tuttavia a sfuggire a facili etichettature. Nel suo libro Ucraina terra di confine, il giornalista Massimiliano Di Pasquale la paragona a una Praga rurale per l’intrigante miscela di architetture che si sono sovrapposte nel tempo. Ingeneroso e quanto meno frettoloso è il giudizio negativo di una nota guida turistica che ne parla come di un “guazzabuglio decadente”. Quel che è certo è che i tanti illustri paragoni che gli intellettuali le hanno dedicato in passato non sono affatto casuali. Il tutto nonostante i fasti da nobile città imperiale siano ormai tramontati da tempo. Chernivtsi – rimasta sotto il controllo austriaco fino al 1919 – era infatti per dimensione la terza città dell’Impero Austro Ungarico, preceduta proprio dalla capitale austriaca sul Danubio e dalla stessa Praga.
Quando, dopo la prima guerra mondiale, le frontiere della Mitteleuropa iniziarono a oscillare vorticosamente sulle macerie del dissolto impero e sulla spinta delle nuove potenze emergenti, Chernivtsi si trovò a fluttuare su quel mare in tempesta che era l’Europa Centrale alla vigilia della seconda guerra mondiale. I sovrani di turno cambiarono in continuazione a seconda di dove si fermavano il pendolo della storia e i confini della geografia. Quella città conosciuta in passato come Czerniowce in polacco, Csernovic in ungherese, Czernowitz in tedesco, fu ribattezzata Cernauti prima – fino al 1939, data in cui terminò l’occupazione della regione da parte del Regno di Romania – e Cernovci poi, quando iniziò il dominio sovietico sotto i colpi della russificazione dell’Ucraina imposta da Stalin. Infine, con l’indipendenza del 1991, il suo nome divenne quello attuale. Un destino molto simile, fatta eccezione per la ventennale parentesi rumena, alla galiziana Lwow, Lowenberg, Lemberg, Lvov, Leopoli, Lviv.
A queste latitudini, i traballanti confini politici sono spesso evaporati nella melassa fluida di una terra di mezzo, divenuta nel tempo il regno incontrastato di toponimi e accenti che definiscono l’appartenenza culturale della popolazione più di qualsiasi certificato di identità. Ancora una volta sono la storia e la geografia a viaggiare a braccetto. Se la prima è un marchio a fuoco sul passato, la seconda è un sigillo indelebile sul presente. Chernivtsi è incastonata al centro di un gomito aperto a oriente che inizia a nord in Bielorussia e finisce a sud in Ucraina. Nel mezzo è circondata dalla Mitteleuropa cosmopolita che le corre intorno. A sud è la sola Moldavia – corrispondente alla piccola regione storica della Bessarabia – a fare da compagna povera all’Ucraina appena fuori dalle attraenti porte di ingresso dell’Unione Europea. E Chernivtsi, città-emporio nata oltre seicento anni fa, ha mantenuto nel tempo una notevole importanza mercantile grazie alla sua posizione strategica. Ancora oggi è un centro pulsante di transito, di incontri, di scambi, di contrabbando.
Un concentrato di tutto ciò è il grande mercato Kalynivsky situato alle porte della città. Quando ci arrivo insieme agli altri passeggeri sulla marshrutka numero 22, l’autista ci lascia direttamente sulla strada che più avanti termina dritta al mercato. L’ora di punta è già passata da un pezzo, ma la coda delle automobili in ingresso è ancora lunga.
Il cielo è terso, il sole è già pallido e il vento gelido sferza violentemente il viso. Il bazar dell’abbigliamento è praticamente deserto, le serrande degli espositori sono quasi tutte abbassate. Bastano però pochi passi per entrare nel vivo del mercato. I settori più che mai affollati sono quelli del pesce, della carne e della frutta. Uomini bruni trascinano con forza pesanti carretti di ferro tirati a mano e con la schiena ricurva, tra il viavai della gente e qualche suv dai vetri scuri, evidentemente autorizzato a infilarsi tra le persone. È qui, tra le bancarelle degli alimentari, che emerge il lato transfrontaliero, anarchico e un po’ sfrontato della Chernivtsi odierna. Tra i prodotti in vendita vi sono lattine d’olio spagnole, biscotti rumeni, formaggi polacchi, spumanti francesi, patate moldave, insaccati russi. E tantissimi prodotti italiani, dello stesso genere di quelli che vidi stipati uno sopra l’altro sui camioncini venuti dall’Italia. Soprattutto caffè, spaghetti, mozzarelle, panettoni di Natale – con tanto di marchio d’una nota catena francese di supermercati presente su tutto il territorio italiano – cioccolato di tutti i tipi e le marche, in quantità tali da fare concorrenza alla Roshen, la grande azienda ucraina di proprietà del neoeletto presidente Petro Poroshenko. Gran parte dei prodotti sono importati sul mercato nero proprio dalle migliaia di badanti che lavorano all’estero e che alimentano un contabbando utile ad arrotondare i magri salari dei familiari rimasti in patria.
A metà pomeriggio il freddo si fa ancor più tagliente. Alle uscite dell’immenso bazar c’è un gran brulicare di gente che in una mano stringe dei grossi e sfilacciati borsoni di plastica gonfi come palloni, e nell’altra tiene qualche ramo verde di abete per addobbare in vista delle imminenti festività natalizie. La maggior parte di coloro che fanno ritorno in città o nelle proprie case in campagna utilizza preferibilmente gli economici mezzi pubblici. Per questo le marshrutky sono stracolme di gente, e dopo due tentativi andati a vuoto al terzo riesco finalmente a trovare un buco su quella giusta, accontentandomi di rimanere schiacciato come una sardina tra le altre persone rimaste come me in piedi. Sono salito dalla porta posteriore e andare avanti per pagare il biglietto al conducente è praticamente impossibile. Il giovane che mi sta di fronte estrae dalla tasca una banconota, tocca su una spalla il tipo davanti a lui e gli porge il denaro che di mano in mano arriva all’autista. Faccio lo stesso e, tempo qualche minuto, ho tra le mani il resto, preciso all’ultimo centesimo. Sono l’unico a sorprendermi di quella che da noi è ritenuta ormai una lezione di civiltà mentre qui è una normale regola di comportamento che nessuno osa trasgredire.
Dall’epoca sovietica non devono essere cambiate di molto, le scalcinate marshrutky. Cigolano, sono un po’ sgarrupate, ma funzionano sempre. Dalle estremità del Caucaso alle frontiere dell’Europa ricca. È solo il bus, come dice il giornalista e scrittore Paolo Rumiz nel libro Trans Europa Express, che nel frammentarsi dei confini tiene ancora insieme i cocci di quella che fu l’Unione Sovietica. E a bordo l’autista è un’autorità rispettata da tutti. Sono più al sicuro qui, assiepato tra le gambe di tanti sconosciuti che ciondolano da una parte all’altra aggrappandosi con le mani ai sostegni in metallo per non cadere, che non in qualsiasi autobus di Milano. La fatica di muoversi lenti e scomodi al passo dei mezzi pubblici è ampiamente ripagata da quella sensazione di libertà che porta ad assaporare la leggerezza del viaggio. Ormai non mi preoccupo neanche più di controllare che il portafogli sia al suo posto nella tasca posteriore destra dei pantaloni.
Con i vetri appannati e ghiacciati all’esterno, salto la fermata alla quale sarei dovuto scendere. Ma la meta che mi sono prefissato vale ben più della breve scarpinata in salita che mi tocca fare per tornare indietro. La visita al cimitero ebraico di Chernivtsi dovrebbe essere una tappa obbligata per qualunque viaggiatore che si affaccia da queste parti. Lo trovo non prima di aver affondato gli scarponi nella neve intonsa dei viali deserti del cimitero cristiano, dal quale è separato da una strada che corre lungo i muri dei due cimiteri. L’ingresso di quello ebraico è sormontato da una sinagoga malmessa e decadente con la stella di Davide ben visibile in alto, sotto la cupola centrale. Da una parte l’entrata è murata con mattoni; dall’altra è possibile scorgere l’interno buio e desolatamente spoglio con le mura scrostate dall’umidità. Alle spalle dell’edificio si estende il cimitero. Grandissimo, con centinaia di migliaia di lapidi che si perdono a vista d’occhio tra i viottoli talmente stretti e dall’andamento irregolare da ricordare gli shtetl, quell’intrico di vicoli, scalette, ballatoi e strade sterrate che davano vita ai caratteristici villaggi ebrei dell’Europa Orientale. La neve che ricopre le lapidi mi impedisce di vedere se anche qui come in Israele è usanza deporvi sopra piccoli sassolini per ricordare i defunti. I fiori appassiscono, i sassi al contrario restano, dicono gli ebrei.
Camminando di tomba in tomba e di morto in morto, mi metto a cercare i segni di qualche vita. Una piccola traccia, una testimonianza a indicare che ci sia ancora qualcuno a Chernivtsi che pensa ai tanti ebrei morti da queste parti. A un certo punto eccolo un segno di quello che cercavo. Non un sasso, bensì un finto fiore fucsia che spunta dal manto nevoso. E poi tracce nella neve, schiacciata dal recente passaggio di qualcuno. Seguo le orme fino ad accorgermi deluso che si perdono nella neve fresca. Qua e là si scorge qualche altro timido fiore, piccoli frammenti di speranza che non si arrendono al desolante oblio che li circonda.
Il paradiso perduto degli ebrei
E pensare che in quel pentolone etnico che fino a non molto tempo fa era Chernivtsi, gli ebrei erano la componente maggioritaria. La città si guadagnò addirittura il prestigioso appellativo di “Gerusalemme sulla Prut”. Stando alle prime testimonianze scritte, tutto ebbe inizio agli albori di Chernivtsi, attorno al 1400. Si tratta di un documento firmato tra un uomo d’affari di Lviv e un principe moldavo che autorizzava i mercanti polacchi, russi, armeni, tatari ed ebrei a spartirsi le attività commerciali nelle città di Khotyn, Soroky e Chernivtsi. Gli ebrei che abitavano in quest’ultima provenivano in gran parte dalle vicine Moldavia e Valacchia, al tempo sotto il controllo di quell’Impero Ottomano che bussava ancora minacciosamente alle porte dell’Europa. Altri arrivavano dall’Europa centro-occidentale dalla quale avevano assorbito notevoli influenze culturali. Erano gli ebrei ashkenaziti che parlavano yiddish – lingua nata dalla fusione dell’ebraico con antichi dialetti germanici medievali – e in breve tempo divennero il gruppo più numeroso. Era il periodo in cui gran parte dell’Ucraina apparteneva a una sorta di Commonwealth polacco-lituano, che in precedenza aveva annesso con la forza il Principato di Galizia e Volinia. Più tardi arrivarono anche gli ebrei sefarditi in fuga dalla penisola iberica i quali però, a differenza dei primi, non diedero vita a comunità stanziali e proseguirono la loro diaspora verso i Balcani e la Turchia.
Successivamente iniziò per gli ebrei un’epoca in cui gioie e dolori si alternarono beffardamente nelle loro vite. Se nel XVI secolo la comunità ebraica visse un periodo di forte crescita e di benessere economico, in quello successivo la maggior parte di essa lasciò Chernivtsi a seguito di un decreto governativo che li espropriava di tutti i possedimenti terrieri. Ritornarono di nuovo numerosi agli inizi del ‘700 sulla spinta delle ripetute persecuzioni nei Paesi cattolici dell’Europa Centrale, in particolare dalla vicina Polonia. I quartieri abitati dagli ebrei si estesero così a macchia d’olio e nel 1710 venne costruita la prima sinagoga. Rimasero tuttavia in vigore quelle leggi che già in passato avevano limitato i diritti della comunità. I luoghi di culto dovevano essere obbligatoriamente costruiti in legno e a una certa distanza dalle chiese cristiane, mentre al di fuori di essi la preghiera era permessa solo nelle case dei capi della comunità. Agli ebrei era inoltre vietato possedere terreni agricoli all’interno del perimetro urbano. Nel frattempo la città era diventata uno snodo importante, sia per i commerci in atto tra la Polonia e Costantinopoli (a Chernivtsi una sosta era pressoché obbligata per permettere alle carovane di riprendere le forze e sostituire i cavalli in vista dell’impegnativo valico dei Carpazi), sia per i pellegrini diretti in Terra Santa.
Sul finire dell’età dei lumi, una serie di avvenimenti cambiarono in meglio la situazione degli ebrei che abitavano in tutta la regione. Nel 1774 la Bucovina venne annessa all’Austria e nel 1781 l’imperatore Giuseppe II d’Asburgo emanò un decreto che equiparava i diritti degli ebrei a quelli del resto della popolazione. Iniziò un periodo florido e di relativa tranquillità per la comunità ebraica, sia per quanto riguarda l’istruzione, con l’apertura di scuole, licei e collegi, sia in campo imprenditoriale, attraverso la costruzione di molti palazzi – come quelli dell’amministrazione regionale e dell’università – che ancor oggi abbelliscono la città. Altre leggi emanate nel 1867 equipararono il loro status socio economico e religioso a quello di tutte le altre minoranze. In breve tempo si formò così un’èlite culturale di primo livello. Chernivtsi divenne uno dei principali centri mondiali della letteratura in lingua yiddish immergendosi totalmente in un’epoca di grande fermento culturale. George Heinzen, un viaggiatore tedesco che si trovava da queste parti agli inizi del ‘900, definì quel periodo di pace e prosperità nel capoluogo della Bucovina come “una nave di piaceri con a bordo un equipaggio ucraino, ufficiali tedeschi e passeggeri ebrei”. Un veliero fiducioso in un futuro di benessere che navigava spedito con il vento in poppa a cavallo tra Occidente e Oriente, sotto le materne ali protettrici dell’Impero Austriaco.
Da lì a breve però quel periodo florido sarebbe finito per lasciare spazio a tempi ben più bui. E per gli ebrei, che ormai rappresentavano più della metà dell’intera popolazione residente in città, sarebbe ben presto iniziata l’ennesima tragica diaspora. Con l’avvento della prima guerra mondiale molti di essi scapparono in Boemia, e con l’arrivo dei russi iniziarono le prime deportazioni verso est. Al termine della guerra, quando la Bucovina venne annessa alla Romania, quella nave di tolleranza che era Chernivtsi naufragò rapidamente in un mare d’odio. Ben presto il veliero che prima era in viaggio verso un futuro radioso sarebbe stato ridotto a uno sgangherato relitto risucchiato in profondità dalle gelide fauci di nuovi sanguinari conflitti. Da esempio di convivenza tra culture diverse, da multietnico arcipelago felice qual era, Chernivtsi venne allagata improvvisamente da una serie di feroci nazionalismi che si abbattè su tutte le minoranze. Iniziò un periodo da film dell’orrore che durò fino alla seconda guerra mondiale. Cambiavano di volta in volta le potenze occupanti ma i risultati, ovvero persecuzioni e assassinii, erano sempre gli stessi. Per gli ebrei si aprì il baratro di nuove vessazioni e discriminazioni. L’anticamera dell’annientamento finale. Nel giugno 1940, durante il breve periodo di occupazione sovietica, ricominciarono per ordine di Stalin i pogrom, gli arresti e le deportazioni nei gulag siberiani.
Il peggio però doveva ancora venire. Il 5 luglio 1941, in piena seconda guerra mondiale, Chernivtsi fu invasa nuovamente dalle truppe rumene che, coadiuvate da quelle tedesche, uccisero 2000 ebrei in un solo giorno. Pochi giorni dopo, tra il 7 e l’8 luglio, altri 400 ebrei, molti dei quali esponenti di spicco della comunità, vennero arrestati e giustiziati sulle rive della Prut con un colpo di pistola alla testa. Centinaia di civili inermi vennero trucidati nelle proprie case. Tra le vie della città si scatenò la caccia all’ebreo. Ne morirono circa 6000 in pochi giorni. I cadaveri furono ammucchiati in fosse comuni senza uno straccio di nome in loro ricordo. I sopravvissuti furono costretti a portare sui vestiti la stella gialla di Davide. In caso contrario, se qualche malcapitato veniva sorpreso a circolare per la città senza quel marchio di riconoscimento, lo aspettavano l’arresto e il campo di concentramento. Tra le vulytsy Holovna e Ruska – lungo le quali si snodano oggi i quartieri centrali della città – venne eretto il ghetto dove gli ebrei furono confinati. I più giovani e fisicamente prestanti vennero spediti a lavorare sulle rive del fiume. Dove oggi corre la strada che porta dalla stazione ferroviaria al ponte sulla Prut, c’erano un tempo i massacranti campi di lavoro e le baracche di legno. Lì gli ebrei dormivano di notte al freddo, ammassati nella sporcizia e sotto lo stretto controllo dei loro aguzzini che li controllavano dall’alto delle torrette di guardia.
La Romania del generale Antonescu, alleata della Germania nazista, apriva intanto i campi di concentramento della Transnistria dove, tra il 1941 e il 1944, trovarono la morte più di 200.000 ebrei. L’agognata liberazione arriverà finalmente il 29 marzo 1944, quando Chernivtsi vide l’ingresso dell’armata rossa sovietica che liberò la città, grazie anche all’aiuto di quegli ebrei scampati alla morte che avevano deciso di unirsi alle unità partigiane di lotta. La bandiera rossa con la falce e il martello, che da quel giorno sventolò in cima al palazzo comunale della città, mise fine a trentatré mesi di terrore.
Per gli ebrei però tutto era finito e una porta si stava chiudendo per sempre. Il legame secolare che li univa alla Gerusalemme sulla Prut si era ormai definitivamente spezzato. Nonostante il ritorno di molti dei sopravvissuti alla shoah, il loro numero si era più che dimezzato rispetto al periodo prebellico. Con la nascita dello stato di Israele molti emigrarono rendendo sempre più esigua la comunità rimasta. Le ricorrenti campagne antisemite e la chiusura dei luoghi di culto, in nome dell’ateismo di stato perseguito da Stalin e dal suo successore Nikita Khruschev, fecero il resto. La grande sinagoga edificata nel cuore della città venne trasformata in un cinema e i membri della comunità continuarono a diminuire inesorabilmente. Dai 37.600 componenti del 1959 si passò ai circa 4000 del 1998. Il XX secolo, il secolo degli orrori, delle due guerre, dei nazionalismi, dei genocidi, ha portato a compimento la diaspora degli ebrei di Chernivtsi, oggi ridotti a solo 1500 persone sparse in tutta la Bucovina.
Una sinagoga spunta dal passato
È già buio quando, di ritorno dal cimitero, riesco faticosamente a scovare, grazie alle indicazioni di una passante, l’ultima sinagoga di Chernivtsi ancora in funzione. Si trova lungo una strada in discesa, nel cuore di quello che fu il ghetto ebraico durante la parentesi mortale tra il 1941 e il 1944. Un’anonima struttura quadrata dalle forme sobrie, riconoscibile in mezzo a un agglomerato di case allineate lungo la via grazie alla stella di Davide incisa sulle inferriate delle finestre e alla forma del cancello che rimanda alla menorah, il candelabro ebraico a sette bracci. Entrando nel piccolo cortile scorgo una luce accesa all’interno. Intravedo dalla finestra tre anziani dediti alla preghiera serale. Forse gli ultimi ebrei rimasti. I superstiti di un’epoca che ha visto vivere a Chernivtsi poeti e scrittori di fama internazionale come Paul Celan, Rose Auslander (secondo la quale erano le diverse culture che animavano la sua città a dare “forza e linfa vitale alle fronde dell’albero della parola”) e Joseph Burg, l’ultimo autore di Chernivtsi che scriveva in yiddish, morto nel 2009 all’età di 97 anni.
Raggiunto l’ingresso della sinagoga apro con discrezione la stretta porta di legno. Uno dei tre uomini, sulla sessantina con baffi e occhiali, mi viene incontro invitandomi ad attraversare un breve corridoio oltre il quale si trova la sala principale della sinagoga non occupata dai tre in preghiera. Mi siedo su una delle panche di legno poste all’interno. È la seconda volta in vita mia che entro in un luogo di culto ebraico e la prima in assoluto che mi trovo ad osservarne con calma l’interno. Di colpo si scoperchia tutta la mia ignoranza in materia di ebraismo. La mia educazione religiosa ha contemplato fin da piccolo una discreta conoscenza degli elementi architettonici di una chiesa cattolica arricchita poi di particolari negli anni. Ho imparato qualcosa sulle forme delle chiese ortodosse, conosco a grandi linee anche le diverse parti di una moschea. Ma di una sinagoga no, non conosco assolutamente nulla. A pensarci bene nessuno, a scuola o a catechismo, me ne ha mai parlato. Come mai? Perchè una società intrisa di un perbenismo cattolico un po’ subdolo oscura ai suoi figli una cultura dalla quale in fondo essa stessa deriva? Non si cela dietro tutto ciò una più o meno inconscia forma di pregiudizio travestita da consapevole ignoranza? Parole come talmud, chassidim, torah, klezmer, il più delle volte suonano estranee alle nostre orecchie. Certo, a scuola si parla in continuazione dello sterminio degli ebrei. Auschwitz, Mauthausen, il famoso “Diario” di Anna Frank. Il giorno della memoria però si è ridotto negli anni a un rito stanco dove poco o nulla si dice della cultura ebraica, dei suoi riti, delle sue credenze, del corollario di musica e letteratura che ci sta attorno. Cosa si nasconde dietro quella tenda nera intarsiata d’oro che vedo in fondo alla navata centrale, nel punto che noi chiamiamo altare? E nelle sinagoghe si parlerà poi di navata? Seduto nella penombra della sinagoga di Chernivtsi, scopro tutta la mia ignoranza in materia.
Mentre mi arrovello alle prese con la mia insipienza, uno dei tre uomini in preghiera affonda il coltello nella piaga. Mi osserva in continuazione e quando incrocio i suoi occhi fa un gesto rivolto verso di me portandosi la mano destra sopra la nuca. Vorrei sprofondare dalla vergogna. Entrando mi sono scordato di indossare la kippah, il copricapo ebraico che è obbligatorio portare all’interno delle sinagoghe. Mi guardo in giro imbarazzato cercandone una da mettere. Non trovandola, indosso il berretto di lana nero che mi ero tolto una volta entrato. L’uomo, che nel frattempo ha continuato a fissarmi, fa un cenno affermativo, abbozza un sorriso bonario, e ritorna alla sua meditazione distogliendo lo sguardo e lasciandomi di nuovo sprofondare nei miei pensieri. Pochi minuti dopo, una volta terminata la preghiera, il più anziano dei tre mi si avvicina con fare cordiale. Ha la barba lunga e bianca, lo sguardo acuto, gli occhialini da intellettuale, un lungo cappello nero in testa e una palandrana scura che gli arriva fino ai piedi. Mi chiede se parlo russo. “Italiansky. Ia pa anglisky”, rispondo io con lo striminzito bagaglio lessicale russofono di cui sono fornito. L’uomo mi fa cortesemente cenno di attendere. Dice qualcosa al tipo con i baffi, il quale esce subito dopo dalla porta. Non mi aspettavo un’accoglienza così calorosa. Per qualche strano motivo la mia mente si era convinta che gli ebrei con la barba e il pastrano lungo fossero freddi e restii a parlare con gli estranei. Come tutti quelli che avevo incontrato a Gerusalemme e a Hebron, in Cisgiordania. Questo invece sembra caloroso e con una voglia matta di attaccare bottone. Semplicemente non avevo capito che laggiù, tra Israele e Palestina, è la politica a seminare diffidenza tra gli uomini raffreddando i loro cuori.
Dopo pochi minuti il tipo magro con i baffi bianchi ritorna seguito da un altro uomo più giovane. “Buonasera, come va?”, esordisce il nuovo arrivato in un italiano intriso di un vago accento napoletano. L’uomo mi spiega che la sua parlata curiosa deriva dai quattro anni passati a lavorare nel capoluogo campano prima che la perdita del lavoro lo costringesse a fare ritorno a casa. È arrivato alla sinagoga in auto per portare a casa Noah Kofmanskomu, l’anziano ebreo dalla barba lunga. “Ho sposato sua figlia. Io però sono cristiano”. Gli chiedo se lui e Noah siano disponibili per una chiacchierata. “Mio suocero si fermerebbe volentieri, solo ho la bambina piccola che aspetta in macchina. Ritorna domani”. A malincuore devo declinare l’invito. Ho già il biglietto per Kiev con il treno che parte in serata. “Ormai di ebrei ne sono rimasti pochi. E quasi tutti anziani”, mi dicono i due quando siamo già sull’uscio del cortile esterno. Prima di salire in auto il vecchio rabbino mi regala una bella cartolina che ritrae l’interno della piccola sinagoga.
Mentre risalgo le vie del vecchio ghetto, l’auto dei due scompare lungo la strada tra le luci gialle dei lampioni. Nei pressi dell’albergo, il parco Shevchenko è ancora frequentato a sera inoltrata da chi si diletta a praticare sci di fondo tra i sentieri in mezzo agli alberi. All’hotel Bukovina l’allestimento degli interni con gli addobbi natalizi procede senza sosta. Oggi è stato montato l’albero di Natale. Prendo i bagagli e faccio chiamare dalla reception un taxi per raggiungere la stazione. Rivedo di nuovo il centro di Chernivtsi, la scenografica chiesa rosa, la piazza centrale, il palazzo del municipio, le vie lastricate coperte dalla neve. È incredibile come tra tante vicissitudini il fascino di questa città sia rimasto immutato nel tempo. Percorriamo la Gagarina. Era la strada della morte degli ebrei. È la via che porta dritto alle sponde della Prut, il fiume femmina dalle placide acque da dove gli sgherri della Gestapo sparavano a casaccio colpendo gli inermi uomini dai riccioli sulle spalle. L’interno della stazione ferroviaria è un’opera d’arte. Le pareti color panna sono laccate oro. Un bellissimo lampadario di cristallo pende al centro della sala. Attraverso il corridoio e raggiungo il binario di partenza. Il treno è già pronto sulla banchina. Salgo in carrozza e mi sistemo nello scompartimento pulitissimo dove un impeccabile provodnik mi serve un tè caldo in un boccale di vetro con il rivestimento argentato.
Partiamo in perfetto orario, al fischio del locomotore. Il convoglio prima cigola, poi arranca tra gli scambi congelati, tossisce, rallenta di nuovo e infine ingrana la marcia trovando pian piano la giusta cadenza tra le rotaie. Spengo la luce e mi sdraio in cuccetta. Dalla vallata tira un vento freddo che si infila da uno spiraglio del finestrino sibilando sul cuscino e sulle mie orecchie. Nella sua insistenza percepisco in quel sottile refolo dei suoni sepolti del passato che lentamente tornano a galla. È il gorgoglio inquietante della Prut insanguinata. Sono le voci immobili delle case di Chernivtsi accompagnate dalle urla di dolore dei binari della Transnistria. Ascolto quei lamenti per un istante. Copro poi quella maledetta fessura e li respingo, disperdendoli tra i freddi boschi di faggio della Bucovina. Prima di addormentarmi li sento ancora bisbigliare là fuori. Fino a che, affievolendosi, si disperdono in un’eco lontana, inghiottiti dal silenzio nero della notte.