Negli scorsi mesi è uscito nelle sale cinematografiche italiane Corn Island, film del regista georgiano Giorgi Ovashvili, vincitore del Gran Prix, del Premio della Giuria Ecumenica al festival 2014 di Karlovy Vary, in Repubblica Ceca, e selezionato tra i dieci titoli per il miglior film straniero agli Oscar dello scorso anno.
Le recensioni consultabili in rete si soffermano in modo particolare sui rapporti tra i due protagonisti, un anziano e la giovane nipote, metafore di due mondi diversi: il sipario della vita che sta calando, quello del primo; la giovinezza che sta sbocciando in tutta la sua prorompente forza, quello della seconda. In un’intervista lo stesso regista ha affermato che uno degli obiettivi della pellicola è mostrare l’inarrestabile evolvere della natura intesa come “forza” benevola e distruttrice, in grado di dare ma anche di togliere, talvolta con estrema violenza, i doni che essa mette a disposizione dell’uomo.
Un approfondimento merita tuttavia lo sfondo in cui è ambientata tutta la vicenda: il conflitto congelato – o “conflitto protratto” secondo una formula in voga tra gli esperti dell’area – che si trascina dal 1991, dalla dissoluzione cioè dell’Unione Sovietica, tra Georgia e Abcasia.
L’Abcasia (o Abkhazia) è una piccola regione che si affaccia sulla costa Orientale del Mar Nero incastrata tra la Russia e la Georgia, della quale faceva parte ai tempi dell’URSS come Repubblica Autonoma. Ha una superficie di 8432 chilometri quadrati, 32 meno dell’Umbria e un centinaio più della provincia di Bolzano. Il suo litorale è affascinante, con scorci panoramici di straordinaria bellezza immersi in una vegetazione subtropicale che nell’entroterra lascia spazio ai primi rilievi del Caucaso Occidentale. “Una seconda Costa Azzurra o una seconda Monaco”, la definiva Ryszard Kapuscinski, e parlava di Sukhumi, la capitale, come di una “città di palme e buganvillee”.
Meta prediletta di vacanza per la nomenklatura sovietica, l’Abcasia fu sconvolta dal 1991 al 1994 da una sanguinosa guerra con la confinante Georgia che rivendicava, e tutt’oggi rivendica, il controllo della regione. Il conflitto – che portò a qualcosa di molto simile a una pulizia etnica con circa 30.000 vittime, in gran parte georgiane, e oltre 200.000 sfollati – vide la vittoria delle forze separatiste abcase che proclamarono così l’indipendenza. La guerra ha lasciato ferite ancora aperte tra la popolazione che nel 1989 era di 525.000 persone, con il 45% di georgiani e il 18% di abcasi, mentre oggi è ridotta a circa 240.000 abitanti. Interi distretti e villaggi risultano ancora disabitati e minati mentre il quadro etnico della regione vede una maggioranza relativa di abcasi seguiti da armeni, georgiani, russi e greci.
Gravato da un forte calo demografico (numerosi sono i membri della diaspora abcasa stanziati in Turchia, Giordania e Siria), 1) l’autoproclamato stato caucasico ha goduto fin dalle origini del decisivo aiuto russo. Con l’ascesa al potere negli anni Duemila di Vladimir Putin, il legame tra la Russia e l’Abcasia si è ulteriormente consolidato. Durante la guerra lampo dell’agosto 2008 tra Russia e Georgia, provocata da quest’ultima che aveva scatenato un’offensiva per riconquistare l’Ossezia del Sud, la frontiera abcasa fu aperta senza problemi ai carrarmati russi che poi si fermarono solo a una manciata di chilometri da Tbilisi, la capitale georgiana, quando Mosca ebbe la certezza che la situazione nell’altra regione separatista del Caucaso georgiano era stata ristabilita. L’evento fu l’occasione giusta per il Cremlino per riconoscere a tutti gli effetti l’Abcasia come Stato indipendente, oggi riconosciuto anche da Venezuela, Nicaragua e Nauru ma non dalla comunità internazionale, e per rimpinguare ulteriormente di rubli il magro bilancio economico della piccola e quasi autarchica repubblica. 2)
Nonostante tutto ciò i segni della guerra sono ovunque e la ricostruzione procede molto lentamente. Lo stallo relativo allo status politico del territorio impedisce poi un vero sviluppo economico. Le Olimpiadi Invernali più spendaccione della storia, svoltesi a Sochi nel 2014 appena al di là del confine settentrionale, hanno portato ben pochi benefici a un’Abcasia blindata dai russi per paura di infiltrazioni terroristiche. Il peggioramento dei rapporti in sede internazionale tra Russia, Stati Uniti e Unione Europea non è di buon auspicio per la risoluzione del conflitto destinato a trascinarsi ancora per chissà quanto tempo.
Una situazione e una prospettiva che tutto sommato giova ai progetti russi di mantenere una certa influenza sul Caucaso Meridionale. Se l’Armenia è sostanzialmente “rientrata nei ranghi” con l’ingresso nell’Unione Doganale Euroasiatica (la “nuova” Unione Sovietica di stampo statal-democratico-autoritario-pseudocapitalista voluta da Vladimir Putin) e l’Azerbaigian si è in parte defilato dall’area di influenza russa grazie agli introiti del petrolio – anche se sono gli stessi russi che insieme agli armeni proteggono quel Nagorno Karaback rivendicato dagli azeri – in Georgia, ai tempi una delle repubbliche più antisovietiche insieme ai Baltici, lo scopo dei russi non è occupare di nuovo il suo territorio, obiettivo che avrebbero potuto raggiungere mantenendo l’occupazione nel 2008, bensì di tenere alla larga la NATO. In questo contesto l’Abcasia, insieme all’Ossezia del Sud, è un avviso ai furbi naviganti dell’Alleanza Atlantica di girare al largo, se non dal “cortile di casa”, almeno dalla piazza su cui si affaccia la fortezza russa. In sostanza, per dirla con i russi, passino per la Georgia gli accordi di associazione con l’Unione Europea, conclusi positivamente a Vilnius nel novembre 2013, ma di scudi missilistici a stelle e strisce al confine sud non se ne parla. Soprattutto ora che, conclusa positivamente la diatriba sul nucleare iraniano, è caduta la scusa usata in passato dagli statunitensi, la necessità cioè di salvaguardare i propri alleati dalle minacce del Paese degli Ayatollah, che per i russi nascondeva in realtà l’intento di contenere le rinnovate ambizioni di Mosca; la quale aspira a essere qualcosa più di una semplice “potenza regionale” come Barack Obama l’aveva etichettata, forse in maniera un po’ frettolosa o quanto meno prematura, qualche tempo fa.
Appoggiare la causa separatista abcasa fa parte quindi di un disegno russo, neanche troppo mascherato, di mantenere la propria influenza su un’area strategica che, più a sud, si va aprendo su inediti scenari mediorientali. In particolare in Siria e nello stesso Iran, al riguardo dei quali la Russia non vuol certamente far mancare la propria opinione in capitolo, come dimostra il recente e manifesto appoggio militare allo storico alleato, il presidente siriano Bashar al-Assad. 3) La Georgia dal canto suo, dopo la fallimentare politica estera dell’ex presidente antirusso Mikhail Saakashvili mirante a un ingresso del suo Paese nella NATO, ha dovuto forzatamente adottare una politica più conciliante con Mosca nel tentativo di non perdere definitivamente le due aree ribelli. 4) È chiaro insomma che la chiave giusta per scardinare il rebus abcaso è ancora in mano alla Russia; la quale, in virtù di ciò, sembra avere gioco facile nel condizionare i diversi governi che si succedono a Sukhumi. 5) A sua volta la Russia deve badare a possibili infiltrazioni nel suo “microstato satellite” di movimenti islamisti che da tempo stanno cercando di radicarsi nella regione. L’uccisione avvenuta a Sukhumi del viceconsole russo Dmitrij Visernev e della moglie nel settembre di due anni fa è un pericoloso segnale, nonostante sembri perdurare la sostanziale impermeabilità della società abcasa al fondamentalismo islamico. 6) Un rischio, quello di un matrimonio di interessi tra islamisti del Caucaso e indipendentismo abcaso, che non è tuttavia da escludere a priori, soprattutto nel caso in cui le maglie russe si stringessero troppo soffocando oltremisura la voglia di autodeterminazione degli abcasi. 7)
Se la diplomazia non farà passi avanti, il terremoto in grado di scuotere tutta la situazione e sciogliere l’intricato nodo geopolitico a cui si è arrivati potrebbe essere una nuova esplosione del Caucaso russo: dal Daghestan, all’Inguscezia, alla Cecenia. Un evento per il quale è difficile intuire la possibile reazione di una Russia indebolita da una profonda crisi economica e demografica, da un prezzo del petrolio ai suoi minimi storici, dalle perduranti sanzioni per le note vicissitudini ucraine e impegnata militarmente su più fronti. 8)
Un’implosione e una frammentazione della Russia caucasica non gioverebbe probabilmente a nessuno. Tanto meno alla sicurezza dell’Unione Europea – che dal canto suo farebbe bene a dare ogni tanto un’occhiata al dossier geopolitico abcaso 9) – per la quale quello del riconoscimento del Kosovo si potrà rivelare al riguardo un pericoloso precedente.
In Corn Island, Giorgi Ovashvili gioca sapientemente tra la durezza della vita in tempi di guerra, che si intravede dai pochissimi dialoghi tra i protagonisti e dagli spari che rompono l’apparente tranquillità della vita sul fiume Enguri lungo la linea del fronte, e una scenografia assolutamente realistica del bellissimo palcoscenico naturale che l’Abcasia può offrire. Un film non di parte, dove l’odio etnico generato dal conflitto lascia spazio anche a immagini e gesti di persone divise da lingue differenti ma unite dal linguaggio universale della semplice e umana bontà. Storie sconosciute germogliate in tutte le guerre e che sicuramente ha visto all’opera qualche anonimo eroe anche nel terribile conflitto tra Georgia e Abcasia.
Corn Island, insomma, è l’occasione buona per scoprire una delle tante spine conficcate nel fianco “mediorientale” europeo. Speriamo che Federica Mogherini trovi il tempo per andarlo a vedere al cinema.
N O T E
Tutte le fotografie nella gallery sono di Valerio Raffaele.
1) Molti sono gli abcasi tornati nell’ultimo anno da profughi nella loro terra di origine in fuga dalla guerra che sta sconvolgendo il Paese mediorientale.
2) Tra il 2008 e il 2013 il budget dello stato abcaso è passato da 1,8 miliardi di rubli a quasi 8 miliardi. Tuttavia, considerando lo stato a dir poco precario del suo territorio, risulta poco chiaro sapere dove vanno a finire i fondi stanziati per la ricostruzione di edifici e infrastrutture. In Abcasia inoltre non si produce nulla a livello industriale e la disoccupazione è elevata. Le uniche fonti di entrata diverse da quelle da Mosca derivano da un nascente turismo incentivato dalla rappresentanza abcasa nel Regno Unito.
3) Il regime siriano, che ormai controlla neanche un terzo del Paese, è in lotta contro gli insorti (coloro che, aiutati dall’Occidente, si ribellarono nel 2011), contro gli islamisti di Al-Nusra (affiliati ad Al-Qaeda) e contro il famigerato ISIS del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi. La Russia è intervenuta in un momento delicato per il regime (sempre più messo alle corde dalle forze nemiche che, a loro volta, combattono tra di loro) per almeno due motivi: proteggere (e ampliare) le basi russe a Latakia e Tartus, sulla costa mediterranea siriana, e per la preoccupazione che a infiammarsi sia il Caucaso musulmano russo, dove sembra che l’Isis stia riscuotendo sempre più simpatie. Sarebbero infatti diverse centinaia i cittadini russi provenienti da quell’area impegnati a combattere per lo Stato Islamico in Siria e Iraq.
4) Saakashvili, studi giuridici alla Columbia University negli Stati Uniti, improntò il suo mandato su una spericolata politica estera che portò la Georgia, l’Europa e gli USA sull’orlo di una guerra con la Russia. Quando attaccò l’Ossezia del Sud, cadendo nel tranello di Putin, era sicuro che gli statunitensi e i partner europei della NATO sarebbero intervenuti al suo fianco. Per fortuna questi ultimi non lo fecero e con la mediazione dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy il conflitto terminò dopo pochi giorni con la sostanziale resa georgiana. Oggi Saakashvili, ricercato in patria per il reato di abuso di potere risalente al periodo in cui era presidente, si è riciclato come governatore della regione di Odessa, in Ucraina. In uno dei suoi interventi sul Corriere della Sera, l’editorialista e opinionista Sergio Romano lo ha definito “ambizioso, capriccioso e imprevedibile”.
5) L’opinione pubblica abcasa non vede sempre di buon occhio l’ingombrante “supervisione” russa, ben cosciente che la sua amata terra è per i russi un semplice strumento da brandire al momento giusto nella polveriera caucasica. I tentativi di uscire dall’isolamento allacciando rapporti economici con altri Stati (su tutti la Turchia, sulla sponda sud del Mar Nero) sono vincolati dalla mancanza di un riconoscimento internazionale e dagli umori russi che ovviamente non vedono di buon occhio un’eccessiva “emancipazione” politica ed economica dell’Abcasia. Il rischio che si corre in questi casi è quello di cadere nell’economia criminale o, come successo per Sukhumi, cercare contatti con Stati dispotici come l’Eritrea. Per non parlare della chiusura culturale che ha portato il governo abcaso ad approvare una legge sulla lingua, entrata in vigore quest’anno, che impedisce di ricoprire delle cariche pubbliche a chi non conosce l’idioma abcaso. Il rischio di marginalizzare le minoranze, già sottorappresentate in parlamento, e di nuove tensioni interetniche è quindi piuttosto alto.
6) Storicamente di religione cristiano ortodossa, l’occupazione ottomana portò alla diffusione in Abcasia dell’Islam di rito sunnita. Nel XIX secolo, con la conquista della Russia zarista, iniziò la diaspora degli abcasi che sfociò nell’espulsione in Turchia della componente musulmana la quale, di conseguenza, è oggi decisamente minoritaria.
7) Nel maggio 2014 l’ex presidente Alexandr Ankvab, colpevole di adottare una politica eccessivamente filorussa, è stato costretto a dimettersi e a fuggire in Russia dopo violente proteste di piazza guidate dall’ex agente del KGB Raul Khadzimba. Lo stesso Khadzimba è stato poi eletto presidente con le elezioni del successivo mese di agosto. Singolari sono state le prese di posizione russe dopo la vicenda: dalla condanna del “golpe anti-Putin”, all’appoggio del nuovo corso politico, dopo aver fatto intervenire i propri diplomatici, fino al riconoscimento del risultato delle elezioni.
8) Brigate militari abcase sono attive a supporto dei separatisti del Donbas, la regione in guerra con l’Ucraina.
9) L’Abcasia fu una delle più antiche colonie greche sul Mar Nero. In quel periodo Sukhumi si chiamava Dioscuria e successivamente venne ribattezzata San Sebastian. I legami geografici, storici e culturali che questa minoranza ha con l’Europa, quindi, non mancano.
Per approfondimenti e aggiornamenti sulla situazione politica abcasa: Osservatorio Balcani e Caucaso (www.balcanicaucaso.org, sezione “Aree”, “Abkhazia”).
Per una più ampia lettura geopolitica: Grandi giochi nel Caucaso, numero 2/2014 di “Limes”.
Per un’analisi dettagliata dei conflitti in gioco sul Mar Nero: Fabio Mini, Mediterraneo in guerra, Einaudi, 2012.
Per racconti di viaggio e analisi storico-geopolitiche dell’area:
Ryszard Kapuscinski, Imperium, Feltrinelli, 2009;
Mario Casella, Nero-bianco-nero, Gabriele Capelli Editore (CH), 2011;
Wojciech Gorecki, La terra del vello d’oro, Bollati Boringhieri, 2008;
Wojciech Gorecki, Pianeta Caucaso, Mondadori, 2003.
Sulla cultura abcasa: Fazil Iskander, L’energia della vergogna, Salani, 2014.