La scrittura è una delle più grandi invenzioni della storia umana. Forse la più grande, poiché ha reso possibile la storia stessa. Senza la scrittura non ci potrebbe essere accumulo di conoscenza, nessuna documentazione, nessuna scienza, e naturalmente niente libri, giornali, internet. La prima vera forma nota di scrittura è la cuneiforme sumera – costituita fondamentalmente da impressioni a cuneo su tavolette d’argilla – che è stata utilizzata più di 5000 anni fa in Mesopotamia. Poco dopo, la scrittura comparve in Egitto e assai più tardi in Europa, Cina e America Centrale.
Le varie civiltà hanno inventato centinaia di differenti sistemi grafici. Alcuni, come quello che state leggendo adesso, sono rimasti in uso, ma la maggior parte si sono estinti. Queste forme scomparse sono affascinanti rompicapo: le vediamo, ma non riusciamo a capire cosa dicano. È la grande sfida della decifrazione: immergerci negli abissi del passato e ascoltare le voci dei morti Quando i geroglifici egizi sono stati decifrati nel 1823, abbiamo esteso la durata della storia documentata di circa 2000 anni e siamo riusciti a leggere le parole di Ramses il Grande. La traduzione dei glifi maya ha rivelato che il Nuovo Mondo possedeva una sofisticata produzione letteraria ai tempi dell’impero romano.
Come si fa a decifrare uno scritto sconosciuto? Servono due requisiti di base. Primo, deve esserci materiale quantitativamente sufficiente per lavorarci; secondo, serve qualche collegamento a una lingua conosciuta. Aiuta enormemente la presenza di iscrizioni bilingue o nomi propri identificabili. La Stele di Rosetta, per esempio, è scritta sia in egizio sia in greco antico, oltre a riportare il nome della dinastia tolemaica. Se manca una chiara correlazione, bisogna cercare di comparare la lingua oscura con una nota.
Molti scritti antichi sono stati decifrati, ma alcuni tra i più importanti restano tuttora oscuri. Questi ultimi si dividono in tre grandi categorie: scrittura conosciuta in una lingua sconosciuta; scrittura sconosciuta in una lingua conosciuta; scrittura sconosciuta in una lingua sconosciuta. Le prime due categorie sono più favorevoli alla decifrazione, mentre la terza è quasi insormontabile.
La maggior parte degli scritti indecifrati che proponiamo sono stati, in realtà, parzialmente decifrati, e illustri ricercatori affermano di aver compiuto ulteriori passi avanti nella traduzione. Sono comunque possibili progressi futuri, soprattutto se verranno alla luce nuove iscrizioni, il che fortunatamente accade abbastanza spesso.
L’etrusco
scrittura conosciuta, lingua sconosciuta
Per gli appassionati di linguaggi e scritture, gli etruschi rappresentano un mondo affascinante quanto frustrante. Decifrarne la lingua è come cercare di imparare l’inglese non avendo altro da leggere che lapidi cimiteriali. La loro scrittura era una variante dell’antico alfabeto greco, ma la lingua era differente da qualsiasi altra. Quindi, sebbene le frasi etrusche possano essere facilmente “lette”, nessuno ha un’idea men che vaga di cosa vogliano dire, a parte i nomi di persone e luoghi, e un’infarinatura di vocaboli e frasi standard.
Gli etruschi erano una civiltà protostorica sviluppatasi nell’Italia centro-occidentale – Toscana e parte di Umbria e Lazio – e poi assorbita nell’impero romano dal I secolo a.C. Civiltà altamente alfabetizzata, ha lasciato migliaia di testimonianze scritte. Molti manufatti recano iscrizioni in alfabeto greco, quasi certamente preso in prestito dai coloni ellenici che si stabilirono in Italia intorno al 775 a.C.
L’alfabeto “quotidiano” etrusco è però diverso. Anche se somiglia parecchio a quello greco, se ne differenzia altresì in modo significativo. La differenza principale è che le lettere etrusche di solito si scrivono al contrario: l’etrusco è infatti di andamento sinistrorso mentre il greco è destrorso. Gli studiosi tentarono per oltre un secolo di chiarire i rapporti con le altre lingue europee, basco compreso, cercando punti di contatto tra i vocaboli etruschi leggibili e le parole delle lingue note. Tentativo fallito: l’etrusco non è assolutamente una lingua indoeuropea e viene oggigiorno considerato un caso isolato come il basco. Tuttavia, alcune parole etrusche possono essere comprese a partire dai loro contesti in alcune iscrizioni, come Ruma (Roma), Clevsina (Chiusi) e Fufluns
(il dio Dioniso). Il problema è trovare il significato delle tante parole che non sono nomi propri. Più o meno 250 termini vengono generalmente riconosciuti, per esempio ci avil (tre anni), e stanno aumentando a mano a mano che si scoprono nuove iscrizioni.
I geroglifici meroitici
scrittura conosciuta, lingua sconosciuta
Nel primo millennio a.C., il regno di Kush fiorì intorno a due grandi anse del fiume Nilo, tra Abu Simbel e Khartoum, nell’attuale Sudan. La civiltà kushita (o meroitica, dalla capitale Meroe) è stata una delle più importanti entità statali dell’Africa sub-sahariana. Nel 712 a.C., i re kushiti conquistarono l’Egitto e vennero accettati come 25esima dinastia. I “faraoni neri” governarono per quasi 70 anni, fino a quando la guerra con gli assiri non costrinse i kushiti a tornare in patria nel 656.
I geroglifici meroitici datano dalla sconfitta in poi: i faraoni neri utilizzavano i geroglifici egizi, ma dal III secolo a.C. questi comparvero sempre più spesso affiancati da un nuovo alfabeto indigeno. Come in Egitto (lo si vede sulla Stele di Rosetta), esistono due forme: il geroglifico, utilizzato sui monumenti e basato su segni pittografici, e un corsivo d’uso quotidiano. In ciascuna forma di meroitico sono presenti 23 simboli. In tal senso esso ricorda un alfabeto moderno, a differenza del geroglifico egizio che ne utilizza centinaia. Nel 1911, Francis Llewellyn Griffith, egittologo dell’Università di Oxford, decifrò i valori fonetici di entrambi gli alfabeti meroitici da iscrizioni che riportano un testo meroitico e scritture egizie. Le parole meroitiche possono quindi essere “lette” come quelle etrusche. Purtroppo, però, non si possono tradurre in quanto la lingua meroitica è sconosciuta. Si riescono a decifrare i nomi propri, e poche decine di altre parole – come tenke (ovest) e ato (acqua) – si evincono dal contesto, ma è tutto qui.
Griffith era arciconvinto che il meroitico sarebbe stato decifrato prima o poi. Ma, nonostante decenni di confronti tra vocaboli meroitici e linguaggi africani antichi e moderni della regione, non è stata ancora scoperta alcuna somiglianza convincente.
Olmeco, zapoteco e istmiano
olmeco: scrittura sconosciuta, lingua sconosciuta
zapoteco: scrittura sconosciuta, lingua semi conosciuta
istmiano: scrittura sconosciuta, lingua semi conosciuta
Sappiamo che la civiltà maya classica (dal 250 d.C. circa all’VIII secolo) era alfabetizzata, ma le origini della scrittura in America Centrale – e in generale nel nuovo mondo – rappresentano un arcano. La regione ha un gran numero di antiche scritture indecifrate. Tre hanno suscitato particolare interesse: l’olmeca, la zapoteca e l’istmiana.
La prima lingua scritta americana sembra provenire dagli olmechi, la civiltà più antica dell’area, fiorita lungo le coste dell’Istmo di Tehuantepec, nel Golfo del Messico, dal 1500 al 400 a.C. Fino alla fine degli anni ’90 si credeva che gli olmechi fossero analfabeti, quando da un cantiere stradale saltò fuori un blocco di pietra inscritto. Datata 900 a.C., l’iscrizione è composta da 62 simboli, alcuni dei quali ripetuti. Con tutta probabilità si tratta di scrittura, ma senza la scoperta di ulteriori esemplari non ne abbiamo la certezza, né tantomeno la speranza di decifrarla.
La civiltà zapoteca di Oaxaca possedeva la scrittura, senza alcun dubbio. Sono stati scoperti circa 1200 reperti con iscrizioni, dalle pareti dipinte alle pentole, dalle ossa alle conchiglie. La datazione oscilla tra il 600 e il 400 a.C. Gli studiosi sono riusciti a elaborare il calendario zapoteco, dimostrando che si tratta di un precursore di quello maya. Ma, anche se esistono tutt’oggi lingue zapoteche parlate nella zona, si è rivelato assai arduo ricostruire quella a cui si riferisce la scrittura, in parte a causa della sconcertante complessità del gruppo linguistico zapoteco moderno.
L’ultima e più controversa delle tre scritture è l’istmiano. Nemmeno sul suo nome c’è accordo: alcuni la chiamano “epiolmeca”. Nel 1902, un’insolita statuetta di giada venne alla luce durante l’aratura di un campo nell’area olmeca. Rappresenta un uomo agghindato come un’anatra e riporta una settantina di simboli sconosciuti. Conservata presso la Smithsonian Institution di Washington, la statuetta di Tuxtla rimase l’unico esempio di scrittura fino al 1986, quando alcuni pescatori si imbatterono in un secondo esemplare in un fiume: una lastra da 4 tonnellate di basalto lucidato con un’iscrizione molto più lunga. Lo scritto risale al II secolo d.C. La lingua più probabile è una versione arcaica di zoqueano, un idioma corrente dell’Istmo di Tehuantepec. Due linguisti, John Justeson della State University di New York ad Albany e Terrence Kaufman della Pittsburgh University, hanno proposto la terminologia “pre-proto-zoqueano”. A meno che non vengano alla luce ulteriori iscrizioni, questa deve rimanere un’ipotesi ben confezionata.
La lineare A, un mistero minoico
scrittura parzialmente conosciuta, lingua sconosciuta
Nel 1900, l’archeologo britannico Arthur Evans scoprì non uno ma due scritture sconosciute, entrambe incise su tavolette d’argilla, mentre scavava nel Palazzo di Minosse a Cnosso, nell’isola di Creta che costituiva il centro della civiltà minoica dell’età del bronzo. Una delle due, la lineare B, fu notoriamente decifrata nel 1952, divenendo la più antica scrittura leggibile d’Europa. L’altra, la lineare A, rimane indecifrata.
La lineare B risale al 1450 a.C. circa. Si tratta di una forma arcaica di greco scritto, usata dai grecofoni che all’epoca conquistarono alcune zone di Creta. La lineare A è più antica, risalendo al XVIII secolo. È la scrittura propria della civiltà minoica, l’unico solido legame che abbiamo con la sua lingua scomparsa. Sfortunatamente per i paleolinguisti, abbiamo assai meno esempi di lineare A che di lineare B: circa 1500 iscrizioni, per lo più a Creta, ma anche in altre isole dell’Egeo, nella Grecia continentale, in Turchia e in Israele. Per la maggior parte sono brevi o danneggiate.
I simboli della lineare A assomigliano molto a quelli della B, ma ciò non significa che abbiano i medesimi suoni in quanto minoico e greco erano diversi. Possiamo leggere la lineare A usando i suoni della B ma, siccome nessuno conosce il minoico, non siamo affatto certi che le parole siano corrette. Ciò che possiamo dedurre da tali sostituzioni, tuttavia, è che il linguaggio della lineare A non è greco.
Rongorongo, il canto di Isola di Pasqua
scrittura sconosciuta, lingua probabilmente conosciuta
L’Isola di Pasqua è un luogo di fascino e mistero, e la sua scrittura indigena rongorongo non fa eccezione. La parola significa “canti” in rapanui, il linguaggio dell’isola. Anche se il rongorongo è probabilmente simile al rapanui, la scrittura è complessa e sconcertante. Esistono appena 25 iscrizioni, alcune piuttosto lunghe, tutte incise su legno lavorato dalle maree. La sua datazione è problematica. La leggenda locale vuole che la scrittura sia stata portata sull’isola con le imbarcazioni dei primi colonizzatori polinesiani. Quando, non si sa, ma potrebbe trattarsi del 300 d.C. Tuttavia, i primi visitatori europei – una flotta olandese nel 1722 – non trovarono alcuna traccia di rongorongo. E quando due navi spagnole vi giunsero nel 1770 e fu preparato un “trattato” per reclamare il possesso dell’Isola di Pasqua alla Spagna, gli isolani lo “firmarono”; ma le loro firme non somigliano affatto al rongorongo.
Il capitano James Cook, approdando nel 1774, non notò alcuna scrittura. Il primo “avvistamento” del rongorongo, una tavoletta incisa, toccò a un missionario francese nel 1864. Nonostante gli sforzi del vescovo di Tahiti a partire dal 1870, non si trovò alcun isolano in grado di leggere la scritta. Da allora gli studiosi non si sono mai messi d’accordo sull’interpretazione.
Non sorprende che il rongorongo sia una potente calamita per eccentrici. Una popolare quanto assurda ipotesi lega questa scrittura a quella indu (o di Harappa), semplicemente perché alcuni simboli si assomigliano. Una cosa è indiscutibile: la direzione di lettura è insolita, anche se non unica. Per leggere una tavoletta rongorongo si inizia dall’angolo inferiore sinistro e si prosegue lungo la riga; poi si gira la tavoletta di 180 gradi e si comincia a leggere la riga immediatamente superiore, sempre da sinistra verso destra. Terminata la linea, si ricapovolge la tavoletta, e avanti così. Il sistema è noto come sequenza bustrofedica capovolta (boustrophedon in greco antico significa “come svolta il bue” durante l’aratura).
La scrittura indu
scrittura sconosciuta, lingua forse conosciuta
I resti della civiltà della Valle dell’Indo interessano parte del Pakistan e il nord-ovest dell’India, per una superficie pari a un quarto dell’Europa. All’apice, tra il 2500 e il 1900 a.C., le sue principali città erano paragonabili a quelle contemporanee della Mesopotamia e dell’Egitto.
La scrittura squisitamente intagliata di questa civiltà è testimoniata da circa 5000 iscrizioni, molte delle quali su pietre ritrovate nelle case e nelle strade dei suoi centri urbani in rovina. Un motivo frequente sui sigilli è un quadrupede simile a un unicorno (una creatura proveniente dall’India, secondo le leggende). I testi sono stranamente brevi. La lunghezza media è di appena cinque simboli, il più lungo arriva a 20. Alcuni ricercatori hanno messo in dubbio che si tratti davvero di scrittura, ma la maggior parte degli studiosi la considerano tale.
La lingua della civiltà dell’Indo potrebbe essersi totalmente estinta, anche se alcuni ipotizzano che sia imparentata con idiomi dravidici attualmente parlati soltanto nell’India meridionale e nel Belucistan, non lontano dalla valle dell’Indo, dove il dravidico è conosciuto come brahui. Se l’ipotesi dravidica è corretta, si potrebbero abbinare parole della forma arcaica di tamil – lingua dravidica parlata nel Tamil Nadu – con i simboli dell’indu. Per esempio, un segno molto comune è il pesce. Il termine in antico tamil per “pesce” è min. Ma min ha anche un altro significato: “stella” o “pianeta”. Forse il simbolo del pesce sta per una parola di ambito astrale. Un po’ come utilizzare un pittogramma del sole in un rompicapo per significare “sale”. Per quanto attraenti siano queste speculazioni, siamo ancora lontanissimi dal decifrare la scrittura indu. Dalla sua scoperta nel 1920, sono stati pubblicati oltre 100 tentativi, alcuni di illustri archeologi, ma le discordanze sono enormi.
Proto-elamita, la più antica scrittura non decifrata
scrittura parzialmente conosciuta, lingua sconosciuta
La proto-elamita è la più antica scrittura non decifrata del mondo… ammesso che si tratti davvero di un sistema grafico pienamente sviluppato, il che non è affatto certo. Venne utilizzata per forse 150 anni a partire dal 3050 a.C. circa a Elam, nome biblico di un’area che corrisponde grosso modo agli odierni bacini petroliferi dell’Iran occidentale. È antica quasi quanto la scrittura più antica in assoluto, il primo cuneiforme della Mesopotamia. Poco si sa delle popolazioni che la usavano.
La proto-elamita è precedente a una scrittura parzialmente decifrata, l’elamitica lineare, utilizzata nella stessa regione 750 anni più tardi. L’elamitica lineare a sua volta ne ha preceduta una terza, una cuneiforme che gli elamiti usarono per molti secoli a partire dal XIII. Fu decifrata nell’ottocento.
Esistono dunque tre scritture elamite, separate tra loro da circa 800 anni e senza un testo per colmare le lacune: nessun Chaucer o Shakespeare a collegare l’anglo-sassone con l’inglese moderno, per così dire.
Il rapporto tra proto-elamita e elamitica lineare è controverso. Lo scopritore della prima, all’inizio del secolo scorso, era convinto che entrambe rappresentassero la medesima lingua. Gli studiosi successivi concordarono. Ma dagli anni ’80, si è rafforzata la convinzione che non esista alcuna prova di parlate e culture comuni. In conclusione, malgrado studi puntigliosissimi, la lingua espressa da queste iscrizioni è ancora completamente sconosciuta.
Il Disco di Festo: la stampa più antica o una bufala?
scrittura sconosciuta, lingua sconosciuta
Il solitario Disco di Festo proveniente da Creta sembra essere il più antico documento “stampato” del mondo. Circa 15 centimetri di diametro, occupa il posto d’onore nel Museo di Heraklion. Secondo alcuni, invece, non andrebbe considerato un testo indecifrato in quanto falso: l’Uomo di Piltdown della paleografia. Tuttavia, la maggior parte degli specialisti lo considera autentico fin dalla sua scoperta a opera di archeologi italiani nel 1908 presso l’antica Festo, in un contesto archeologico che si fa risalire al 1700 a.C. Pochi studiosi, tuttavia, hanno avuto il fegato di proporne una traduzione.
Il disco è realizzato in terracotta e presenta iscrizioni su ciascun lato: una spirale di simboli impressi nell’argilla ancora fresca con una serie di stampini. I 241 o 242 simboli (uno è cancellato) sono stati realizzati da 45 diverse matrici. Ed è tutto quanto si può affermare senza rischiare forzature.
Ma perché qualcuno si sarebbe preso la briga di produrre una serie di 45 stampi, piuttosto che “scrivere” direttamente i simboli? Se si trattava di pubblicare documenti in serie, perché non ne è stato trovato nessun altro? E perché i simboli stessi sono diversi da qualsiasi altra forma cretese di scrittura? Un’ipotesi è che il disco sia stato importato, forse dall’Anatolia (uno dei simboli ricorda una tomba rupestre anatolica). Se è così, la lingua del disco può essere qualche ignoto idioma che non ha nulla a che fare non cretese.