Una breve analisi dell’urbanizzazione e dell’antropizzazione in Lessinia
La storia della presenza umana nella Lessinia, pur esistendo tracce di insediamenti neolitici e romani, può identificarsi per intero con quella di un popolo dalle caratteristiche specifiche che vi si insediò nel secolo XIII. Si trattava di popolazioni di origine germanica che ebbero la concessione di insediarsi da parte del vescovo di Verona Bartolomeo della Scala (concessione del 5 febbraio 1287, confermata il 6 agosto 1376 dal vescovo Pietro della Scala) essendo tali territori per lo più disabitati, ricoperti per buona parte da boschi e appartenenti al vescovado. Peraltro sopravvive la leggenda per cui l’origine degli abitanti della Lessinia sia da ricercare nelle vicende delle prime invasioni barbariche, quando i Cimbri sconfitti dal console Mario ai Campi Raudi si sarebbero rifugiati appunto su queste montagne. Di questa interpretazione (assolutamente falsa) si ha la prima stesura in una poesia latina di anonimo del 1314. Tale mitico appellativo di “Cimbri” è, comunque, tuttora in uso. Né dai documenti esistenti e conosciuti, né dallo studio degli insediamenti e della loro storia risulta che la colonizzazione della Lessinia, pur essendo stata consentita e decretata con un atto legale dell’autorità del tempo, abbia seguito disegni precostituiti o sia stata indirizzata da regole prefissate. Tuttavia, l’edificazione dimostra un preciso ed equilibrato sistema organizzativo tanto coerente con il disegno del terreno (l’andamento dei rilievi, la possibilità di collegamenti, la presenza di acqua) quanto funzionale nelle relazioni che tale sistema instaura. Anche per il caso della urbanizzazione della Lessinia si può dunque lecitamente parlare di quella cultura non scritta, ma quanto mai viva e operante, che nel medioevo ha conformato gli insediamenti urbani in forma “spontanea”; ma, meglio che spontanea, questa urbanistica senza urbanisti (o dove tutti erano urbanisti, essendo il senso del territorio e del necessario equilibrio ambientale comune patrimonio di esperienze collettive) si può definire “urbanistica popolare”. Essa infatti non solo organizza funzionalmente un territorio ma esprime anche le credenze, i riti, la mitologia della comunità attraverso una innumerevole serie di segni e simboli, e anche col modo stesso di intendere lo spazio, di progettare la sua strutturazione.
L’elemento base degli insediamenti in Lessinia è il nucleo minimo di case chiamato contrà, contrada; tale unità minima è in genere costituita da un blocco di cinque o sei case unifamiliari a schiera rettilinea o leggermente ondulata con stalle, fienili e rustici aggiuntivi o addirittura interni alla schiera stessa. Dove le condizioni ambientali e la produttività dei suoli lo hanno consentito (in particolare nella fascia mediana e collinare), le contrade si sono sviluppate oltre l’unità minima e, talora, si sono configurate come veri e propri borghi: in questi casi si hanno ovviamente soluzioni compositive più complesse e articolate in rapporto alle nuove dimensioni. Non esistono insomma, nella Lessinia “storica”, né insediamenti a case sparse del tipo podere-casa del colono come nella vicina pianura veneta, né insediamenti a borghi accentrati indipendenti dalla struttura fondiaria (quali, ad esempio, i villaggi agricoli della Puglia). La rete puntiforme delle contrade si distribuisce uniformemente sul territorio, costellando il paesaggio di nuclei edificati compatti, all’incirca equidistanti tra loro, attorniati dai pascoli e dai campi di loro competenza, sottolineati dal sistema dei muretti a secco (le marogne) che sostengono il terreno a terrazzamenti successivi, intervallati, dove il declivio è più accentuato, da castagneti e boschi di rovere in zona collinare, da boschi di faggi e abeti in zona montana. La disposizione di questi edifici è basata su un’orientazione dell’asse eliotermico in direzione nord-sud, con massima esposizione quindi del fronte sud. L’edificazione a schiera semplice, specie nelle contrade montane più alte, senza alcunché di anteposto, né rustici (essendo anch’essi inseriti nella schiera), né vegetazione, consente il massimo sfruttamento del sole; permette anche di costruire su declivi in forte pendenza seguendo le curve di livello e utilizzando il pendìo stesso come riparo della parte nord e fattore di indisturbata esposizione nella parte sud. Dove i pendii sono più dolci e l’altitudine minore, resta la medesima preoccupazione di inserimento ambientale, ma la trama dell’insediamento si articola; le contrade della zona altipiano-dorsali collinari prediligono a volte vallette secondarie, a volte piccoli anfiteatri, a volte crinali emergenti, a volte ancora dolci pendii, con l’utilizzo quindi di un’estrema varietà di soluzioni originali.
Nella parte sud-occidentale della Lessinia, e solo in essa, si trova con una certa consistenza un’altra forma insediativa, profondamente diversa da quella tipica della contrà, ossia la struttura a corte. Le corti non sono mai concepite come elementi isolati chiusi in se stessi (come ad esempio le corti della pianura veneta), ma il più delle volte agglomerate tra loro o con altri elementi diversi; i lati edificati non sono quasi mai più di due, mentre i restanti sono chiusi con alti muri di pietra dove trova posto l’elegante apertura d’entrata con arco a tutto sesto sormontato da spioventi in lastre di pietra. Da notare che questi muri racchiudenti la corte sono stati successivamente demoliti quasi ovunque, pur non richiedendolo necessità funzionali; semplicemente, quindi, per “aprire” sullo spazio circostante, anche quando ciò ha comportato una notevole riduzione della privacy. È pure da notare la completa assenza di portoni ai monumentali varchi di entrata, e di qualsiasi altro similare elemento di chiusura. Questi fatti, per certi versi strani e immotivati, stanno probabilmente a significare come il chiudere e il fortificare l’insediamento (si veda anche la costruzione di torri di avvistamento e difesa, poi colombaie, in alcune corti di dimensioni maggiori, o più isolate, o poste lungo le antiche strade) si sia rivelato necessario nella zona sud-occidentale, per la vicinanza alla Val d’Adige e quindi per la pericolosa esposizione a possibili intromissioni dall’esterno o, come dice A. Benedetti, per la difesa dalle prepotenti angherie dei nobili veronesi. Peraltro, superato il periodo critico queste strutture racchiudenti, estranee al modo di concepire e organizzare lo spazio della cultura popolare locale, sono state conseguentemente demolite.
Estendendo l’analisi di questo particolare aspetto della questione è possibile individuare delle soluzioni intermedie, di passaggio per così dire, tra l’insediamento a schiera semplice, generalizzato e caratteristico della Lessinia specie nella parte alta e orientale, e quelli più frammentari e che si possono definire, pur con le riserve sopraesposte, “a corte”. Questi insediamenti intermedi presentano caratteristiche di entrambe le soluzioni dando luogo a insiemi che, se si rivelano a volte irrazionali dovendo rispondere a esigenze strutturalmente contrastanti (per esempio esposizione a sud annullata da rustici anteposti, oppure recinzione eseguita solo per alcuni tratti della corte), d’altra parte formano complessi edificati di suggestiva bellezza e di grande varietà che confermano l’esistenza di processi di modificazione nella struttura degli insediamenti.
Il linguaggio delle pietre
La civiltà dei Lessini ha espresso il proprio modo di “vivere” il territorio non solo attraverso la creazione delle contrade e dei villaggi, ma anche con una fitta e minuta serie di segni disseminati nella campagna, nei pascoli e nei boschi. Materiale base di questa opera di antropizzazione è il cosiddetto “lastrolare di Prun”. Si tratta di un particolare tipo di pietra, calcare lastriforme del cretaceo superiore, che essendo costituito da strati successivi sovrapposti, è facilmente estraibile in scaglie, anche di grandi dimensioni (fino a otto metri), sottili (circa cinque-dieci centimetri di spessore) e di superficie abbastanza regolare. Le popolazioni della Lessinia ben presto seppero usare questo materiale nei modi più diversificati e vari, facendolo diventare un vero e proprio elemento costitutivo dell’ambiente. L’uso del lastame va dunque dalla costruzione degli edifici (come manto di copertura dei tetti, pavimento ai piani inferiori, superficie delle balconate esterne e le mensole di sostegno delle stesse; in scaglie più piccole come materiale per costruire i muri, e ancora come contorni delle aperture, in alcuni casi addirittura come inferriate alle finestre) al costituire elementi che oggi chiameremmo di “arredo urbano”. La pavimentazione di pietra, soprattutto negli slarghi di fronte alle case, in grandi e sottili lastre, era ambiente comunitario alla cui manutenzione e uso appropriato partecipava la collettività prospiciente; come le corti così le strade che si articolano lungo il bordo. Oggi l’invadenza e la rozzezza dell’asfalto sporca e frantuma l’articolato disegno di questi spazi, dilagando indifferentemente e scomponendo così la precisa e delicata gerarchia originaria. Il modo popolare di concepire l’agglomerazione urbana, sempre di piccole dimensioni, dava luogo a un ambiente diversificato ma integrato; il rapporto tra casa e paese, tra privato e pubblico, era un rapporto di continuità. La linea di margine tra interno ed esterno della casa era in questo senso particolarmente curata: il linguaggio delle pietre torna qui a essere fondamentale. I gradini di accesso alla casa, gli sporti in pietra sul filo facciata, spesso dal raffinato disegno, i camini, gli stipiti di porte e finestre, le chiavi d’arco e gli architravi (con simboli legati a miti propiziatori, a elementi religiosi oppure a volte ricercatamente personali), i vòlti e i sottopassaggi incorporati nelle case, le fontane e i lavatoi, segnano marcatamente la mancanza di soluzione di continuità tra episodio singolo e complesso urbano, la spontanea fusione tra caratteristiche individue, anche diversificate, e ambiente; espressioni che si pongono dunque a metà strada tra arredo urbano e proiezione esterna di ogni singola casa.
Ma l’architettura della pietra non si ferma ai centri abitati: dilaga col suo linguaggio sicuro e arcaico nel paesaggio, lo struttura sottolineandone i dislivelli con le marogne (muretti a secco con scaglie a spina di pesce), indicandone a forti segni i percorsi con lunghe file di lastre infisse verticalmente nel terreno delimitanti i bordi delle strade che risultano così come canali arginati, all’interno dei quali possono fluire senza problemi di direzione le mandrie che vanno ai pascoli; ancora lastre verticali nel terreno evidenziano i confini d’àmbito delle varie contrade (oggi delle diverse proprietà) interrompendosi a volte con particolari e lavorati pilastrini che sostengono strutture in legno di sbarramento mobile. E, ancora, le grandi vasche in pietra per l’acqua sorgiva, le sottili e alte lastre usate per sostenere piantagioni di viti, le tese (stalla al piano terra e fienile al piano sopra) che punteggiano con la loro minuta presenza i campi e i pascoli, e le giassare, costruzioni cilindriche in sassi coperte da lastre di pietra, per lo più sviluppate sottoterra a mo’ di grandi pozzi asciutti dove il ghiaccio invernale veniva stivato per l’estate. Le cave di lastame erano un tempo localizzate per lo più presso l’abitato di Prun, nella Lessinia occidentale, tanto che tale tipo di pietra è chiamata tutt’oggi “di Prun”; ebbene queste cave costituiscono esse stesse dei “segni” nel territorio, e questa volta a grossa scala, per l’imponenza delle loro strutture e per l’intelligenza della soluzione complessiva. A differenza delle attuali, queste cave non sono a cielo aperto ma, costituite da enormi gallerie parallele, si addentrano nella montagna dando luogo a un complesso di vasti spazi intercomunicanti, maestose navate ricavate nella viva roccia, divise solo da grandi pilastri sottratti all’escavo con la funzione di sostenere l’alto soffitto. Il silenzio avvolge ora queste basiliche incastrate nella montagna; questo modo di cavare era rispettoso dell’ambiente, non creava fratture nel paesaggio, ma anzi con le sue monumentali entrate evoca una scala di grandezza che è del tutto assente nell’architettura costruita del luogo; consentiva anche — con una attenzione che è caratteristica tipica delle antiche culture soprattutto montanare e contadine — di evitare qualsiasi spreco di terreno mantenendo i campi e i pascoli soprastanti inalterati e perfettamente agibili.
Bibliografia
C. CIPOLLA, La popolazione dei XIII Comuni Veronesi.
A. BENEDETTI, Sfide, lotte, vittorie e sconfìtte dei montagnari veronesi in La Lessinia ieri oggi e domani, 1981.
E.TURRI, La Lessinia.
V. PAVAN, Strutture urbanistiche nei monti Lessini in Architettura nei monti Lessini, Giazza-Verona 1982.
PAOLO RIGHETTI, Organizzazione del territorio, conformazione dello spazio e culture popolari, Ist. Univ. di Architettura, Venezia 1981-1982.