Il crescente risveglio etno-culturale nel territorio di Lizzano in Belvedere, depositario di una tradizione originalissima sotto il profilo linguistico e artistico. L’opera meritoria del periodico “La Musola”.
Tra le zone dell’Emilia-Romagna che hanno visto negli ultimi anni un crescente risveglio etnico-culturale va ricordato il territorio di Lizzano in Belvedere, un comune dello spartiacque appenninico collocato nella punta sud- occidentale della provincia di Bologna, ai confini con le province di Modena e Pistoia. Bisogna segnalare che questo interesse è nato ad opera di un gruppo di appassionati che si è stretto attorno al periodico “La Mùsola”, fondato, diretto e animato da Giorgio Filippi, avvocato in Bologna ma belvederiano di razza, cultura e indole. “La Mùsola”, che deve il suo nome all’antico zufolo in uso da quelle parti, nacque nel 1967 con questi intendimenti: “…Quattro chiacchiere alla buona, senza presunzioni letterarie o scientifiche: senza preoccupazioni politiche; addirittura senza intenti di propaganda e, tanto più, di polemica o di emulazione. Forse prenderemo gusto alle cose nostre. Alla nostra storia, alla nostra parlata, a tutto ciò che caratterizza noi e le nostre montagne. E voglia Dio che questo chiacchierare valga a farci sentire sempre più uniti.” Pur legata a una visione del mondo un po’ nostalgica e bucolica (vedi la garbata polemica con Francesco Guccini, altro homo appenninicus, ma più d’assalto, apparsa di recente sulla rivista), “La Mùsola” ha ormai una sua collocazione fissa nel panorama culturale emiliano, e ha certamente contribuito, con saggi e testimonianze capillarmente rivolti ad aspetti del presente e del passato, alla scoperta di una zona montana fino a qualche anno fa non troppo conosciuta, e depositaria di una cultura veramente originale.
Innanzitutto la zona presa in considerazione da “La Mùsola”, e anche in questo articolo, è quella del comune di Lizzano in Belvedere con le sue frazioni: Chiesina e Farné, Gabba e Orecchia, lo stesso Lizzano, Maenzano, Monteacuto, Pianaccio, Poggiolforato, Querciola, Rocca Cometa, Vidiciatico: una zona di montagna con altitudini più che rispettabili, se ci si riferisce agli Appennini (il Corno alle Scale si eleva a 1945 metri), caratterizzata da bellissimi boschi, toccata oggi dal turismo anche invernale, data l’esistenza di ottime piste per lo sci, disseminata di notevoli opere artistiche e umane che testimoniano l’antichità di questi insediamenti, sino a un secolo fa privilegiati rispetto agli acquitrini, ancora da bonificare, della Bassa. Non infrequenti le tracce lasciate dall’uomo del neolitico, i segni più interessanti e consistenti sono quelli dell’epoca medievale: molte chiese conservano elementi originali romanici e borghi tuttora “vissuti” consistono per gran parte di antiche case fatte per abitarvi o per lavorarvi i prodotti della terra (primi fra tutti le castagne) e costruite interamente in pietra sia negli spessi muri che nel coperto, dove è generale l’uso delle “piagne”, o lastre, di arenaria. In queste case sono numerose le architravi in pietra scolpita, che recano, talora in forme tipiche dei mastri comacini, la data di costruzione (alcune risalgono al ’300 e al ’400) e il nome dell’allora proprietario. E l’arte di lavorare e incidere la pietra del luogo sopravvive oggi per mano di qualche non più giovane scalpellino superstite. È una zona, questa del Belvedere, la cui parlata stupisce il villeggiante fiorentino o bolognese, che di primo acchito giudicherebbe il lizzanese una via di mezzo tra toscano ed emiliano. Ma così non è; la maggiore vocalizzazione rispetto al bolognese (chi étu ti? Bol.. chi ìt? ch’fatu ti? bol. csa fet?) non è da imputarsi a una recente influenza toscana, ma a un antico substrato celto-ligure-etrusco su cui poi intervenne il latino. Questo, però, non ebbe vita facilissima; data anche la scarsa presenza di coloni romani, s’impose relativamente tardi, dando vita a un idioma fortemente caratterizzato, che ha parenti strettissimi nelle zone di Castiglione dei Pepoli, Granaglione, Badi in provincia di Bologna, in una parte del comune di Fanano e a Pievepèlago in provincia di Modena, e in qualche località appenninica della contigua Toscana. Del resto i Romani non dovevano avere un piacevole ricordo di questi impervi luoghi; fu molto probabilmente qui che, nel 216 a.C., stesso anno di Canne, i Romani subirono una strage di enormi dimensioni (pare addirittura 25.000 uomini) secondo il racconto di Tito Livio. I Galli dell’Appennino avevano reciso gli alberi della foresta “Litana” (da cui forse il nome Lizzano) in modo che rimanessero in piedi, ma che potessero altresì cadere al minimo scossone: fu così infatti che i Romani al loro passaggio videro ruzzolare d’ambo le coste questi enormi tronchi che ne massacrarono una parte, provvedendo per i fuggitivi la notoria sete bellica dei “grandi Celti rossastri”. Pare addirittura che dei 15.000 soldati originari – ne parla sempre Livio – ne rimasero solo… dieci!
Un altro episodio storico di grande portata, che toccò questi luoghi, avvenne un millennio dopo, ed ebbe protagonista nientemeno che Carlo Magno in qualità di arbitro per la contesa della Massa di Lizzano e dei territori vicini tra Vitale, vescovo di Bologna, e Anselmo, abate di Nonantola, di sangue regale longobardo. A noi non interessa tanto sapere come Carlo Magno dette praticamente ragione al fiero abate di Nonantola, quanto notare come allora si scomodò l’autorità imperiale per decidere le sorti di una comunità che aveva già le sue consuetudini e la cui collocazione geografica era significativamente a metà strada tra l’influenza bolognese e quella di Nonantola (oggi in provincia di Modena). Infatti, per tornare a questioni linguistiche, Alberto Menarini, grande glottologo bolognese recentemente scomparso, ci suggerisce di tenere sempre presenti le parlate di Bologna e Modena quando si studia il belvederiano, cui va però riconosciuta una sicura originalità. Purtroppo, come ormai da tempo succede per tante parlate locali, l’originale idioma belvederiano lascia sempre più il posto, tra le ultime generazioni, alla lingua italiana, secondo me grazie anche alla massiccia presenza di ospiti toscani; ma vai tu a far capire a questi montanari fieri, genuini e simpatici, ma anche un po’ vergognosi della loro originalità, che dire: “oh che tu fai?” con due aspirate etrusche al secondo non è affatto più fine che dire: “ch’fatu ti?” A questo proposito, benedette sono le pagine de “La Mùsola” dedicate alla lingua belvederiana; qui tutte le rubriche fisse, pur se scritte in italiano, hanno titoli in lingua locale (ch ’ fatu ti ? quii d’una volta, queé d’incòo, ecc.),1 e in ogni numero c’è lo studio di qualche “bel vocabolo belvederiano” (come teggia,2 sciel vre,3 maida,4 fino al lo scorso numero curato da Alberto Menarini; interessantissime le favole trascritte interamente in belvederiano, raccolte dalla viva voce di qualcuno tra i numerosi ultraottuagenari (l’aria buona sembra faccia bene!), vivida testimonianza di autentica cultura montanara popolare, piena di semplicità e schiettezza.
Un’altra caratteristica di questo territorio è stata, contrariamente a ciò che è avvenuto nella Bassa bolognese, una forte emigrazione, sia stagionale (“Maremma, Corsega o Prussia”, come dice qualche anziano protagonista in prima persona) che definitiva, vuoi a Pistoia, Lucca, Firenze, Porretta e Bologna, o addirittura in Lorena (Longwy) e nel New Jersey (Vineland), dove puoi sentir parlare belvederiano come e più che nella terra d’origine. Anche Enzo Biagi appartiene a una famiglia di Pianaccio, e da qui, dove nacque, egli ha trovato prima a Bologna, poi a Milano e in tutto il mondo il successo a noi ben noto. Ci auguriamo che nel vasto quadro della sua “geografia” il versatile Enzo, che si richiama talvolta alle proprie radici, trovi lo spazio per collocare la cultura di quelle montagne e di quella gente belvederiana che ha già una presenza episodica in qualche suo scritto e da cui ha sicuramente assorbito i primi succhi vitali. Intanto, per fortuna, c’è “La Mùsola”, che fa “prendere gusto alle cose nostre”, che è quello che poi Alan Stivell, il moderno bardo bretone, predica per la sua terra. Per fortuna c’è chi compera vecchi edifici d’interesse artistico e storico e, pur con sacrifici, li restaura. Per fortuna c’è chi capisce ancora l’importanza dell’aria pura: cosa di cui hanno bisogno sia i Bolognesi, per certi versi ormai legati a frenesia lavorativa di tipo post-industriale, sia i Fiorentini, invasi da torpedoni di Olandesi e Tedeschi.
Note
1 In italiano: cosa fai tu? – quelli di una volta – cose di oggi.
2 Voce celtica che significa capanna per il ricovero di animali e foraggio.
3 Mangiare, soprattutto “far colazione”, dal latino absolvere ieiunìum (rompere il digiuno): singolare analogia con l’inglese breakfast.
4 Cassa per fare il pane, dal latino popolare màgida.