Quando siamo esposti ad attentati jihadisti, purtroppo frequenti negli ultimi tempi, viviamo sempre più spesso il triste spettacolo messo in scena da molta stampa, intenta a precisare quasi fin da subito la nazionalità “europea” degli attentatori.
Capita così che i radicalizzati delle banlieue figli di immigrati tunisini diventino di colpo “francesi”, manco stessimo parlando di agricoltori bretoni; capita che l’attentatore di Manchester, figlio di immigrati libici, diventi immediatamente un “inglese”, una nazionalità annunciata con così tanto zelo e sicurezza che a prima vista e a primo udito qualcuno potrebbe davvero convincersi di avere a che fare con una sorta di Mr. Bean squilibrato, voglioso di farsi saltare per aria in qualche concerto.
La realtà è che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina, e questa serie di uscite di molti mass media a voler a tutti i costi certificare la provenienza nostrana di molti attentatori sembra essere una strategia per inculcare la sensazione che non sono sempre gli immigrati a compiere attentati di questo tipo, ma che anche i residenti, gli inglesi, i francesi possono compiere questo tipo di gesto, con quella miserabile sofisticazione alla “vedi? Erano francesi! Erano come noi!”. Una specie di propaganda rassicurante per evitare di citare sempre il marocchino, il libico, il mediorientale.
Propaganda capace di smentirsi da sola, tuttavia. Se per questi cronisti, infatti, la provenienza culturale, geografica ed etnica è una sorta di camicia sostituibile alla bisogna, così come la cittadinanza e la nazionalità, sono gli stessi immigrati, anche radicalizzati, a mostrarci che le identità invece esistono eccome.
Esistono ed emergono in contrasto ad una immigrazione senza criterio, capace di stipare individui in periferie affollate senza la benché minima possibilità di emancipazione, in contrasto a quel mondo dipinto dai professionisti dell’accoglienza come spazioso, tollerante e pieno di opportunità, i cui lustrini spesso lasciano spazio alla desolazione e alla disillusione una volta che lo si vive in prima persona, notando quanto poco spazio spesso ci sia per l’emersione sociale ed una degna sopravvivenza.
L’identità, in situazioni di emergenza, diventa per molti immigrati l’unico motivo di orgoglio e di contrasto in un mondo lontano dalle fanfare a cui erano stati abituati. Non basta chiamare inglese un libico per farlo sentire un cittadino britannico, non bastano le ridicole manifestazioni a suon di gessetti, ponti e arcobaleni per risolvere le migliaia e migliaia di contraddizioni create da vent’anni a questa parte da una immigrazione sregolata, in cui una multiculturalità imposta in casa d’altri ha preso il posto di una più responsabile gestione multipolare del mondo, favorendo l’emancipazione dei popoli nelle loro terre e nelle loro case.
Anzi, proprio il fenomeno dello jihadismo fa spesso perno su un sentimento di odio nei confronti degli occidentali, visti come colpevoli e primi responsabili della crisi del mondo arabo e dell’attacco all’Islam. Spesso l’odio è addirittura culturale, con una repulsione verso quegli stessi miti portati in trionfo dai fautori del multiculturalismo, delle società aperte, laiche, democratiche. Un cortocircuito davvero terribile, ma veritiero, come se mezza stampa fosse impegnata ad appiccicare etichette di europeità ad un mondo che ne fa volentieri a meno, e che proprio nel contrasto con l’Occidente e nell’identità islamica trova ormai l’unica ragione di vita.
Questo gioco sulle nazionalità falsate e sulle identità negate, infatti, viene continuamente sbeffeggiato proprio da quegli stessi immigrati che di questo gioco al ribasso sull’identità non ne possono più e ne fanno volentieri a meno. Forse devono accorgersene solamente i grandi mass media, tanto bravi a chiedere spazio, ascolto e dignità quanto abili a distorcere percezioni, a promuovere narrazioni di parte.
Con buona pace di debunkers e sbufalatori professionisti, spesso rigorosamente silenti quando la grande stampa ci dipingeva le opportunità delle primavere arabe di pace e dei partigiani di democrazia del Medioriente, sarebbe interessante alzare una volta per tutte il velo da questo tipo di narrazioni inutili e ridicole, da questo infantile gioco sulle identità. Con buona pace di tutti, cominciando una volta per tutte a rintracciare cause ed effetti del dramma della radicalizzazione.
Alessandro Catto, “Blog il Giornale”.
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