Nel cuore del Pacifico, quasi dimenticate dalle carte geografiche, si trovano le remote Isole Chatham. Sono l’esatto antipodo della penisola italiana in quanto l’isola di Sud-est rappresenta la terra emersa più distante: 19.250 km dal centro di Roma.
Ma l’aspetto più interessante di queste isole semisconosciute, situate letteralmente all’altro capo del mondo, è la popolazione che per secoli le ha abitate, i moriori, e in particolare l’incredibile storia che li ha visti protagonisti di un terribile quanto ignorato genocidio. Peculiarità di questa tragica vicenda è che lo sterminio non è stato perpetrato, come molte altre volte nel corso della storia, dall’uomo bianco, bensì dai maori, gli indigeni della Nuova Zelanda di cui gli stessi moriori erano discendenti e con i quali vantavano una comune origine. Sicché, quando il 19 marzo 1933 venne a mancare Tommy Solomon, l’ultimo uomo con sangue interamente moriori, la popolazione che aveva trovato nelle Isole Chatham una felice dimora per diversi secoli si poté considerare sostanzialmente estinta.

Le Isole Chatham, un ambiente difficile

Le Isole Chatham sono un arcipelago posizionato circa 800 km a est della Nuova Zelanda (cui amministrativamente appartengono) formato da un insieme di dieci isole raggruppate entro un raggio di 40 km, le principali essendo Chatham e Pitt, le uniche ancora abitate. Le altre costituiscono paradisi faunistici regolamentati come aree protette e riserve naturali.
Nell’antico linguaggio dei moriori, l’arcipelago viene denominato Rekohu, “sole nebbioso”, a causa della perenne foschia che avvolge le isole durante quasi tutto l’anno, mentre in dialetto maori è chiamato Wharekauri. Ha una superficie di 966 kmq, costituita per la maggior parte dalle due isole principali che si presentano collinose e con tanti differenti tipi di costa come scogliere, dune, spiagge e lagune, accompagnate da una vegetazione diversificata che passa da ambienti forestali a brughiere e zone di pascolo, comprendendo anche aree paludose.
L’origine dell’arcipelago è di natura vulcanica e la sua formazione risale a circa 80 milioni di anni fa: il suolo è dunque una mescolanza di roccia vulcanica, scisti e calcare. Il territorio dell’isola Pitt è maggiormente aspro e accidentato; entrambe le isole più estese sono ricche di laghi e lagune, la più grande delle quali si chiama Te Whanga, e di piccoli corsi d’acqua.
L’intero arcipelago si presenta come una realtà naturalistica decisamente unica grazie alla presenza di particolari elementi endemici la cui evoluzione è stata favorita dall’isolamento geografico e da condizioni climatiche molto peculiari: delle 902 specie di piante che ospitano le isole, 41 sono endemiche (l’akeake, il grespino gigante delle Chatham, il karamu delle Chatham, il mahoe, il kakaha, il rautini…), mentre la fauna autoctona è rappresentata da foche, uccelli marini e pesci come la berta grigia, il prione beccolargo, il petrello delle Chatham e lo scinco.
Le aree naturali protette ricoprono il 7% della superficie complessiva delle isole, in molte delle quali l’accesso è ristretto o severamente vietato. Le zone di conservazione più significative sono le isole di Mangere e Rangatira dove è stato avviato un processo di reintroduzione di diverse specie endemiche, tra cui il beccaccino delle Chatham e la balia melanica.
Le isole presentano un clima temperato-marittimo caratterizzato da una gamma di temperature abbastanza costanti e stabili, fortemente condizionate dalle frequentissime piogge. Inoltre la posizione isolata, decisamente lontana da consistenti blocchi continentali, e gli influssi oceanici rendono da record i 23-24 gradi registrati nel mese di gennaio, in piena estate australe. La media delle temperature estive oscilla infatti tra i 15 e i 20 gradi, mentre d’inverno si aggira addirittura tra i 5 e i 10 gradi in luglio. Il clima dell’arcipelago è quindi freddo, molto piovoso e ventoso con nebbie frequentissime: questo quadro climatico-ambientale è fondamentale per la storia che vogliamo raccontare, in quanto la natura aspra e inospitale delle Chatham ha giocato un ruolo da protagonista nelle vicende dei moriori, influenzando le scelte di vita e il destino di questa società.

moriori isole chatam genocidio - mappa Chatam

Chi sono i moriori?

Si è soliti definire i moriori indigeni delle Isole Chatham; in realtà l’affermazione è parzialmente scorretta in quanto non abbiamo a che fare con un gruppo di nativi originari dell’arcipelago, ma con una comunità giunta in tempi relativamente recenti rispetto alla maggior parte della popolazioni polinesiane.
È pur vero che al momento dei primi contatti tra i coloni europei e le Chatham, i moriori vivevano sulle isole ormai da secoli e si erano perfettamente adattati alla loro nuova terra facendone la propria casa, nella quale si identificavano appieno. Gli inglesi dunque trovarono un unico popolo che viveva stabilmente nell’arcipelago, ed è per questa ragione che si riferirono a loro come autoctoni delle Chatham.
Come accade spesso per le popolazioni localizzate in aree isolate del pianeta, non vi sono certezze granitiche sulla loro genesi: anche per i moriori si sono susseguite negli anni diverse ipotesi, prima di approdare a quella che appare la più realistica. I moriori sono un gruppo etnico di origine polinesiana che, secondo la teoria più accreditata attualmente dagli studiosi, sarebbe migrato dalla Nuova Zelanda (dopo esservi arrivato in precedenza da qualche isoletta della Polinesia) e avrebbe raggiunto le Isole Chatham all’inizio del XVI secolo, stabilendosi qui in modo permanente. Avrebbero quindi strettissimi legami di parentela con gli stessi maori con i quali convivevano sull’isola principale neozelandese, o più semplicemente sarebbero addirittura un gruppo ristretto di maori che decise di abbandonare la patria per emigrare altrove, trovando dimora nelle Chatham.
Il successivo isolamento dovuto alla collocazione dell’arcipelago e i numerosi cambiamenti nelle pratiche culturali e sociali, imposti dalle particolari e difficili condizioni ambientali, contribuirono ad aumentare profondamente le differenze tra i due gruppi e a creare una nuova cultura “moriori”, un prodotto originale e unico, ben distinto rispetto all’universo maori.
I moriori adottarono uno stile di vita decisamente particolare, opposto a quello dei maori con i quali i contatti e i rapporti furono del tutto inesistenti per secoli, in un luogo distante più di 800 km, diventando di fatto un popolo “altro” a tutti gli effetti.
Un’altra versione che nel XIX secolo era la più accreditata sulla loro origine è quella sostenuta dall’etnologo Percy Smith, convinto che i moriori si fossero insediati in Nuova Zelanda prima dei maori e fossero da loro diversi sia dal punto di vista genetico sia da quello linguistico. L’ipotesi, priva di prove concrete e rivelatasi poi fallace, era invece all’epoca molto sostenuta ed è stata ritenuta valida addirittura fino alla metà del XX secolo. Veniva inoltre teorizzata una possibile origine melanesiana per i moriori, i quali si sarebbero insediati in Nuova Zelanda prima e successivamente nelle Chatham.
Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento l’ipotesi fu screditata da prove archeologiche e linguistiche: quella regina è rappresentata dall’incredibile somiglianza della lingua dei moriori con il dialetto parlato dalla tribù maori ngai tahu dell’Isola del Sud della Nuova Zelanda, traccia di una genesi comune. Inoltre vennero rintracciati anche numerosi parallelismi all’interno delle genealogie hokopapa (moriori) e whakapapa (maori). Si è così giunti a sostenere con notevole certezza che entrambi i popoli siano polinesiani e abbiano la stessa origine, facendo delle Chatham le ultime isole colonizzate da tribù polinesiane durante le loro grandi migrazioni nell’Oceano Pacifico.
Permane ancora incertezza invece sull’esatta origine del termine “moriori”: si pensa che non si tratti d’altro che di un’evoluzione della parola “maori”, significante letteralmente “uomini” o “persone comuni”. Una spiegazione più complessa la associa invece al termine proto-polinesiano ma(a)qoli, che vuol dire vero, reale, genuino, parola parente del termine “maori”, ma non frutto di una diretta derivazione. Un’altra variante delle teorie sulla loro genesi sostiene che essi sarebbero migrati direttamente da qualche isola situata nella Polinesia settentrionale, poco prima del contemporaneo insediamento dei maori in Nuova Zelanda. Questa ipotesi, basata anch’essa sulla comune origine polinesiana dei due gruppi, salta però il passaggio intermedio secondo cui i moriori sarebbero un piccolo contingente di maori che raggiunse le Isole Chatham dalla Nuova Zelanda, differenziandosi culturalmente dagli antenati una volta sull’arcipelago e diventando così a tutti gli effetti un nuovo gruppo: rimane comunque una teoria secondaria, meno plausibile di quella maggiormente caldeggiata negli ultimi decenni.

moriori isole chatam genocidio - Gruppo-moriori
Gruppo di moriori.

L’arrivo nell’arcipelago

Le poche fonti storiche permettono di collocare l’approdo e l’occupazione delle Chatham da parte dei moriori intorno al 1500: nell’arcipelago si sarebbero imbattuti, secondo la loro tradizione, in altre tribù che abitavano già da tempo le isole, probabilmente i veri indigeni dell’area con i quali si fusero completamente. Anche per quanto riguarda l’esattezza della data di arrivo esistono supposizioni alternative che anticipano l’avventura a qualche secolo prima, non molti anni dopo il definitivo insediamento dei maori in Nuova Zelanda terminato intorno al 1200. In questo caso i secoli di non contatto tra i due gruppi aumenterebbero giustificando ulteriormente le grandi differenze socio-culturali evidenti al momento del successivo incontro, ma questa è probabilmente solo una suggestione e non un’ipotesi reale.
Le notizie relative al periodo pre-Chatham e al viaggio dalla madrepatria Polinesia e in seguito dalla Nuova Zelanda sono poche e frammentarie, e risultano legate soprattutto a leggende appartenenti alla cultura e alla tradizione moriori, incastonate all’interno di epici racconti cosmogonici. Il mito della creazione ha per protagonisti Rangi (il paradiso) e Papa (la terra) che vivevano nelle tenebre fino a quando decisero di unirsi, e dalla loro unione nacque lo spirito Rangitokona che li separò spingendo Rangi in alto e sorreggendolo: così ci fu la luce e il mondo ebbe inizio, Rangitokona impilò della terra per creare il primo uomo, chiamato Tu, che ebbe numerosissimi discendenti tra i quali, dopo 26 generazioni, l’antenato Te Ao-marama, il cui figlio secondo il mito viaggiò per primo verso la Nuova Zelanda fornendo le indicazioni necessarie alle generazioni successive per farvi ritorno in seguito.
Kahu, capitano della canoa Tane, viene invece considerato il primo visitatore delle Chatham: partito da Hawaiki – la madrepatria in Polinesia da cui sarebbero provenuti anche i maori che occuparono la Nuova Zelanda – raggiunse l’arcipelago Rekohu esplorando le due isole principali e anche quelle più piccole adiacenti. Approdò nell’angolo sud-occidentale dell’isola Chatham lasciando la canoa per proseguire a piedi e provò a piantare radici di felci e patate dolci; ma, una volta accortosi che non cresceva niente, decise di abbandonare l’isola e di fare ritorno ad Hawaiki. A questo punto le leggende moriori parlano di due differenti migrazioni verso le Chatham direttamente dalle isole polinesiane originarie, mentre le tracce concrete suggeriscono che ve ne sia stata solo una dalla Nuova Zelanda.
In Polinesia ad Hawaiki era scoppiata una guerra tra le tribù wheteina e rauru. Il perdurare della faida portò le genti della tribù wheteina a maturare la decisione dell’esilio, così a bordo di due canoe partirono alla volta delle Isole Chatham, ma una delle due naufragò e tutto l’equipaggio morì tragicamente. L’altra barca riuscì ad approdare senza problemi e i migranti si inoltrarono nell’isola dove s’imbatterono negli hamata, gli abitanti autoctoni, con i quali iniziarono una pacifica convivenza. La seconda migrazione ebbe per protagonista Moe, nuovo leader della tribù rauru, il quale, una volta raggiunta l’età adulta, decise di intraprendere un nuovo viaggio da Hawaiki all’arcipelago Rekohu. Nonostante gli ammonimenti del nonno che aveva suggerito ai nuovi migranti di far di tutto per evitare una nuova guerra fratricida, nelle Chatham scoppiò un’ennesima contesa che si estese anche all’isola Pitt e terminò quando Moe e i suoi alleati furono bruciati di notte all’interno delle proprie capanne. In seguito a queste vicende il capo Nunuku-whenua vietò le contese, gli omicidi e il cannibalismo e proclamò che da quel momento la guerra non sarebbe più dovuta esistere. I moriori iniziarono così a vivere secondo un codice di non violenza chiamato per l’appunto “Legge di Nunuku”, accompagnato dalla cruenta maledizione che augurava la decomposizione delle viscere a chiunque avesse violato il patto non vivendo in pace con se stessi e gli altri.

moriori isole chatam genocidio - Isola-Chatam
L’isola Chatam.

Adattamento

Accantonando momentaneamente i racconti mitologici, è un dato certo che quando coloro che si definirono e divennero moriori sbarcarono nell’arcipelago delle Chatham a inizio XVI secolo, trovarono un quadro ambientale totalmente differente rispetto a quello della loro madrepatria, dominato da condizioni climatiche difficili che non solo portarono a un inevitabile cambiamento di abitudini e stili di vita, ma probabilmente segnarono il loro destino come gruppo.
Le Chatham infatti sono assai più fredde e inospitali della Nuova Zelanda: il clima rigido rendeva praticamente impossibile la coltivazione delle colture tropicali polinesiane conosciute e praticate fino a quel momento, e le risorse naturali disponibili erano nettamente inferiori e differenti da quelle dei territori originari.
I moriori furono così costretti ad adattarsi alle caratteristiche geo-ambientali del nuovo luogo, abbandonando la pratica dell’agricoltura e ritornando a essere cacciatori-raccoglitori. In particolare si dedicarono con abilità alla pesca in quanto il mare circostante abbondava di pesci, foche e uccelli marini, utilizzati in campo alimentare ma anche per il vestiario (le pelli di foche garantivano un’adeguata protezione dal freddo).
Considerate la superficie relativamente piccola e una quantità di risorse non illimitata, le Chatham non potevano sopportare più di 2000 persone sul proprio territorio: per limitare la crescita e la conseguente sovrappopolazione, i moriori adottarono metodi di controllo delle nascite decisamente drastici, come la castrazione per alcuni neonati maschi. La mancanza di risorse, o meglio la loro diversità rispetto a quelle in precedenza note, comportò anche cambiamenti nelle attività tradizionali segnando nette distinzioni con il passato in ambito socio-culturale. Una componente ricorrente nei riti dei moriori era la pratica dell’incisione su pietra verde o legname di determinati alberi: la loro assenza comportò l’utilizzo dei tronchi di alberi locali in quella che era una vera e propria forma di espressione artistica chiamata rakau momori.
Un altro elemento che mutò radicalmente, come già sottolineato in precedenza attraverso le saghe mitologiche, è il contesto bellico. Oltre alla componente leggendaria della tragica fine di una delle due fazioni in guerra che avrebbe portato l’antenato Nunuku a istituire il codice di non violenza, probabilmente esiste anche una spiegazione più pratica e logica sempre legata all’adattamento al nuovo ambiente: le difficoltà climatiche che impedivano l’agricoltura, la quantità non eccessiva di risorse disponibili per un gruppo non piccolissimo e l’impossibilità di espandersi su altri territori circostanti, obbligarono i moriori a imparare a convivere serenamente tra di loro, condividendo le risorse in modo da evitarne l’esaurimento.
Queste condizioni di precarietà contribuirono al bando di qualsiasi attività bellica e al rispetto intransigente della Legge di Nunuku. I moriori costituirono una società pacifista in cui le dispute venivano risolte attraverso negoziati collettivi e conciliazioni, o lotte esclusivamente rituali nelle quali alla prima goccia di sangue corrispondeva l’immediata fine del “duello”. Quest’adesione a un codice di assoluta non violenza non segnò un passaggio solamente nell’attività pratica ma anche un radicamento profondo nella mentalità e nei valori morali dei moriori, rappresentando un’importante testimonianza di intelligenza e di civiltà, capace di condizionare scelte future decisive anche in momenti determinanti per la sopravvivenza del gruppo. Ogni eccesso o violazione del codice – come scontri, omicidi e cannibalismo – veniva severamente punito. Grazie a questa iniziativa i moriori evitarono di decimarsi e di autodistruggersi, distinguendosi dai maori rimasti sul “continente” che erano soliti combattere continue guerre gli uni contro gli altri.

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L’isola Pitt.

Società e cultura moriori

Tutte queste componenti permisero ai moriori di sopravvivere anche nel duro habitat dell’arcipelago, insegnando loro il rispetto per l’ambiente e l’utilizzo calibrato di ogni risorsa che il particolare contesto naturale forniva, evitando sprechi e inutili contese che avrebbero potuto minare il già precario equilibrio del gruppo.
Il ritorno alla caccia, alla pesca e alla raccolta influenzò direttamente l’organizzazione sociale. Dal momento che l’agricoltura non poteva essere praticata, non era possibile produrre eccedenze alimentari e di conseguenza riuscire a mantenere la struttura sociale precedentemente creata in Nuova Zelanda, dove una buona parte della popolazione riusciva a svolgere altre attività specializzate, come artigiani, burocrati, governanti e soldati, non impegnati quindi nella produzione di cibo grazie proprio al surplus alimentare che veniva immagazzinato e poteva sfamare anche fasce di persone che si dedicavano ad attività diverse dall’agricoltura.
Nelle Chatham ciò non fu possibile, e di conseguenza la società moriori di cacciatori e raccoglitori non era stratificata né specializzata al suo interno, ma fondata su una sorta di “uguaglianza primitiva” dove ognuno pensava alla propria sussistenza senza classi sociali e rigide gerarchizzazioni: “In poco tempo si sviluppò una piccola società pacifica, priva di tecnologie e di armi avanzate e di una organizzazione sociale forte”. 1)
Le tribù di moriori vissero in pace e serenità per diverse centinaia di anni, in totale autonomia, senza riallacciare contatti con gli antenati maori dei quali persero sostanzialmente memoria. Non strinsero rapporti nemmeno con altre popolazioni, anzi fu proprio il loro isolamento a incrementare notevolmente il processo di creazione di una società sostanzialmente ex novo, con valori peculiari e, come abbiamo visto, pratiche quotidiane determinate dall’ambiente circostante, caratteri tutti profondamente differenti da quelli propri del gruppo di antenati continentali. Nel momento del suo massimo sviluppo la popolazione raggiunse le 2000 unità, divise in nove tribù: hamata, wheteina, eitara, etiao, harua, makao, matanga, poutama e rauru. Erano presenti vari tabù, il più importante dei quali intendeva prevenire l’incesto, e gli stessi matrimoni tra cugini di primo, secondo e terzo grado erano severamente proibiti.
La società moriori era dunque libera e non gerarchizzata, decisamente più egualitaria se comparata alle altre polinesiane, con una generale parità di ruoli. Esistevano comunque alcuni individui che venivano identificati come una sorta di “capi”, chiamati ieriki, scelti per le loro dimostrate abilità nelle attività quotidiane come la pesca e la caccia di uccelli, e non su base ereditaria. Tuttavia il loro ruolo pratico non consisteva nell’impartire ordini al resto della popolazione da cui non erano soliti nemmeno differenziarsi per vestiario o tipo di abitazioni – identiche per tutti – ma di presiedere il consiglio della tribù al momento di prendere decisioni importanti, sedare sul nascere le dispute e garantire conciliazioni.
La cultura immateriale era dominata da un profondo senso di armonia con ogni oggetto del creato, connesso a forti credenze spirituali legate al mondo naturale e a un rispetto assoluto dell’ambiente. Le risorse venivano infatti conservate grazie a un sistema improntato su regole e rituali da seguire e rispettare pedissequamente. Non a caso i moriori vennero in seguito descritti dai maori come una popolazione tapu, ossia profondamente rispettosa degli altri, delle regole, della tradizione, della natura e dell’ambiente, delle celebrazioni religiose e degli dèi.
Grande importanza rivestivano anche i riti funerari: i defunti venivano spesso inumati o varati in canoe, qualche volta anche mummificati. Anche per quanto riguarda la cultura materiale i prodotti finiti erano influenzati dalla disponibilità di risorse nel particolare ambiente dell’arcipelago: non avendo legname adatto per le piroghe, costruivano zattere a forma di canoe, rese galleggianti da una base formata da alghe e da giunchi intrecciati su entrambi i lati dell’imbarcazione, in modo che potesse essere più stabile e affrontare il mare mosso, in particolare nel tratto che separa l’isola Chatham dall’isola Pitt. Queste zattere garantivano la navigazione tra le isole dell’arcipelago senza il rischio di ribaltarsi. La più grande, chiamata waka pahi, era lunga dodici metri e utilizzata nei viaggi per catturare albatros nelle isole al largo della costa.
L’attività artistica più diffusa è testimoniata dalle incisioni nei tronchi degli alberi con rappresentazioni per noi ambigue: non vi è certezza se le raffigurazioni fossero un tributo ai defunti, agli dèi, o più semplicemente individui ripresi nelle attività quotidiane e domestiche. Qualunque fosse il significato, resta indubbio ancor oggi il loro grandissimo valore spirituale strettamente connesso con il passato del gruppo.
Gli utensili erano fatti di pietra così come la loro unica arma, il patu o daga da getto.

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Rakau momori, incisioni artistiche.

Incontro con gli europei

I moriori non ebbero praticamente contatti con altre popolazioni per quasi trecento anni fino a quando, alla fine del XVIII secolo, gli europei non raggiunsero l’arcipelago. Il 29 novembre 1791 William R. Broughton, capitano della nave inglese HMS Chatham, approdò a Rekohu nell’ambito della Vancouver Expedition. Appena sbarcato prese immediatamente possesso dell’isola in nome della corona britannica per conto di Re Georgio III, piantando la bandiera, come usanza dell’epoca, senza curarsi minimamente se il territorio fosse abitato da altre popolazioni. L’intero arcipelago venne chiamato Chatham in onore del vascello capitanato da Broughton, mentre l’isola Pitt prese il nome da John Pitt, primo ammiraglio della marina, il cui figlio Thomas partecipò alla stessa Vancouver Expedition.
I moriori tuttavia non furono attaccati e gli inglesi non intrapresero una vera e propria conquista territoriale, non essendo interessati alle risorse di queste isole e non soggiogando così gli indigeni. Si verificò un unico episodio violento dovuto a un banale fraintendimento in cui un moriori venne ucciso mentre cercava di difendere le sue reti da pesca. Si trattò della prima persona di etnia moriori uccisa da un’arma da fuoco, tuttavia incredibilmente gli anziani del gruppo ritennero Tamakaoro –  così si chiamava la vittima – responsabile dell’accaduto, e idearono un cordiale e appropriato rituale per accogliere benevolmente i futuri graditi visitatori.
Negli anni successivi la presenza inglese sull’isola non fu costante, e i moriori poterono vivere ancora per un buon periodo in relativa autonomia e libertà. Le Chatham divennero base di appoggio di marinai, pescatori e cacciatori di balene per le loro spedizioni. Nei primi decenni del XIX secolo oltre ai balenieri si aggiunsero anche i cacciatori di foche, che iniziarono così a contendere alla popolazione locale un’importante fonte di sostentamento. In breve tempo l’attività venatoria portò alla quasi totale estinzione delle foche, sconvolgendo completamente l’ormai consolidata dieta moriori e aggravando una situazione che li vedeva costretti a sopravvivere in un contesto ambientale dove non abbondavano le risorse proteiche. Questa parziale privazione unita all’introduzione di diverse malattie portate dai marinai europei iniziò a minare l’equilibrio biologico dei moriori: la diffusione delle malattie, l’influenza in particolare (i rimedi indigeni come l’immersione in acqua gelata si rivelarono decisamente inefficaci), provocarono una crisi all’interno del gruppo i cui componenti nel giro di pochi anni dall’arrivo dei coloni si ridussero del 10-20%, passando dalle circa 2000 unità del periodo pre-europeo alle 1600 del 1830. Nonostante numerosi decessi dovuti mancanza di anticorpi, la situazione pian piano si assestò e questi eventi non condussero allo sterminio del gruppo che poteva ancora contare su un discreto nucleo attivo.

moriori isole chatam genocidio - Guerrieri-maori
Guerrieri maori.

La conquista maori e il genocidio

Ma la tragedia era ormai alle porte. Qualche anno dopo, un gruppo di cacciatori australiani di foche comunicò ai maori l’esistenza dell’arcipelago, dipingendolo come un vero e proprio paradiso faunistico, popolato da indigeni amichevoli che non praticavano la violenza e l’uso delle armi.
I maori, da secoli stanziati nei territori neozelandesi, erano all’epoca un popolo assai bellicoso. Divisi in numerose tribù perennemente in lotta tra loro, avevano una popolazione in costante crescita e bisognosa di nuove risorse e sempre maggiore spazio fisico. Così nel 1835 decisero di intraprendere una spedizione alla volta delle Isole Chatham, con il chiaro intento di conquistarle e sottomettere con la forza gli abitanti locali, reprimendo nel sangue eventuali tentativi d’opposizione o manifestazioni di dissenso. Il 19 novembre sbarcarono dalla nave europea Lord Rodney 500 maori armati di fucili, asce e clave, provenienti dalla regione di Taranaki, nell’Isola del Nord. Un ufficiale della Rodney era stato rapito, minacciato di morte e tenuto segregato fino a quando il capitano non aveva acconsentito ad accogliere i maori a bordo e condurli alla loro meta. In seguito, il 5 dicembre una nuova nave approdò nelle Isole Chatham con a bordo un altro contingente armato di 400 maori. I due gruppi, appartenenti alle tribù di ngati tama e ngati mutunga, si erano equipaggiati al loro meglio, calcolando il numero di provviste necessarie a sfamarli durante il periodo necessario ad assoggettare l’isola: avevano così organizzato scorte precise portando con sé anche 78 tonnellate di semi di patata e 20 maiali.
A questo punto il racconto si tinge di incredibile crudezza, come testimoniato dal fatto che, appena sbarcato, il primo contingente uccise immediatamente una bambina di soli 12 anni che si trovava sulla spiaggia e alcuni di loro ne mangiarono le carni seduta stante. Infatti i maori, a differenza dei moriori, non avevano per nulla abbandonato il cannibalismo, che anzi risultava una delle componenti più significative della loro cultura. Nonostante tutto, come da loro tradizione, i moriori accolsero i visitatori amichevolmente, trattandoli con grande cortesia, e poiché i maori erano stanchi per la lunga traversata decisero di offrire loro anche cibo e riposo. Ma le vere intenzioni bellicose degli invasori non si fecero attendere: nei giorni immediatamente successivi essi dichiararono apertamente che la terra dei moriori sarebbe dovuta diventare da subito proprietà maori.
A questo punto i moriori si ritirarono nella baia di Te Awapatiki, riunendosi in consiglio per prendere una decisione sul da farsi: il dibattitto, presieduto dagli anziani ieriki e a cui parteciparono circa 1000 uomini, fu il più importante nella storia del gruppo. Alcuni tra i membri più anziani dichiararono che la Legge di Nunuku non era appropriata in quella situazione, e alcuni giovani moriori sostennero la necessità di fronteggiare il pericolo dichiarandosi pronti a respingere gli assalitori: anche se non avevano combattuto per secoli – argomentarono – in quella circostanza vantavano comunque un numero decisamente superiore (quasi il doppio) e ritenendosi uomini forti e valorosi avrebbero potuto sconfiggere i nemici. La maggior parte dei capi anziani e dei partecipanti non fu d’accordo, come Tapata e Torea, i quali spiegarono che il principio fondante del codice di Nunuku non poteva essere utilizzato come una strategia di sopravvivenza ed essere modificato a seconda delle circostanze, ma era incentrato su un imperativo morale superiore, quindi non si poteva infrangere per nessuna ragione.
Si decise dunque di offrire agli invasori pace e amicizia, mettendo a disposizione una porzione della terra in un’ottica di condivisione. I moriori non fecero nemmeno in tempo a comunicare l’esito dell’assemblea e ad avanzare la loro proposta, che i maori li aggredirono a sorpresa uccidendone un gran numero in pochi giorni, mentre gli altri venivano ridotti in schiavitù. Chi non accettò l’imposizione dei maori che avevano sostanzialmente dichiarato le Chatham un proprio possedimento, chi si rifiutò di essere imprigionato come schiavo e chi provò a opporsi o addirittura a ribellarsi, venne massacrato e brutalmente ucciso. I maori successivamente cucinarono le carni dei cadaveri e le divorarono.
“I maori iniziarono a sgozzarci come pecore… noi eravamo terrorizzati, e cercavamo di darci alla macchia o di nasconderci in qualche buco sottoterra. Ma non servì a nulla: ci scoprirono e ci uccisero, uomini, donne e bambini indiscriminatamente”. Queste le parole di un sopravvissuto, mentre la stessa situazione venne descritta in questo modo da un guerriero maori: “Abbiamo preso possesso dell’isola, secondo i nostri costumi e abbiamo catturato tutti. Nessuno è riuscito a scappare. Chi fuggiva l’abbiamo ucciso, e così tutti gli altri. Ma che importa? Questi sono i nostri costumi”. 2)
Ascoltando entrambe le testimonianze emerge chiaramente, oltre all’estrema crudezza del massacro, la differente mentalità dei due gruppi, legata a un retaggio culturale radicalmente opposto. È stato calcolato che i maori trucidarono in questa strage circa 300 moriori, ovvero quasi un sesto della popolazione complessiva. Come detto, le vittime furono anche donne e bambini ai quali venne riservato un trattamento assai crudele, un rituale disumano, abbandonati sulla spiaggia ma costantemente sorvegliati e lasciati morire di fame e stenti tra grandissime sofferenze. I maori obbligarono i moriori a dissacrare i loro luoghi sacri urinando e defecandoci sopra, evento che contribuì enormemente all’annichilimento finale dell’identità culturale e soprattutto della dignità del gruppo, portando alla morte per disperazione altre persone soprattutto tra i membri più anziani.
I moriori sopravvissuti, privati di ogni diritto e libertà, vennero deportati come schiavi in blocco e molti di loro uccisi in seguito per futile capriccio dei nuovi padroni. Il genocidio continuò anche da un punto di vista culturale, in quanto i maori s’impegnarono a distruggere e cancellare completamente qualsiasi forma legata alla tradizione moriori, che veniva così sopraffatta e annientata nel giro di pochi mesi, destinata a perdersi nell’oblio insieme alla sua gente.
I maori vietarono ai moriori di parlare il loro idioma, e fu anche impedito loro di sposarsi gli uni con gli altri e di avere figli all’interno della schiera dei superstiti. Praticamente divennero tutti schiavi delle tribù di ngati tama e ngati mutunga, e una volta deportati dalle Chatham non vi fecero mai più ritorno.
Nel 1842 un piccolo contingente maori accompagnato dai propri schiavi moriori migrò fino alle Isole di Auckland, arcipelago sub-antartico situato 500 km a sud della Nuova Zelanda, dove vissero per circa vent’anni coltivando ed esportando lino. Molte donne moriori ebbero figli dai loro capi maori, un piccolo numero vi si sposò, mentre altre si maritarono o ebbero figli da marinai e balenieri europei. Un buon numero di maori rimase comunque nelle Chatham stabilendosi in modo definitivo: nel 1840 scoppiò una guerra tra i mutunga e i tama, sedata solamente con l’intervento degli inglesi che fecero stipulare una tregua alle due bellicose tribù; nel 1843 sbarcò nell’arcipelago una congregazione di missionari tedeschi della Moravia, costituita inizialmente da soli membri maschi che furono raggiunti tre anni dopo da un gruppo di donne con le quali molti di loro si unirono: diversi membri dei rari abitanti attuali delle Isole Chatham hanno antenati riconducibili alle famiglie dei missionari.
Nel 1865 il leader maori Te Kooti fu costretto all’esilio nelle Chatham con un gruppo di ribelli chiamati Hauhau perché avevano assassinato alcuni missionari e combattuto contro il governo della corona britannica nell’isola settentrionale della Nuova Zelanda. I prigionieri ribelli furono condannati a lavorare quotidianamente nelle fattorie di proprietà dei pochi possidenti europei, controllati a vista da guardie la metà delle quali era di etnia maori.

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Tommy Solomon.

Estinzione e rinascimento

Analizzando alcuni dati emerge chiaramente il ruolo determinante dell’invasione maori nel processo di inesorabile estinzione dell’etnia moriori: nel 1862 erano rimasti solo 101 individui su una popolazione originaria di 2000 persone, che era già calata a 1600 prima della conquista maori nel 1835, dunque meno del 10%. Nel 1863 i moriori furono rilasciati dalla schiavitù, anche se molti maori non abbandonarono le isole fino al 1870: ma la tragedia si era già quasi interamente consumata, se tra il 1835 e il 1863 ne erano morti 1561. I pochissimi superstiti, una volta ottenuta la libertà, lavorarono spesso nelle fattorie dell’isola, vivendo in condizioni alquanto precarie.
Piano piano iniziarono a morire tutti, determinando l’estinzione dell’intero gruppo etnico. L’ultimo individuo purosangue, Tame Horomona Rehe, conosciuto con il nome anglicizzato di Tommy Solomon, morì il 19 marzo 1933 segnando la fine del popolo moriori.
Tommy Solomon tuttavia è una figura molto importante nella storia e nella tradizione dei moriori e delle Isole Chatham, non solo perché fu l’ultimo superstite. Nato nel 1884 a Waikaripi, agli inizi del XX secolo dopo la morte della madre divenne un esperto nel commercio di pecore e utilizzò i terreni familiari appena ereditati trasformandoli in una fattoria che gradualmente divenne una delle proprietà agricole più importanti dell’arcipelago: possedeva più di 7000 pecore e una mandria di bovini. Durante gli anni Venti, Solomon diventò il proprietario terriero più famoso e di maggiore successo delle Isole Chatham, vivendo in condizioni decisamente più agiate rispetto agli altri sopravvissuti. Proprio per questa ragione svolse un ruolo attivo nella vita sociale e politica, ricordato per la sua grande generosità e la sua capacità conciliatoria. Morto di polmonite e conseguente attacco cardiaco, la sua bara venne costruita da Whati Tuuta, figlio dell’amico fraterno George Tuuta. L’importanza del ruolo di Tommy Solomon nella cultura e società moriori è testimoniata dalla costruzione nel 1986 di una statua in suo onore per commemorarlo, situata a Manukau, vicino alla sua vecchia fattoria.
Intorno alla figura di Solomon si sono sviluppate numerose leggende; la più significativa è sicuramente quella che narra come sia stato proprio suo padre, allora capo della tribù rauru, a convincere l’intero popolo dei moriori a rimanere pacifisti e a non violare il codice di Nunuku durante l’invasione del 1835. La morte di Solomon nel 1933 ha segnato l’estinzione del gruppo etnico, tuttavia oggi sia in Nuova Zelanda sia nelle Chatham vivono migliaia di persone di parziale discendenza moriori, spesso figli di donne delle Chatham, frutto di matrimoni misti con i conquistatori maori. L’arcipelago conta attualmente una popolazione di circa 600 residenti la cui maggioranza è formata da cittadini di origine europea, seguiti dai maori. La questione dei moriori è tornata alla ribalta nel 1980 grazie a un documentario andato in onda in Nuova Zelanda: la narrazione del genocidio accompagnata dal racconto delle antiche saghe mitologiche tradizionali ha risvegliato le coscienze, fino a quel momento totalmente sopite, di diversi discendenti “parziali” degli abitanti delle Chatham i quali hanno intrapreso numerose iniziative per la riaffermazione di un sentimento collettivo a livello di gruppo e culminate nella costruzione della statua in memoria di Tommy Solomon.
Nel 1994 altri discendenti dei moriori si sono rivolti al Tribunale di Waitangi, organo creato in Nuova Zelanda per accertare eventuali infrazioni del Trattato di Waintangi: 3) l’obiettivo era la richiesta di riconoscimento dell’identità violata di popolo abitante l’arcipelago delle Chatham, unito a un compenso per le perdite culturali e materiali. Nel 2001 dopo una precedente divisione politica in due differenti organizzazioni, i discendenti dei moriori hanno ritrovato la loro unità e compattezza formando l’Hikotechi Moriori Trust con il compito di cercare risarcimenti per le ingiustizie passate e inaugurare un processo di recupero del linguaggio, dei costumi e delle tradizioni degli antenati moriori. Altro obiettivo era quello di ricostruire un sostegno economico per il futuro delle Chatham insieme a un messaggio di pace e tolleranza, secondo l’esempio dei loro avi. Dopo intense battaglie politiche e legali, sono riusciti a ottenere un importante riconoscimento: la proprietà in condivisione delle risorse fornite dai pescosi bracci marini al largo dell’isola Chatham e dell’isola Pitt, passo fondamentale per ricreare una solida base economica nell’arcipelago.
La rinascita non ha visto soltanto azioni di tipo politico, tanto che si è addirittura parlato di un rinascimento culturale della tradizione moriori. Nel 1997 è iniziata la costruzione del primo centro culturale sull’isola Chatham; nel 2005 è stato inaugurato il Kopinga marae, il luogo pubblico polinesiano la cui figura ricorda, vista dall’alto, le ali di un albatros, elemento alquanto simbolico per la cultura locale, il cui nome si riferisce ai ripari nei boschi tra gli alberi di kopi dove i moriori erano soliti tenere i loro consigli; successivamente è stata edificata anche la Hokomenetai Meeting House, sempre a Rekohu.

moriori isole chatam genocidio -kopinga-marae
Il Kopinga marae, sull’isola Chatam. Questo “luogo di raduno” è stato inaugurato nel 2005 dal primo ministro neozelandese Helen Clark alla presenza di dirigenti maori e abitanti dell’arcipelago.

Uno scontro dall’esito inevitabile?

Il fatto che appare particolarmente tragico di tutta questa vicenda, oltre all’evidente crudeltà di alcuni momenti della conquista e successiva strage, è che entrambi i gruppi appartenevano allo stesso ceppo originario, anzi sostanzialmente erano il medesimo popolo. Quindi assume ancora maggiore rilevo il ruolo dell’ambiente e del conseguente adattamento dei differenti gruppi etnici, che nel nostro caso ha comportato la differenziazione dei due gruppi e la nascita del popolo moriori, una società per secoli fondata su valori unici e diametralmente opposti a quelli dei cugini. L’isolamento e la mancanza di contatti hanno poi approfondito la distanza culturale plasmando due popoli agli antipodi che, quando si sono incontrati, hanno affrontato l’evento in base ai propri usi e costumi tradizionali.
Dei moriori tolleranti e pacifisti che non potevano assolutamente permettersi di mettere in pericolo le proprie risorse, si è già detto; mentre è importante sottolineare come i maori provenissero da una terra densamente popolata, che permetteva loro di praticare l’agricoltura e goderne i benefici, ma imponeva alle varie tribù di cercare sempre maggiore spazio fisico in cui sopravvivere. Ecco perché i gruppi maori erano frequentemente in guerra tra loro: si trattava di una lotta per le risorse.
Il surplus alimentare fornito dalle migliorate tecniche agricole ha garantito una stratificazione sociale con fasce di popolazione in grado di dedicarsi ad altre attività, creando un’organizzazione forte e con ruoli ben definiti. Inoltre il contatto e il confronto con i coloni inglesi ha aiutato i maori a conoscere nuove tecnologie e l’utilizzo di nuovi strumenti; su tutti le armi da fuoco di cui, come suggerisce direttamente il nome, hanno usufruito nelle “guerre del moschetto”. 4)
La società maori si è così potuta ulteriormente sviluppare prendendo spunto da quella coloniale, avanzatissima: si è arrivati quindi al 1835, anno della spedizione, con una società evoluta e dalla tecnologia superiore, contrapposta a un’altra di cacciatori-raccoglitori che ignorava l’esistenza delle armi da fuoco e non praticava la violenza. L’esito della missione di conquista – poiché di questo si trattava – era dunque scontato, come in molte altre parti del globo quando si sono presentate situazioni analoghe.
Ma è possibile ridurre tutti questi tragici eventi a questioni climatico-ambientali e di necessario adattamento dei popoli, e nascondersi dietro motivazioni fondate sulla devozione e l’osservanza di principi radicati nella tradizione e nella cultura di un gruppo, la cui attuazione prevarica ogni altra contingenza? Sicuramente queste analisi forniscono una chiara spiegazione delle vicende storiche accadute nell’arcipelago delle Chatham non lasciando spazio ad altro, ma possono bastare a giustificare quello che si è connotato come un vero e proprio genocidio etnico di cui si è sempre parlato troppo poco? Probabilmente no: a ognuno di noi la sentenza definitiva.

 

N O T E

1) Diamond, J., Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 2005.
2) Diamond, cit.
3) Il Trattato di Waitangi fu stipulato il 6 febbraio 1840 tra la corona inglese e 40 capi delle tribù maori dell’Isola del Nord in Nuova Zelanda. La firma garantiva la cessione e il passaggio di tutti i poteri dei capi tribù alla corona e la nascita della colonia della Nuova Zelanda. I territori neozelandesi erano stati scoperti dal navigatore olandese Abel Tasman nel 1642, la presenza europea era poi cresciuta fino al tentativo di colonizzazione da parte inglese del XIX secolo, sfociato in una guerra con i maori. Per mettere fine al conflitto venne redatto il trattato che, nella sua stesura originale, proteggeva notevolmente gli interessi e le proprietà degli abitanti locali: in seguito si verificarono diverse violazioni tanto che i maori iniziarono a perdere gradualmente le loro proprietà e soprattutto i diritti loro spettanti.
4) Le “guerre del moschetto” furono una serie di conflitti tribali combattuti tra diversi gruppi maori tra il 1807 e il 1845. Si differenziano dalle altre lotte intestine tra tribù in quanto vengono considerate il prodotto diretto dell’influenza culturale europea.

 

BIBLIOGRAFIA