Intervista di Niram Ferretti de “L’Informale”.
Professore, la prima cosa che vorrei chiederle è inerente al suo impegno, promuovere alla Knesset il caucus intitolato alla vittoria di Israele. Può spiegare brevemente ai nostri lettori italiani quali sono i principali obbiettivi di questa iniziativa?
Lo scopo principale dell’ Israel Victory project è di convincere i palestinesi che la guerra che hanno lanciato contro il sionismo, lo Yishuv, Israele e gli ebrei è finta e che hanno perso. È arrivato il momento di vedere che questo conflitto è giunto al suo epilogo e fare calare il sipario su di esso. Come americano il mio approccio è quello di auspicare che l’attuale e il futuro presidente degli Stati Uniti dica agli israeliani “Fate ciò che vi compete all’interno di confini politici, morali e legali per convincere i palestinesi che hanno perso”. Mi auguro sia quello che gli israeliani faranno, poi potremo concentraci sui veri problemi del Medioriente, come la guerra civile siriana.
I palestinesi hanno veramente perso?
Sì, hanno perso. Vivono in un mondo di fantasie. Vivono in un mondo con una mappa che è quella del Mandato Britannico vecchia di un secolo fa, vivono in un mondo in cui l’Unesco stabilisce che la tomba dei patriarchi a Hebron è un sito storico palestinese, vivono in un mondo in cui Paesi stranieri foraggiano la loro economia, vivono in un mondo in cui gli attentatori suicidi vengono celebrati come eroi. È un mondo folle a cui è stato permesso di continuare fino a oggi e che ha danneggiato sia gli israeliani sia loro stessi. Una volta che avranno riconosciuto la sconfitta potranno procedere in modo da costruire la loro economia, la loro società e la loro cultura.
Nei cinquanta anni che sono seguiti alla Guerra dei Sei Giorni, gli arabi coadiuvati dall’inestimabile aiuto dei russi sono stati in grado di costruire una narrativa assai potente e persuasiva, la quale descrive i palestinesi come vittime e gli ebrei, gli israeliani, come oppressori. Non ritiene che Israele sia stato carente nel contrastare questa propaganda?
Indubbiamente. Chi, cento anni fa, avrebbe previsto che gli ebrei sarebbero stati dei grandi combattenti e gli arabi dei grandi pubblicisti? La narrativa vittimista palestinese in senso generale ha completamente sopraffatto quella israeliana fatta, per citare Abba Eban, “di creazione gioiosa, di sovranità restaurata, di un popolo riunito, di una terra rivitalizzata, di democrazia stabilita”.
Dopo l’elezione di Donald Trump, molte persone qui in Israele hanno pensato che ci sarebbe stato un grande cambiamento, tuttavia, malgrado un atteggiamento molto più amichevole rispetto a quello di Obama, sembra che la direzione che questa amministrazione sta seguendo sia quella tradizionale, i negoziati con i palestinesi su un piano di parità. Qual è la sua opinione?
Il cambiamento più rilevante è avvenuto alle Nazioni Unite dove Nikki Halley è una portavoce straordinaria per un cambiamento della politica americana e onusiana nei confronti di Israele. Per quanto concerne i palestinesi e gli israeliani, vi è chiaramente un ritorno al solito processo negoziale tra le due parti su un piano di simmetria, ma è poco chiaro quale sia la sostanza. C’è sicuramente una differenza rispetto agli anni di Obama, ma c’è differenza rispetto a quelli di George W. Bush e di Bill Clinton? Non lo sappiamo. Stanno ancora formulando la politica da seguire. Mentre stiamo parlando, Jason Greenblat [l’inviato americano in Medioriente] sta facendo qui un giro di consultazioni con l’ambasciatore americano, i palestinesi e, ovviamente, il governo israeliano. Quindi siamo in una fase definitoria, stanno dando corpo alla direzione da prendere. Non sono in grado di dire quale sarà la differenza. Il processo è simile a quello consueto, ma probabilmente sarà piuttosto diverso nella sostanza.
Gli Accordi di Oslo degli anni ‘90, sostenuti da Shimon Peres e Isaac Rabin, hanno creato le condizioni per la Seconda Intifada la quale è costata a Israele più di mille vittime. Ad Arafat gli accordi non fecero altro che mostrare la debolezza di Israele. Non è abbastanza chiaro a oggi che per gli arabi i negoziati sono solo un modo di lucrare sul tempo e una prova di debolezza da sfruttare?
Sì, e credo che sia molto chiaro a una significativa maggioranza degli israeliani, tuttavia non è chiaro al resto del mondo. Molti pensano che il 13 settembre del 1993 Arafat e i palestinesi abbiano accettato Israele e che il problema sia nei dettagli, in altre parole, si tratterebbe solo di impegnarsi di più. Non è così. Quello di Arafat a Oslo fu un inganno. La maggioranza dei palestinesi, l’80%, continua a non accettare Israele. Non c’è alcuno sforzo da parte dell’Autorità Palestinese né da parte di Hamas di modificare questa percezione, al contrario, vogliono portare il rifiuto di Israele al 100%. Non hanno ottemperato alla loro parte dell’impegno, ma continuano la loro lotta fallimentare per la “rivoluzione fino alla vittoria”. Rifiutano completamente Israele e desiderano portarlo sotto il proprio controllo. Non si vede praticamente mai una mappa della West Bank, si vedono sempre mappe in arabo della Palestina mandataria, e questo ci rivela quale sia la loro concezione, non di uno stato accanto a Israele, ma di uno che lo rimpiazzi.
In una intervista avuta con Mordechai Kedar, tra le molte cose che mi ha detto, una in particolare mi ha colpito. Per lui la distinzione accademica occidentale tra islam e islamismo è un costrutto artificiale del tutto alieno al modo di pensiero musulmano. “I musulmani”, sostiene Kedar, “sono teoreticamente divisi in due categorie: quelli che credono nell’islam e lo agiscono solo su se stessi e quello che cercano di imporlo agli altri”. Condivide questa opinione?
È una distinzione interessante e utile, ma non rimpiazza la distinzione tra islam e islamismo. I musulmani islamisti desiderano tornare indietro ai giorni di gloria di mille anni fa quando il Cairo, Baghdad e Damasco erano grandi città, quando i musulmani erano i più ricchi, i più potenti. Per loro l’applicazione della legge islamica è il modo di tornare a quei fasti. L’esempio più recente di questo fenomeno è l’ISIS. Altri islamisti seguono lo stesso percorso in modo meno estremo ma con il medesimo obiettivo. È quello che sta facendo Erdogan in Turchia più cautamente e lentamente, ma anche lui minaccia le decapitazioni. Ovviamente non tutti i musulmani sono islamisti, in altre parole, per loro l’applicazione della sharia non è il modo di diventare ricchi e potenti. I musulmani anti-islamisti sono la speranza per il futuro.
Quello che è andato svolgendosi qui in Israele per circa un secolo non è parte di un conflitto molto più ampio, che vede uno scontro tra l’islam nella sua forma più radicalizzata e lo stile di vita occidentale con il suo sistema di valori e la sua idea di civiltà?
Quattro distinti movimenti hanno ispirato gli arabi contro il sionismo: in ordine cronologico si tratta del pansirianismo, del panarabismo, del palestinismo e dell’islamismo. Dunque solo una parte del conflitto arabo-israeliano è collegata all’islamismo. Il movimento islamista ha avuto origine in Egitto, Iran e India negli anni Venti e, in quanto italiano, forse saprà che Mussolini fu una importante ispirazione, specialmente in Egitto. Il sogno di rinvigorire l’antico splendore attraverso il potere dello Stato e il militarismo ispirò molti musulmani. Questo progetto ha acquisito forza nell’arco dell’ultimo secolo. Si tratta di un nuovo movimento, di un “ismo” nello stesso modo in cui lo sono il socialismo, il fascismo, il liberalismo. Abbiamo a che fare con una forma moderna di islam che ha i suoi antecedenti, ma che è moderna nella sua essenza. Per esempio, nell’ambito dell’economia l’islam medioevale aveva solo nozioni rudimentali. Gli islamisti hanno tradotto delle semplici regole in trattati elaborati. L’economia islamica è un aspetto innovativo dell’islam.
L’islam si autointerpreta come la prima e definitiva religione dell’umanità, che ha soppiantato sia ebraismo sia cristianesimo. Dalla sua origine si è trattato di un sistema teopolitico che ha diviso il mondo in due sfere confliggenti, il Dār al-Islām e il Dār al-ḥarb, la Casa dell’Islam e la Casa della Guerra. Come possiamo realisticamente ritenere che, date queste premesse, esso possa convivere pacificamente con le società occidentali?
Da un punto di vista moderno l’islam ha molti aspetti problematici. Due dei maggiori sono esemplificati dalle relazioni tra i musulmani e i non musulmani e da quelle tra uomo e donna. In entrambi i casi, dal punto di vista di oggi, sono fortemente arretrate. La buona notizia è che tutte le religioni sono prodotti umani e cambiano nel corso del tempo. L’islam è ciò che i musulmani ne fanno. Nelle parole di un filosofo egiziano, “L’islam è come un supermarket, puoi prendere quello che vuoi”. L’islam cambia continuamente. Nel corso della mia carriera l’ho visto passare da una versione più moderata a una versione più estremista, ciò implica che può anche diventare più moderato. Noi non musulmani dobbiamo lavorare contro gli islamisti e aiutare gli antiislamisti. È ciò che costituisce molta parte del mio lavoro. Lo riassumo in uno slogan; “L’islam radicale è il problema, l’islam moderato è la soluzione”.
Vedo il movimento islamista raggiungere un picco nel 2012 e doversi confrontare ora con problemi profondi. Sì, ha ancora molto successo, particolarmente in Turchia, ma non è popolare tra la gente che lo subisce. Queste correnti sono ben esemplificate in Egitto, con la rivolta di quattro anni fa, in Siria e con la lotta tra sciiti e sunniti. Come tutti i movimenti totalitari moderni, ritengo che gli jihadisti islamici andranno incontro a un fallimento.