Ovviamente, provenendo da ambienti interessati all’Africa in quanto fonte di affari e profitto, la notizia veniva data avvolta in un alone positivo, ottimistico.
Per la serie delle “magnifiche sorti e progressive”.
Mi riferisco all’ulteriore asfaltatura delle strade in Camerun prevista per il 2023.
Ma facciamo qualche passo (a piedi, ça va sans dire) indietro.
È ormai risaputo, se non proprio universalmente almeno tra gli “addetti ai lavori”, che in Africa di incidenti stradali si muore più che per l’aids. Come confermano certi ambienti missionari di mia conoscenza la cui frequentazione con il Continente Nero (o “Vero” come si va diffondendo in ambienti moderatamente progressisti) è ormai secolare.
Statisticamente qui si registrano più incidenti che in ogni altro continente. E il tasso medio di mortalità stradale (dati dell’oms) sarebbe di 26,6 morti ogni 100.000 abitanti (il triplo rispetto all’Europa). Riesce a far peggio solo la Repubblica Dominicana. Seguita da una lista di ben 24 Paesi africani.
Tra i primi: Zimbabwe, Malawi (nel 2018 un camion era piombato sul mercato di Kampepuza uccidendo oltre 20 persone), Liberia, Eritrea, Uganda… ma anche Kenya (12esimo posto, 48 morti ogni 100.000 abitanti), Nigeria, Egitto e Sudafrica non scherzano.
In Sudafrica, per dire, nel 2022 ci sono state circa 22,7 vittime ogni 100.000 abitanti, nonostante da anni sia attiva una campagna (“Be safe – get there”) per “arrivare vivi”. Mentre in Nigeria (41.709 vittime sulle strade tra il 2013 e il 2020) come causa di morte è allo stesso livello del banditismo e degli attacchi jihadisti.
Fermo restando che presumibilmente anche in Africa chi muore dopo qualche giorno o qualche settimana, sebbene la causa principale sia l’incidente, non rientra nel calcolo complessivo, rimanendo statisticamente classificato tra i “feriti”.
Tra le cause, l’alcol (forse la principale), la mancanza di rispetto per la segnaletica e l’eccesso di velocità. Al solito, non si considera adeguatamente, tantomeno si cerca di quantificare, l’incidenza dell’uso del cellulare o di altri marchingegni analoghi durante la guida. Oltre naturalmente alla cronica corruzione per cui le infrazioni al codice della strada spesso si possono sanare pagando direttamente l’agente.
Quanto all’obiezione in merito al “cattivo stato delle strade”, in diversi casi sterrate, si tratta – a mio avviso ovviamente – di un falso. In realtà l’eventuale asfaltatura… sempre che non serva a ricoprire quantità industriali di rifiuti tossici (ricordate in Somalia all’epoca di Ilaria Alpi? Altro che la nostra A31!)… servirebbe soltanto a incentivare la velocità e quindi i rischi di incidenti più o meno mortali.
Invece, come dicevo all’inizio, è stato commentato positivamente il recente annuncio (conferenza semestrale dei capi dei servizi centrali e decentrati del ministero dei Lavori pubblici del Camerun) del ministro Emmanuel Nganou Djoumessi. Ossia la prossima asfaltatura di oltre 700 km di strade in Camerun entro il 2023.
Quasi quanto quelli asfaltati nel 2021 (778,6 km) e più del doppio di quelli (395) del 2022.
Più o meno contemporaneamente giungeva la notizia di quello che probabilmente resta il peggior incidente nella storia del Camerun.
Il 25 gennaio 2023, verso le tre di notte, ben 53 persone perdevano la vita (un numero destinato ad aumentare in quanto risultano anche una trentina di feriti in gravi condizioni) non lontano dalla città di Dschang lunga una strada con molte curve. Qui un autobus delle linee urbane si era scontrato con un furgone utilizzato per trasportare carburante. Nell’incendio immediatamente divampato i corpi delle vittime venivano letteralmente divorati dalle fiamme e resi irriconoscibili. Tra le ipotesi, un cattivo funzionamento dei freni del furgone, la scarsa visibilità e – ovviamente – la velocità eccessiva. Problemi che difficilmente si potrebbero risolvere ricoprendo la strada d’asfalto (tra l’altro, osservando le foto, in molti tratti sarebbe già asfaltata).
Altra strage su un’arteria stradale africana (anche in questo caso già asfaltata in quanto autostrada, la Kano-Zaria), quella del 6 gennaio in Nigeria. Confermato il decesso pressoché immediato di 19 persone. A cui da allora se ne saranno sicuramente aggiunte altre in quanto quelle gravemente ferite erano almeno una trentina.
Stando alle dichiarazioni di frsc (Federal Road Safety Corps) si sarebbe trattato di uno scontro frontale tra due autobus. Sempre a causa dell’alta velocità e anche in questo caso i veicoli si sono immediatamente incendiati.
Da un articolo di Edward Duncan e Isabelle Uny apparso circa tre anni fa su “The Conversation”, si apprendeva che “gli incidenti stradali rappresentano l’ottava causa di morte al mondo” e che “la stragrande maggioranza di questi decessi avviene in Paesi a basso reddito come quelli dell’Africa subsahariana”. Pur essendo questi Paesi quelli “con le percentuali più basse in termini di veicoli posseduti per ogni abitante”.
Inoltre, spiegavano i due esperti, “qui gli incidenti stradali hanno un impatto maggiore rispetto a malattie mortali come la malaria, la tubercolosi e – in alcune zone – l’hiv e l’aids”. Anche nell’Africa sub-sahariana – lo davo per scontato – la maggior parte delle vittime stradali “sono pedoni, ciclisti e motociclisti, dato che per molti camminare e andare in bicicletta restano gli unici mezzi di trasporto a disposizione”.
Surreale però la successiva affermazione (da cui traspare un certo “stupore”, tutto occidentale) per cui sarebbe “una cosa normale vedere bambini, adulti e anche venditori ambulanti camminare lungo i bordi delle strade estremamente trafficate”. Scusate, ma proprio non capisco. Perché camminare lungo le strade non dovrebbe essere “normale”? Dove dovrebbero andare? “A campi”? In giro per la savane? Evidentemente mi sono perso qualcosa.
Duncan e Uny denunciavano poi le carenze in materia di pronto intervento, pronto soccorso, cure mediche e riabilitazione. Per cui, ma era prevedibile, “molti dei feriti poi muoiono” (anche se, aggiungo, presumibilmente non rientreranno nelle statistiche).
Tralascio per ora di approfondire altri aspetti della questione.
Come la relazione, già documentata, tra lo sviluppo della viabilità e la diffusione dell’aids (in particolare grazie alle camionabili, dove migliaia di povere donne, spesso abbandonate con figli, si prostituivano agli autisti che poi, viaggiando su gomma, portavano l’infezione a centinaia di chilometri). Oppure le stragi di bambini lungo le piste della Parigi-Dakar (quelle del percorso originario dove, pare, non sarebbe più gradita agli indigeni).
Ma concludo dicendo che se i progetti onusiani di una capillare, diffusa educazione stradale rappresentano comunque un atto di buona volontà, insistere ulteriormente sull’omologazione al modello occidentale (più strade e autostrade asfaltate = più auto private) mi sembra non solo inutile, ma controproducente.
Ovviamente spetterà alle popolazioni interessate decidere. Sempre che sia loro consentito.