Non è sempre facile stare “sul pezzo” degli avvenimenti o celebrare con tempismo gli anniversari dei personaggi che hanno fatto la storia. Nonostante questa contestualità mancata, non mi esimerò dal fare un passo indietro (di un anno) per ricordare un uomo che, nella sua breve vita, ha dimostrato come l’esistenza si misuri in qualità e non in quantità.
Il 17 settembre 2021, a cent’anni dalla nascita di Aldo Gastaldi, è stato presentato dal regista Marco Gandolfo un commovente documentario sul partigiano cattolico, nome di battaglia “Bisagno”, dal fiume di Genova. Quindi, il 19 settembre, è stata scoperta sulla sua casa natale una targa commemorativa benedetta dall’arcivescovo di Genova, Marco Tasca. Erano presenti don Nicola De Virgilio – da vent’anni parroco dell’antica chiesa di Santa Maria Assunta di Granarolo – la sorella Teresa di 93 anni e altri parenti di Bisagno, alcuni ancora residenti a Granarolo.
Nel corso della cerimonia, il nipote Aldo ha parlato dell’integrità morale e della fede dello zio di cui porta il nome: “La nostra famiglia non è qui per proporvi un mito. Nei miti spesso la bellezza e la verità di un vissuto vengono con il tempo lentamente annegate per dare luogo a idoli costruiti a misura di miseria umana. Sono qui per parlarvi di un uomo che basò la sua vita, sin dalla prima gioventù, sulla verità e radicalità del Vangelo”.
Per l’amministrazione erano presenti il sindaco Marco Bucci e il presidente del municipio Michele Colnaghi, anche se la giunta municipale ha fatto il minimo sindacale per onorare la memoria del partigiano cattolico.
A più alti livelli, per fortuna, il cardinale arcivescovo emerito di Genova, Angelo Bagnasco, il 31 maggio 2019 nella sede dell’Azione Cattolica, aveva provveduto a rendere noto l’editto per l’apertura del processo di beatificazione che secondo l’iter canonico ha dichiarato Gastaldi Servo di Dio. Nella stessa sede, l’arcivescovo aveva chiesto di far pervenire al Tribunale Ecclesiastico Diocesano e all’avvocato Emilio Artiglieri, postulatore della causa, le testimonianze (diari, lettere e scritture private) per trarre elementi sulla santità di Bisagno. Ricordato come “primo partigiano d’Italia” e degno dell’onore degli altari dalla vox populi e dalla Chiesa locale, fin da quando era in vita, praticò eroicamente le doti umane e le virtù cristiane teologali e cardinali.
La spada e la croce
Il partigiano apartitico Aldo Gastaldi nasce a Rivarolo (Genova) il 17 settembre 1921 nel borgo di Granarolo, sulle alture tra San Teodoro e (all’epoca) San Pier d’Arena. Primo di 5 figli, cresce in una famiglia semplice: suo padre era un grande invalido della prima guerra mondiale e la madre, Maria Giulia, casalinga. L’educazione cattolica dei figli è stata la loro missione. Il 29 maggio del 1930, nella chiesa di Granarolo riceve la Santa Comunione e fa propria la fede dei genitori che lo accompagnerà durante la sua breve vita. Diplomato perito elettrotecnico all’Istituto Tecnico Galileo Galilei, per un breve periodo è impiegato all’Ansaldo di Sestri Ponente. Fisico atletico, rugbista nel ruolo di pilone, pratica il canottaggio, ma la sua vera passione sono la montagna e le camminate.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Aldo Gastaldi fu chiamato alle armi nel genio di Casale Monferrato poi, il 15 agosto del 1942, venne promosso sottotenente nel XV Reggimento Genio nella caserma di Chiavari. Giovane ufficiale, il giorno dopo l’armistizio, il 9 settembre del 1943, si rifiutò di passare alla Repubblica di Salò e di schierarsi a fianco dei tedeschi. Mentre una nazione veniva abbandonata dal suo stesso monarca, con relativa dissoluzione del Regio Esercito lasciato allo sbando, molti italiani responsabili non cedettero le armi e continuarono la giusta battaglia. Gastaldi, non abbandonò i suoi uomini: li tenne uniti e con loro partì per la montagna per fare il partigiano.
Bene ha fatto il cardinale Bagnasco a istruire l’iter per la beatificazione di questo giovane dalle virtù cristiane. Per i cristiani di oggi, poveri di spiritualità, vale ben più l’esempio che Dino Lunetti, suo cugino e partigiano, ci ha lasciato degli scritti di Aldo sul rapporto tra l’uomo in battaglia e una fede senza limiti, piuttosto che le inutilissime marce della pace. “Gesù che scaccia i mercanti dal Tempio” è l’insegnamento virile da dare ai giovani, anziché uno sterile pacifismo “arcobaleno” di maniera.
Cichero
Detto ciò, entriamo nel merito del “caso Bisagno”. Egli, insieme con Giovanni Serbandini “Bini”, Franco Antolini “Furlini” e Umberto Lazagna “Canevari”, formò il gruppo di partigiani del monte Ramaceto. Entrato nella Resistenza, diventò comandante (e sembra impossibile che, a quell’età, possa aver assunto un ruolo così rischioso) della Banda “Cichero”, una delle divisioni Garibaldi della Liguria controllata dai comunisti, muovendosi nel territorio ligure a ridosso della provincia di Piacenza. La brigata aveva un servizio religioso, un cappellano e una preghiera: “Vergine Maria, Madre di Dio, rendimi un patriota intelligente e onesto nella vita, intrepido nelle battaglie, sicuro nel pericolo e generoso nella vittoria”.
Aldo adottò un codice di comportamento basato sull’esempio: “Il capo deve mangiare per ultimo, addormentarsi quando si è accertato che tutto sia in ordine e funzioni, abbia i turni di guardia più gravosi, non bestemmi, non molesti le donne, non requisisca senza pagare il dovuto e divida con i compagni tutto”. La sua figura si guadagnò il rispetto dei suoi uomini e degli avversari: per i prigionieri e in primis per le donne dimostrò compassione, diventando in pochi mesi il comandante partigiano più amato della Liguria.
Capace di macinare chilometri sui sentieri montani e nei boschi pur di trovare una chiesa e un prete per confessarsi e comunicarsi, ebbe la certezza che comportandosi con rettitudine l’aiuto di Dio non sarebbe mai mancato.
Distingueva tra il “peccato” (il metodo fascista) e i “peccatori” (ossia i fascisti in persona, che riteneva traviati da redimere). Diceva: “Sono venuto in montagna per combattere il metodo fascista, non i fascisti in quanto tali. E lo combatterò ovunque lo riconoscerò, che sia tra bianchi, rossi o neri”, seguendo così l’insegnamento sociale della Chiesa laddove, di fronte alla tirannide e all’oppressione, essa ammette la legittimità della resistenza attiva, in armi.
Riuscì anche a compiere un miracolo: convinse il battaglione alpino Vestone della divisione Monterosa, appartenente alla Repubblica Sociale, a passare alla Resistenza.
Nel dicembre del 1944 partì un rastrellamento contro la Cichero, ma i nazifascisti non riuscirono a scovare i partigiani: si erano volatilizzati e non si capiva come avessero fatto. La tattica di “Bisagno” aveva anticipato i vietcong: aveva fatto costruire delle buche sotterranee, nelle quali i partigiani erano rimasti per dieci giorni in attesa che i fascisti si allontanassero. In gennaio le brigate della Cichero tendevano di nuovo imboscate contro georgiani e turkestani – che combattevano in uniforme tedesca – annientandoli.
Apartitico, don Aldo Gastaldi si mostrò contrario alla politicizzazione strumentale della lotta di liberazione e nelle sue file vietò la propaganda ideologica. Entrò in collisione con il CLN, soprattutto con i comunisti, per aver chiesto al Corpo volontari della libertà di abolire la figura dei commissari politici. Personaggio scomodissimo per chi nella Resistenza vedeva l’occasione di portare il bolscevismo in Italia, era considerato d’ostacolo alla cooptazione delle giovani leve nel progetto rivoluzionario, già prefigurato, una volta terminata la guerra.
Egli chiese di affidare l’ordine pubblico alla 92esima divisione di fanteria americana, o alla polizia militare, per evitare i soprusi di quella “partigiana”: a Genova, a causa delle vendette e dei regolamenti di conti, vennero uccise dopo processi sommari 800 persone, di cui 456 erano civili e 71 donne.
Gastaldi sapeva fare la guerra pesando al minimo sulla popolazione, cercando di sottrarla alle requisizioni di derrate alimentari o di bestiame durante i rastrellamenti dei nazifascisti. Parimenti, eliminò quei gruppi di partigiani che infestavano il territorio comportandosi da veri e propri briganti.
Gli effettivi aumentavano e, nel febbraio 1945, i comunisti divisero in due la Cichero per esautorarlo. S’innescò un clima di tensione, quasi uno scontro armato: i suoi fedelissimi, con le armi spianate, si schierarono a difesa del comandante, ma vennero fermati dal suo intervento pacificatore. Gastaldi mantenne il comando, ma avvertì che la sua vita era in pericolo. In una lettera scrisse: “Continuerò a gridare contro chiunque e ogni qual volta si vogliano fare delle ingiustizie, anche se ciò dovesse causarmi disgrazie”.
Il mistero della morte
Il periodo sul finire della seconda guerra mondiale e della Liberazione si contraddistingue per i molti misteri, a partire dalle morti inspiegabili dei partigiani non comunisti. Uno dei casi irrisolti fu proprio la tragica fine di Bisagno. Avvenne il 21 maggio 1945, quando aveva quasi 24 anni, a un mese dal 25 aprile: ciò ha dato origine a diverse ipotesi.
Il 19 maggio, dopo la liberazione di Genova, Bisagno partì per la zona a nord-ovest del Garda su un camion Fiat 666 con rimorchio insieme al partigiano Dorino Cappelli “Dorino”, l’autista Ettore Filipazzi, una trentina di alpini, e un tizio del quale si persero le tracce e che resta ignoto. Stava riaccompagnando ai loro paesi i partigiani del bresciano e della zona del Garda, e gli ex alpini della divisione Monterosa della RSI che, si è detto, avevano disertato per unirsi a loro grazie a Bisagno. Per quanto questi ultimi si fossero battuti contro i nazifascisti, egli temeva vendette contro chi aveva prima militato tra i nemici.
Lasciati alle loro destinazioni questi ragazzi, ritornarono verso Genova. A un certo punto, un camion militare alleato tagliò la strada al loro veicolo. Per evitarlo, l’autista sterzò bruscamente. Bisagno, seduto sul tetto della cabina (“per godersi il panorama”, dissero), perse l’equilibrio e cadde sulla strada, finendo sotto una ruota dell’autocarro.
Un’altra versione dei fatti insinua invece che, durante una sosta di ristorazione, un misterioso signore di Piacenza gli avrebbe offerto una mistura di caffè. “Egli, dopo averne bevuto qualche sorso, cominciò a non sentirsi bene”. Se la versione può sembrare strana, è sostenuta però dal comportamento inspiegabile assunto subito dopo aver ingerito la bevanda. Prima Gastaldi aprì una borsa a tracolla, da cui non si separava mai, contenente documenti riservati, poi si diede a distribuire le carte, insieme a banconote, mettendosi a cantare. A un certo punto salì senza un motivo sul tettuccio dell’autocarro, dove non c’era alcun appiglio, e cadde.
Esiste un’altra versione della dinamica del sinistro: l’autista del Fiat 666 avrebbe azzardato un sorpasso nei confronti di un camion di tedeschi che lo precedeva, provocando la caduta di Bisagno.
Tuttavia, il punto dell’incidente individuato dal giornalista Pier Lorenzo Stagno e la strada molto stretta sembrano escludere che l’autista abbia tentato di sorpassare.
In ogni caso, Bisagno fu trasportato all’ospedale di Desenzano, dove morì.
I cappellani di Marassi raccolsero voci su un suo assassinio dai partigiani in carcere, traditi dai compagni, e divulgate dal cappellano della Cichero, Giacomo Sbarbaro detto “Don Gigetto” il quale, accusato dal CLN di essere un fascista, fu “invitato” a non farsi mai più vedere.
Di cosa si trattò dunque? Di un fatto accidentale o di un omicidio “politico”? La versione ufficiale della morte, derubricata come “fortuito incidente stradale”, parrebbe la più verosimile, ma non è affatto esente da dubbi. Per esempio, perché portare il comandante a Desenzano anziché a Bussolengo? Come mai, nonostante l’intervento dei carabinieri, nessuno sapeva che l’ospedale più vicino era proprio quello di Bussolengo a 14 km di distanza, e non quello di Desenzano a 28?
La salma giunse nella serata del 21 maggio a Genova. La notizia della morte venne diffusa solo la sera successiva sui giornali della Democrazia Cristiana e del Partito d’Azione. Gli altri quotidiani dettero la notizia la mattina del 23 poco prima dei funerali. “L’Unità” fu precisa nel descrivere i fatti, indicando anche l’ora dell’incidente: le 9.30 del mattino.
Agli atti, oltre alle testimonianze di Dorino e Barbera, sembra non esistere un verbale dell’interrogatorio di Filipazzi, così come degli altri sul 666. Per quanto riguarda le ricerche della droga nella borraccia, i carabinieri, limitandosi a fare una ricerca empirica con i mezzi di allora, non ne trovarono. Non vi fu alcun esame autoptico. O meglio, un tentativo fu fatto dall’amico Massai, che si accordò con il fratello di Bisagno per sottoporre il corpo del comandante ad autopsia, ma il fratello (minacciato?) decise con il senatore Raimondo Ricci, presidente dell’ANPI, di non procedere all’esame. Elvezio Massai per protesta nei confronti degli organi resistenziali diede le dimissioni dall’ANPI
Massai, nome di battaglia “Santo”, medaglia d’argento al valor militare e comandante del distaccamento Alpino, compagno di scuola, amico d’infanzia e fedelissimo di Aldo, ne descrive le gesta nel libro del 2004 scritto insieme al giornalista Pier Lorenzo Stagno, Bisagno. La vita, la morte, il mistero, avanzando anch’egli dubbi sulla sua morte.
Non sono in grado di dire se oggi la riesumazione del corpo di Bisagno, attraverso un’autopsia e con gli attuali strumenti della patologia forense, potrebbe fornire qualche chiarimento. Ai fini dell’iter per la beatificazione, comunque, stabilire la verità dei fatti avrebbe un enorme valore. Se venisse provato l’avvelenamento, il procedimento ecclesiastico avrebbe una evoluzione fino al riconoscimento del martirio in odium fidei.
Le circostanze della morte improvvisa di questa figura nobile della lotta per la Liberazione dai nazifascisti, nel fiore degli anni, furono difficili da accettare per i suoi compagni e per le popolazioni delle valli liguri. Ai funerali, celebrati a Genova nella parrocchia di Nostra Signora della Consolazione, partecipò una folla che accompagnò Aldo al camposanto di Staglieno dove fu sepolto: qui riposa dal 2005 nel Pantheon dei grandi. Gli è stata dedicata una medaglia al valor militare, oltre a vie, piazze e scuole. È importante conservare la sua memoria affinché il suo sacrificio sia un contributo per i giovani; e se un giorno venisse elevato all’onore degli altari darà lustro, che lo vogliano o meno, a tutta la Resistenza.
Grazie a Bisagno possiamo dare una lettura diversa del mito unitario su cui poggia l’immagine della Liberazione, o della narrazione a senso unico, ideologizzata, dei vari istituti storici della Resistenza.