Una puntuale e approfondita analisi dei preziosi affreschi policromi che adornano le luminose facciate nella valle di Ljetzan: un patrimonio che affonda le proprie radici in tempi lontani, espressione di un universo culturale variegato e ricchissimo, pericolosamente minacciato dallo stravolgimento degli insediamenti e dagli anonimi e vuoti modelli della “civiltà italica” dei nostri giorni.
Se è nelle pietre che più originale ed irripetuto il linguaggio dei popoli della Lessinia articola il messaggio della propria concezione del mondo, quanto mai libero da modelli e prefigurazioni esogeni, tuttavia anche nel campo della figurazione pittorica murale un vasto movimento culturale si è tra questi monti anticamente sviluppato. Anonimi artisti, portavoce di disinibita espressività popolare hanno dato forma e colore, sulle assolate facciate, a policrome immagini, dimostrando assoluta indipendenza e nessuna soggezione nei confronti dell’arte colta cittadina che per qualche secolo ha fatto di Verona una fantasmagorica “urbs pictà”. Questo stesso fatto di non temere confronti, perché pone la propria arte ineliminabilmente legata al suo contesto, evidenzia ancora una volta la persistente coscienza di una precisa identità culturale che per ciò stesso non ha necessità di confrontarsi per esistere, così com’è organica e naturale al mondo e al sito ove sorge, espressività di quel luogo, di quella gente e solo di ciò congrua. Non dunque imitazione in sedicesimo di arte colta, ma espressione di un universo culturale specifico, nell’uso di segni che creano multiple centralità nell’ambiente, che riconoscono in ogni casa il fulcro di un microcosmo reale. Eppure questi dipinti probabilmente indicano un lungo conflitto, una protratta dicotomia nell’inconscio popolare, una non risolta dominanza ideologica, se fino a tempi piuttosto recenti nuove manifestazioni di questa arte hanno trovato necessità di esistere, anche al di là del loro messaggio estetico e decorativo. Essi possono stare a significare che ad un certo punto della storia di queste genti il “soprannaturale”, nella sua forma cristiana più bonaria- la maternità con la promessa alla vita che è il bambino -, viene posto prima a protezione poi a sublimazione di un rapporto tra l’umano e il naturale che era già prima di continuità, se non di compenetrazione.
Se da un lato, dunque, il fiorire di immagini sacre sulle case può considerarsi affermazione di un proprio autonomo esistere culturale, dall’altro può essere letto come sovrapposizione di un discorso cristiano, formulato nella sua espressione più innocente e vicina alla naturalità della vita, tendente alla rimozione di una concezione spiritualista della natura, ancora largamente presente e radicata nelle antiche popolazioni. Il passaggio in Lessinia di S. Carlo Borromeo, non precisamente documentato ma probabile e comunque origine di innumerevoli leggende1, il Concilio di Trento (destinazione finale del viaggio del Santo) e le risoluzioni in esso adottate contro gli spiriti buoni e cattivi, incatenano le amiche “fade” e gli “orchi” ai recessi della montagna, li tolgono ai boschi e alle valli ove la fantasia e la cultura di queste genti li avevano posti a impersonare e dare anima all’imperscrutabile mistero della natura viva. Ufficialmente dunque essi vengono banditi e forse le immagini sacre da lì cominciano e di ciò dovevano essere suggello: ma quelle stesse figure dipinte, trasfigurando il proprio immediato significato ecclesiale, certificano l’esistenza di questo mondo naturale popolato di significati e di sensi, e loro stesse, immagini di fertilità, ne fanno parte. Del resto troppo solido e basilare è in questi siti il rapporto tra uomo e natura, considerata madre e non matrigna: i complessi ritmi dell’una sono i ritmi dell’altro, i suoi frutti ogni volta un miracolo, quotidianamente l’uomo la conosce, non può farne a meno, ne esperisce l’inesauribile molteplicità e solo con un procedimento può ricondurla a un principio astratto.
Così nel fantastico popolare gli spiriti, le fate e gli orchi, che sono amici, generosi, saggi, burloni, solo qualche volta dispettosi, mai terribili, in alcuni casi amati al punto da dividerne la sorte, sopravvivono ai secoli e giungono a noi attraverso le innumerevoli storie e leggende tramandate oralmente nelle lunghe notti dei filò. Modesto è infatti in questa tradizione, che a buona ragione possiamo chiamare letteraria, il peso della novellistica cristiana, limitata per lo più a quanto entra in relazione con le storie su S. Carlo Borromeo, o a qualche reinterpretazione, a volte eccezionalmente penetrante, di ritualità religiose2, incentrate sempre e comunque sul reale vissuto del mondo contadino di montagna.
Così le frequenti “Madonna con Bambino” nelle luminose facciate, inquadrate su accesi sfondi chiari, dagli ingenui volti distesi e rotondi, dal colorito roseo, dagli abiti a vivaci colori, quasi pronte ad un incipiente camminare tra questi luoghi da sempre amici, trovano riscontro tra la gente e si diffondono forse perché sono la trasposizione della madre terra, la solare e aperta fiducia nella natura amica che conduce per mano. La Madonna, dunque, risulta quasi sempre il fulcro della rappresentazione pittorica religiosa sulle case contadine della Lessinia; altre figurazioni possono essere di contorno, ma mai appare una concezione punitiva e tanto meno terroristica della vicenda umana e della lettura che di essa ne dà la religione. A fianco della luminosa figura femminile troviamo spesso una policroma meridiana, che illeggiadrisce ulteriormente le belle facciate e ricorda silenziosamente il tempo che fugge, il caldo sole che presto tramonta. Decimati dall’incuria e da «ammodernamenti» edilizi che ne hanno comportato una colpevole distruzione (quanti giacciono sotto coltri di recenti intonaci, magari plastici?), tracce di affreschi si trovano ancora distribuite in tutta la Lessinia. Per numero di esemplari ancora rilevanti e per la loro particolare ricchezza figurativa, quelli siti lungo il corso della valle di Ljetzan-Giazza costituiscono un particolare ed eccezionale patrimonio storico ed artistico. Con frequenza inusitata punteggiano, con le loro ormai tenui e dilavate espressioni coloristiche, frequenti gruppi di case, nuclei, contrade: segnano come un ideale sentiero che porta al cuore della terra cimbra, la parte più romita della valle ove sopravvive integra di quella cultura una delle componenti fondamentali: la lingua (il Taucias Gareida).
E proprio a Ljetzan-Giazza troviamo ancora esistente l’espressione forse più complessa ed originale di questo linguaggio figurativo nella facciata affrescata di una casa in via Sagauran. L’estesa figurazione, a numerosi riquadri e oggetti dipinti, tali da riempire quasi l’intera parte alta della facciata principale, rivolta a sud, impreziosisce il già curato disegno del fronte e dei particolari architettonici. Centrale è l’immagine della Vergine col Bambino, incoronata da piccoli angeli, e sovrastata da un ampio drappeggio. Essa qui appare in trono, le fa da sfondo un grande velo di pizzo che scendendo dal suo capo abbraccia l’intero sviluppo della figurazione. La affiancano preziosi disegni isolati rappresentanti vasi aurei con fiori. Due altri riquadri di lato rappresentano su sfondo verde immagini di Santi adoranti: a sinistra un Santo domenicano con turibolo, a destra un altro Santo seguito da un giovane angelo. Più oltre, di nuovo graziosi e ricercati vasi fioriti, questa volta rossi e blu, ed infine, verso ovest, un altro grande riquadro coronato a semicerchio ove ancora è leggibile, pur degradata, la rappresentazione di Cristo sulla croce con la Madonna e un’altra figura quasi cancellata (forse la Maddalena) ai piedi. Altro similare esempio di facciata affrescata, appena più semplice, era quella esistente sempre a Ljetzan-Giazza su una casa ora distrutta, ma di cui fortunatamente resta una preziosa fotografia scattata negli anni ’30 da Bruno Schweizer. Anche qui, in riquadro coronato a semicerchio, trovava posto una Madonna in trono con Bambino; ed ancora a lato i raffinati vasi a calice, con fiori. Innumerevoli Madonne, in genere di più semplici fatture, segnano il cammino del viandante tra i viottoli di queste contrade. Ma il gusto di decorare i muri delle case si manifesta anche con espressioni non religiose: dalle meridiane che segnano con precisa scansione il passare del tempo, variamente arricchite da decorazioni e scritte che citano detti di saggezza popolare, alle fasce di colore anche complesse, che sottolineano elementi architettonici o addirittura li inventano, per arrivare infine all’ingenuo e monocromo disegno agreste, tracciato da mano inesperta su un angolo di muro in contrada S. Andrea. Se a prima vista pare essere la valle di Ljetzan-Giazza il sito depositario di questa tradizione figurativa, una appena più attenta ricognizione sull’altopiano, fino alle colline più occidentali, evidenzia come il fenomeno sia più ampio e, pur se in figuratività forse più stringate, arrivi fino all’altra estremità, a ovest, della Lessinia. Per le quote più alte basti citare una casa di contrada Kunek3 ove di due grandi affreschi, probabilmente un’enorme meridiana (su fondo giallo) e un’altrettanto vasta figurazione (su fondo bianco, forse una Madonna con Bambino, di cui si intravvedono appena alcuni tratti) restano poche tracce, ma evidenti le quadrature di intonaco che occupavano. Più piccolo, ma meglio conservato e di ricca figurazione (Madonna incoronata con numerosi altri personaggi), è un affresco in contrada Sartori, ed ancora in riquadro rosso una Madonna è dipinta su una casa in contrada Bortoli; poco più avanti, a S. Francesco, resta solo un riquadro di intonaco a testimoniare un’antica pitturazione. Ad occidente fioriscono numerosi gli affreschi fino a quota collinare. A Cà Mazzarino di Sopra una bella e ben conservata immagine contiene, su sfondo giallo vivo, una Madonna adornata di semplice ma maestosa veste rossa e manto blu, con tra le braccia il Bambino in tunica bianca. Poco distante, a Cà Masello Vecchia, una policroma composizione illeggiadrisce una discreta porzione di facciata: in un gioco di riquadri, che coinvolge anche arcaiche partiture architettoniche, una Madonna con Bambino da un lato e una meridiana dai colori rosso e blu dall’altro, in condizioni di ormai avanzato degrado, prospettano quella che era un’ampia aia lastricata in lastre e cinta da un alto muro, centro dell’antico insediamento. In contrada Purgatorio troviamo un’immagine di Madonna seduta con il Bambino su sfondo blu entro una larga cornice gialla: in essa possono leggersi chiaramente le caratteristiche del disegno, fino ai particolari del drappeggio, grazie al restauro e all’attenta cura cui è stata sottoposta per intelligente opera dell’attuale proprietario. A Mazzano una bionda e luminosa Madonna, in piedi e sola, avvolta in bianca veste e manto verde sta in un riquadro rosso su una facciata di piccola schiera; sotto una breve dedica: “Ave Maria”. Una data in pietra poco discosta recita 1851, ma testimonianze del luogo attribuiscono l’opera al “poeta”, popolano dalle versatili capacità artistiche (appunto poeta e scultore “con niente”, oltre che pittore), “famiglio” cioè lavorante presso una famiglia contadina retribuito col solo vitto e alloggio, vissuto in queste zone nei primi decenni del Novecento. A contrada Le Faldere, in un’alta valletta del monte Comun, alcune case ormai crollanti sono adornate di affreschi figurati e di una meridiana. Le tre lisce campiture colorate spiccano su un tessuto murario debolmente e irregolarmente intonacato, in terrosa malta di calce dal bel colore giallo cupo. Dal punto di vista tematico le figurazioni appaiono qui diverse: la più grande riquadrata in rosso rappresenta una Madonna con Cristo morto, ai piedi della croce; sotto si intravvede una scritta che purtroppo è illeggibile. Di poco discosto il secondo affresco, in riquadro giallo, rappresenta un Santo viandante, con saio, bastone, piccola campana e libro nella mano sinistra, ai suoi piedi un maialino ed altri animali (trattasi probabilmente di S. Antonio protettore degli animali). Seppure con figuratività nuove affiora anche qui una visione del mondo che è di pacifica vita pastorale; il dolore stesso, quello straziante della madre che piange il figlio morto, la morte dunque nella sua più cruda durezza su di una umanità inerme ed innocente, si addolcisce in un abbraccio materno, si stempera nel caldo orizzonte che riempie la vasta campitura del riquadro di giallo solare, in cui si sperde anche la minacciosa croce. Gli affreschi interni in una casa di corte Zivelongo (Lessinia d’occidente) costituiscono un episodio significativo, ma a sé stante: adornano le pareti di una stanza il cui tetto è crollato, e, pur nel generale degrado che prelude al disastro, aggiungono un elemento di preziosità a ciò che può considerarsi un gioiello dell’architettura lessinica. Un primo gruppo di fattura raffinata riempie la parete ovest ed è costituito da un trittico, scandito da colonnine ed archi, raffigurante una Madonna incoronata con Bambino al centro, ai lati un Santo e un Cavaliere alato, appena più discosto S. Rocco che mostra la propria piaga: il tutto su uno sfondo di paesaggio con mura merlate, cavalli e cavalieri. Sulla parete opposta un secondo gruppo, di disegno più ingenuo, raffigura S. Giorgio che uccide il drago ed a lato S. Giorgio che libera la principessa. La datazione di queste opere è fatta risalire ai sec. XV e XVI. Questi affreschi paiono appartenere a uno specifico ciclo pittorico, sia per la loro collocazione interna (forse in un’antica cappella) e dunque per il loro significato chiaramente introspettivo e legato a una fruizione decisamente sacralizzata, sìa per la loro fattura. Essi, a differenza delle più tarde Madonne delle facciate, sono figurativamente piuttosto elaborati (nel trittico si rintracciano raffigurazioni di elementi di architettura colta, personaggi in abiti nobili etc.), e si collegano ad altri analoghi di cui A. Benedetti parla nel suo libro4: “Queste pitture, come quelle che c’erano nella casa del Dolfo a Cona, nella cancanina dì Breoni e in una camera di Kresstena, sembrano roba esotica”. Sulla torre di corte Zivelongo rinveniamo pitture murali esterne monocrome, tracciate tutte in segno rosso: appena sotto il cornicione di gronda sul lato nord vi sono tracce di una raffigurazione che parrebbe essere stata di cavaliere con spada erta in pugno (restano la testa e la spada), nonché sotto l’inferiore lastolina marcapiano troviamo una fascia orizzontale di figurazioni che si articola su tutti i quattro lati della torre stessa. Questi motivi ornamentali, che corrono ininterrotti per tutto il perimetro, mostrano rappresentazioni diverse su ogni faccia della torre: anticamente dovevano essere più estesi di quanto oggi si è salvato, direttamente a ridosso della lastolina che ha funzionato da protezione. I lati che prospettano l’aia sono i più elaborati: a nord un complicato susseguirsi di innumerevoli e diversificati simboli crea una fascia di enigmatica significatività. Subito sotto traspaiono tracce di decorazione geometrica a triangoli. Ad est la lastolina ha salvato fantasiose figurazioni zoomorfe: colombi, fagiani, forse pavoni, uccelli di varie forme, in sequenza ininterrotta, si inseguono confrontando tra loro il piumaggio, partendo dallo spigolo sud da una stella a cinque punte e finendo, verso nord, in un campo dall’erba alta. Appena sotto questa fascia ancora si intravvedono tracce di due grandi simboli di Salomone. Sul lato sud della torre, appena sotto la lastolina, troviamo una decorazione geometrica di triangoli a volte interamente campiti in rosso: più sotto tracce di un altro grande simbolo di Salomone e di un gruppo di volatili. Sul lato est, infine, la decorazione geometrica si impreziosisce e presenta una serie continua di triangoli, inscritti in quadrati e contenenti a loro volta cerchi, il tutto sottolineato da una grossa fascia rossa: verso lo spigolo nord questo disegno cambia, diventando un incastro di triangoli, di cui purtroppo resta solo una dilavata traccia. Più semplici decorazioni, sempre monocrome in rosso, di figurazione per lo più geometrica (fascia continua di triangoli inseriti tra due rette, ma anche con sagome di colombi presso i fori della colombaia), sono ciò che resta sulla torre esistente a Manune. Anche qui, inoltre, appaiono isolati simboli circolari, probabilmente stilizzazioni del sole. Ma decorazioni di questo tipo forse ci conducono in un campo ove l’ornamentazione delle architetture e gli autonomi messaggi disegnati scindono l’unitarietà del loro discorso, al di là dell’immediata armonia dell’immagine, trascendendo nei secondi il significato della rappresentazione di linguaggi figurativi e approdando invece ad un lessico determinato da diverse regole, forse ad un simbolico arcano, da indagarsi dunque nello specifico della sua natura. Tornando agli affreschi e alla valle di Ljetzan-Giazza è da ricordare la testimonianza e lo studio su di essi, sviluppato nei primissimi anni del Novecento da Aristide Baragiola, il quale credette di riconoscere in essi similarità e dunque ascendenze con analoghe espressività in terra bavarese. Qui come là gli parve di trovare architettura e figuratività parietali fusi in immagini unitarie, pur avendo questa “cimbra” caratteri più contenuti formalmente, e risultando dunque più essenziale, quasi arcaica: una nuova sintesi di originale rustica bellezza. Nel 1906 il Baragiola sviluppò questo specifico confronto durante un suo viaggio in Germania5; in quegli anni cruciali, nella polemica sull’origine dei “Cimbri” — già accreditati quali coloni bavaresi del XIII secolo — l’ipotesi avanzata doveva sembrare un’ulteriore conferma alla versione ormai dominante sostenuta dal Cipolla6.
L’importanza di questi episodi architettonici e figurativi travalica dunque quella di inserire un’ulteriore elaborazione e diversità nel già composito e variegato quadro dell’architettura lessinica, per costituire anche un importante elemento di riferimento allo studio delle influenze, delle affinità culturali esercitatesi nei secoli, comunque per sondare la capacità di ricreare un proprio universo culturale organico, partendo anche da stimoli disparati ed esogeni. Questa preziosità intrinseca, questo affondare radici in tempi lontani, non ha risparmiato purtroppo a queste opere la triste sorte che il generale processo di stravolgimento degli insediamenti, di alterazione e di distruzione delle preesistenze, anche di notevole e riconosciuto valore, ha comportato pressocché ovunque. È vero che il meccanismo di appiattimento ed omologazione culturale di queste popolazioni, e dunque di assimilazione agli anonimi modelli della nostra attuale “civiltà”, ha trovato qualche resistenza nella lunga tradizione che esse hanno nel campo della linguistica e dell’immaginifico popolare, e dunque nella loro stessa concreta visione del mondo, ma è altresì innegabile che nel campo dell’architettura e delle espressioni artistiche e figurative a lei legate più grave appare la compromissione e meno guarnite appaiono le forze, sia per la salvaguardia dell’esistente, sia per riuscire ad avanzare nel nuovo in linea con l’antico e con la propria storia.
1 A. Benetti, Il passaggio di S. Carlo Borromeo, in I racconti dei Filò dei Monti Lessini, Verona 1983.
2 A. Benetti, Come nacquero il Carnevale e la Quaresima, in I racconti dei Filò dei Monti Lessini, Verona 1983.
3 Kunek, toponimo di origine “cimbra”.
4 A. Benedetti, Insediamenti umani sulla montagna veronese, Giazza-Verona’ 1983.
5 A. Baragiola, Le case villerecce delle colonie tedesco-venete tridentine, Bergamo 1908, ristampa 1980, G. Pizzati Arte Cimbra.
6 C. Cipolla, La popolazione dei XIII Comuni Veronesi, Venezia 1883.