foto di Giuseppe Russo
Guwahati – 1877 km via terra o 2,10 ore in aereo da New Delhi, e 983 km via terra o 1,05 ore in aereo da Kolkata – è la porta di accesso in Assam lungo la strada che, costeggiando le rive del fiume Brahmaputra, conduce in Arunachal Pradesh al confine sino-tibetano-birmano. L’etimologia del nome Assam è incerta; secondo alcuni deriverebbe dal sanscrito asama, “senza pari”. L’Assam divenne parte dell’India britannica dopo che la British East India Company occupò la regione in seguito alla prima guerra anglo-birmana del 1824-1826. L’Assam è circondato da sette Stati membri della confederazione indiana: Arunachal Pradesh, Nagaland, Manipur, Mizoram, Tripura, Meghalaya e Sikkim, che nella regione del nord-est indiano morfologicamente assomigliano a una curiosa proboscide d’elefante a cavallo del Bangla Desh.
Geograficamente, l’Assam e questi Stati sono collegati al resto dell’India da una sottile striscia di terra lunga 22 chilometri, chiamata corridoio di Siliguri o “collo di pollo”, facente parte del West Bengala. Dal punto di vista etimologico, Arunachal significa in sanscrito “terra delle montagne baciate dal sole nascente”, poiché per la sua posizione geografica è la prima in India a salutare l’alba. Pradesh significa semplicemente “stato”. I suoi territori montuosi, seguenti la linea di MacMahon adottata unilateralmente dall’India come confine nel 1950, furono amministrati dalla North East Frontier Agency fino al 1972, quando divennero un territorio dell’Unione Indiana, poi proclamato Stato dell’Arunachal Pradesh nel dicembre del 1986. Tutt’oggi la questione della sovranità sulla regione è ancora irrisolta, e i cinesi chiamano il territorio conteso Zangnan (Tibet meridionale).
In questi territori dell’Assam e dell’Arunachal Pradesh vivono molte minoranze etniche, preservate dall’isolamento nelle valli himalayane e nelle limitrofe foreste birmane di confine. Pur appartenendo geograficamente all’India, esse presentano una mescolanza di tratti somatici affini al ceppo mongolo e tibeto-birmano, con occhi a mandorla e carnagione chiara. Hanno ancor oggi uno stile di vita in stretto rapporto con gli elementi naturali in uno degli ultimi paradisi asiatici, tra montagne verdi piene di foreste e bambù, terrazze coltivate a riso baciate dal sole e gli affluenti himalayani del lunghissimo fiume Brahmaputra.
Il gruppo dei monpa
Per raggiungere prima Bomdila e poi la Tawang Valley, bisogna percorrere una serie interminabile di tornanti, il traffico spesso bloccato dai lavori di manutenzione, interrotta da una sosta sul Se-La Pass a 4176 metri d’altitudine, presso il grande portale con Stupa circondato da file di bandiere di preghiera (tarchok). In quest’area a predominante culto buddista, a circa 95 km dal confine cinese-tibetano, vivono i monpas. Di discendenza mongola, emigrati dal Bhutan e del Tibet in tempi diversi, i monpa vivono separati dal ramo d’origine tibetano a causa della linea confinaria MacMahon con la Cina, disegnata dai coloni britannici, che ha annesso il loro territorio a quello indiano. Come molti altri autoctoni dell’Himalaya orientale, praticavano la primitiva religione animistica Bon prima della conversione al buddismo tibetano; ma, a differenza delle altre tribù, si sono dedicati totalmente alla loro nuova religione mantenendo soltanto alcuni elementi della vecchia. Gli uomini vestono il chuba tibetano e portano un cappello fatto con pelo di yak, stile rasta, e un lungo coltello a tracolla. Le donne hanno una piccola acconciatura fatta di peli di yak, con 5 o 6 treccine di capelli rigide, disposte a raggiera in maniera uniforme e ornate da nappine. Tutte portano collane formate da grosse pietre color turchese e coralli, con un ciondolo al centro e ornamenti in argento.
Il popolo dei monpa è noto per le creazioni artistiche, che comprendono pittura dei thangka, fabbricazione di tappeti, tessitura, intaglio del legno e la particolare abilità nel ricavare carta dall’albero sukso. A causa del clima freddo dell’Himalaya, i monpa, come la maggior parte delle altre tribù buddiste, costruiscono la casa in pietra e legno, con pavimenti a tavole spesso accompagnati da porte e finestre finemente intagliate. Il tetto, invece, viene realizzato con stuoia di bambù per mantenere la casa calda durante la stagione invernale. Per evitare l’erosione del suolo, terrazzano i pendii collinari e li coltivano a riso, mais, frumento, orzo, miglio, grano saraceno, peperoni, zucca e fagioli son.
Oltre agli animali domestici, come maiali e pecore, allevano gli yak, bovini di origine himalayana dal pelo folto.
Nella Tawang Valley
Tawang Valley: imponente su un’erta collina da cui si gode un bel panorama sulla Chu Valley, svetta il Tawang Gompa, chiamato anche Galden Namgyal Lhatse, che fu fondato dal Merak Lama Lodre Gyamtso intorno al 1680. Secondo monastero dell’Asia per dimensioni, può ospitare circa 700 monaci, anche se attualmente vi risiedono soltanto 300 lama. Sicuramente consigliabile per il visitatore partecipare a una Puja, la funzione religiosa di rito buddista che si celebra quotidianamente.
La discesa in direzione delle pianure dell’Assam, tra gole, cascate e l’attraversamento del maestoso Brahmaputra, consente di visitare alcune coltivazioni di tè, per il quale va giustamente famoso lo Stato, alcuni villaggi del popolo mishing, dove alcuni immigrati dalle zone periferiche dell’Arunachal si sono stabiliti diventando allevatori e contadini, e soprattutto il Kaziranga Park, dove è possibile fare un interessante elephant safari. In questo parco, dichiarato patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1985, vive il rinoceronte bianco a un solo corno, autoctono: l’alba è il momento ideale per osservarlo, mentre la tipica nebbia locale si dissolve alle prime luci solari sulla palude e le praterie umide, che costituiscono il suo habitat ideale. Un game drive in jeep oppure un emozionante safari a dorso di elefante è il modo migliore per esplorare la natura selvaggia del parco nazionale, con la possibilità di avvistare il rinoceronte bianco circondato da altri animali endemici: cervi, gaur, bufali d’acqua selvatici, cinghiali e una varietà incredibile di avifauna. Se si è abbastanza fortunati, si possono scorgere anche le tigri indiane, molto diffuse in quest’area, ma di difficile avvistamento a causa dell’erba alta – detta erba elefante – dove si possono ben mimetizzare.
Un nuovo attraversamento del fiume Brahmaputra, lasciandosi alle spalle l’Assam, conduce a Itanagar, capitale e porta di accessodell’Arunachal Pradesh. Qui si deve effettuare una sosta “burocratica”per ottenere i permessi speciali per la visita e raggiungere la Ziro Valley, la meta principale del nostro itinerario, per conoscerne gli abitanti: l’etnia atapani. Il nome deriva con molta probabilità da Abotani, colui che i seguaci del donyi-poloismo considerano il primo uomo. Gli atapani vivono in case costruite su alte palafitte di legno con pareti e pavimenti di bambù. Comunità prettamente agricola, ancor oggi senza l’ausilio di animali da allevamento o macchine, hanno sviluppato un sofisticato sistema di irrigazione dei campi. La loro struttura sociale si basa su classi suddivise in nobili e schiavi. Le donne si distinguono per i volti ampiamente tatuati con linee blu dalla fronte fino alla punta del naso e cinque strisce erticali sotto il labbro inferiore nel mento (questi tatuaggi sono detti twpe), ma soprattutto per due grosse placche di legno scuro (y’apiñ hullo) incastonate ai lati del naso, sopra le narici. Dai piccoli pioli inseriti in tenera etá si passa progressivamente ai 6-7 centimetri di diametro dell’età adulta, anche se l’usanza è andata in declino negli ultimi anni ed è rimasta solo tra le donne anziane. Tra le leggende che possono spiegare queste pratiche c’è ne una secondo la quale, in un lontano passato, per evitare agli apatani le frequenti incursioni nemiche delle tribù vicine (soprattutto i nishi) al fine di rapire le donne più belle del villaggio, il loro capo avrebbe deciso di “truccarle” per renderle meno desiderabili.
Nell’effettuare il tatuaggio, al sangue che trasuda dalla pelle traforata viene applicata una soluzione ottenuta mescolando la fuliggine nera delle pentole con acqua di riso bollito. Dopo qualche tempo, quando la soluzione si asciuga, sulla ferita si applica per alcuni giorni lo hufi, una miscela di olio caldo e sangue di maiale, che l’aiuta prima a guarire e poi a trasformarla in tatuaggio. Le donne inoltre si coprono le trecce arrotolate in una palla (dillin) sulla parte superiore della testa, in cui può essere inserito orizzontalmente uno spiedino di ottone (adin).
Gli uomini apatani portano i capelli legati sopra la fronte con il pwdiñ, un nodo attraversato orizzontalmente da una bacchetta d’ottone di circa 30 centimetri (dinko), e hanno a tracolla un lungo coltello protetto da un fodero di bambù intrecciato. Usano anche esibire un tatuaggio sulla metà del mento a forma di lettera T. Anch’essi, come le donne, perforano i lobi delle orecchie con grandi pezzi di bambù scavati chiamati yaru hukho, tappi per le orecchie. Sopra i fori principali, ne praticano altri due o tre più piccoli per indossare altrettanti orecchini, consistenti in anelli d’ottone (ruttiñ yarangs) del diametro di 8-10 centimetri. Questi segni sono diventati nel tempo i canoni estetici degli apatani, e nella loro società è normale che i giovani di entrambi i sessi gareggino a chi abbia i migliori tatuaggi, piercing nasali e auricolari, nodi di capelli e anelli. Anche se nel corso degli ultimi decenni i missionari cristiani sono stati molto attivi in tutto il nord-est indiano, influendo le credenze e la vita religiosa della regione, la maggior parte degli apatani restano ancora animisti. Come tali, essi credono che gli dèi e le dee saranno placati con l’offerta e il sacrificio di animali, benedicendo la comunità. Il culto sacrificale, infatti, è uno dei più radicati nella cultura apatani, e una delle sue massime espressioni può essere osservata durante il Myoko, Festival che si celebra ogni anno in primavera, la cui data esatta di inizio viene stabilita dallo sciamano previa consultazione degli oracoli.
Il Myoko Apatani Ziro Festival
Il Myoko Festival è uno degli eventi più importanti dell’etnia apatani. Ha una grande rilevanza sociale, in quanto colui che offre la festa a parenti e vicini accresce moltissimo il suo status sociale all’interno della comunità. Nell’evento confluiscono credenze secolari sul modo di garantire la fertilità dei campi, e si rafforzano i legami familiari, tra i clan e tra i villaggi. Ecco perché le famiglie più ricche aspirano a organizzare queste feste.
Trovarsi nella Ziro Valley durante il Myoko Festival è un’occasione imperdibile per osservare da vicino le loro tradizioni, un momento unico in cui anche chi vive lontano fa ritorno ai villaggi natali di Hari, Tajang, Tarin e Hong per partecipare. Ovunque per le strade svettano pali sciamanici con frange e bandiere appese, a significare la fede animista degli abitanti. I quali sono estremamente ospitali e invitano i forestieri a visitare le loro abitazioni, offrendo distillati alcolici di riso e tè.
Alla vigilia del grande sacrificio dei maiali – giornata clou del Myoko – nel pomeriggio comincia la processione d’apertura. Un lungo corteo spontaneo di gente, ognuno con un rametto di palma locale in mano, si muove lentamente intorno ad alcuni capanni, uno per ogni clan familiare, cantando e pregando il Miji, una raccolta di canti religiosi. All’interno lo sciamano – vestito con il jilan, l’abito cerimoniale tradizionale, e con grossi orecchini ai lobi – con alcuni assistenti ripete a oltranza le preghiere fino al momento del sacrificio degli animali (maiali o polli) ricevuti in offerta. La notte seguente, il maiale scelto viene sventrato vivo e il suo cuore, ancora pulsante, viene esaminato dallo sciamano e dai suoi assistenti per stabilire se il futuro sarà propizio per il villaggio. Si ritiene che in questo giorno gli dèi e le dee benediranno il luogo, augurando un copioso raccolto di riso. Intanto, dalle 2 di notte fino al sorgere del sole, nei cortili dei ricchi apatani propostisi per le feste private, numerosi maiali, mithun (bovini tipici dell’India nordorientale) legati a un palo per le zampe, e polli appesi a testa in giù ai rami dell’albero sacro, vengono sacrificati seguendo gli stessi rituali da parte dello sciamano designato da ciascun gruppo familiare.
Le visite itineranti a ogni clan familiare in festa sono segnalate dalla presenza davanti alle case di gruppi di donne sposate – elegantissime nei loro abiti cerimoniali di colore chiaro e con i gioielli di famiglia, tra cui grosse collane di pietre dure – intente a cospargere farina e birra di riso sopra le decine di maiali che giacciono per terra, offrendo dolcetti e liquori di riso ai presenti.
Una volta che il principale sacerdote del Myoko ha finito di cantare le sue preghiere, gli assistenti selezionano i maiali e gli altri animali, e li sventrano strappandone fuori i cuori pulsanti e le viscere mentre sono ancora in vita. Altre bestie vengono portate dentro le case e sacrificate allo stesso modo dai sacerdoti, che trarranno gli auspici esaminando il cuore pulsante, il fegato, le viscere, e nel caso dei polli persino il tuorlo delle uova. Anche una piccola cisti può essere considerata un segno nefasto, sicché si ricorre spesso a un altro esperto (o più di uno) per “cointerpretare” gli auspici. Vari tagli degli animali vengono quindi cucinati e offerti ad amici e familiari per diffondere le benedizioni, mentre all’esterno le anziane signore apatani eseguono alcune delle loro danze tradizionali.
Un mosaico culturale
Lasciata la Ziro Valley per addentrarsi nella zona ad alta densità etnica dell’Arunachal Padresh, lungo la statale NH229 che da Ziro e Daporijo conduce ad Along, si attraversano diversi ponti tibetani sopra i vorticosi affluenti del lato superiore del Brahmaputra, in mezzo a una natura rigogliosa, gole profonde, alte montagne con cime rivestite di neve, specie floreali a migliaia (tra cui oltre 500 varietà rare di orchidee). Non si trovano più dhaba (ristoranti) con specialità gastronomiche, né le comodità dell’Assam, ma tanti piccoli villaggi dove, sostando per fare uno spuntino, si può osservare da vicino la semplice vita agreste della gente locale. È questo il territorio dei nishi, i cui villaggi sono costruiti su dirupi. Superato il ponte tibetano Handing Bridge, camminando per un sentiero ripido se ne può raggiungere ancora qualcuno autentico, come Yoizath, con belle capanne di legno, corda e paglia, dove vivono gli ultimi anziani: indossano ancora il tipico copricapo a forma di casco di bambù, sormontato dal becco del bucero (uccello protetto la cui caccia è scoraggiata da leggi severe) e con 3 piume di pavone o bucero dietro, e portano i capelli annodati sulla fronte, fermati con spilloni di ottone.
Come gli apatani, usano tenere a tracolla un machete (dao) e un coltello (ryukchak) in una guaina di bambù, a volte coperta da un nastro di pelle d’orso. Il loro armamento è costituito da una lancia, una grande spada e un arco con frecce velenose. Vestono magliette di cotone a righe blu e rosso con un manto di cotone o lana fissato intorno alla gola e alle spalle, spesso accompagnati da stringhe di perline di varie dimensioni e colori, che indicano lo stato sociale di chi le indossa. I tatuaggi non sono la norma tra i nishi, ma le donne portano particolari orecchini d’argento molto grandi, collane con perline multicolori, catene e campane di ottone, bracciali pesanti di vari metalli. Indossano generalmente un mantello che avvolge il corpo dalle ascelle fino a metà polpaccio, legato in vita da un nastro. I capelli hanno la riga in mezzo e sono intrecciati in una crocchia appena sopra la nuca.
La loro fede animista si manifesta soprattutto nel Nyokum, una festa che commemora gli antenati e rende grazie per il raccolto dei campi, con rituali religiosi che coincidono con le fasi lunari e i cicli dell’agricoltura.
Nella valle del fiume Kamla e nei dintorni a sud di Daporijo, un’area coperta da fitta giungla e boschi di bambù, a un’altitudine compresa tra i 900 e i 1220 metri, vivono gli adi-gallong. Sono divisi in vari clan che indossano costumi diversi. Gli uomini portano casacche rosse, cappello di bambù intrecciato con la tesa appuntita, zainetto piatto sempre di bambù intrecciato, e il machete a tracolla in un fodero di bambù. Le donne esibiscono gioielli di rame e argento, i capelli raccolti in due lunghe trecce.
Costruiscono i villaggi sui fianchi delle colline con capanne su palafitte e coltivano gli appezzamenti circostanti con riso, miglio, patate dolci, tabacco e peperoncino. Assai particolari i rituali connessi al matrimonio, con vari tipi di cerimonia a seconda della ricchezza degli sposi. Hanno il culto degli spiriti, buoni e cattivi, e venerano gli dèi del sole e della luna. Non esistendo sistemazioni turistiche nella zona, può capitare di alloggiare presso un capo villaggio che, in base alla tradizione adi-gallong, mette a disposizione la sua casa a chi è in transito. Ecco un’occasione per socializzare con il clan familiare, fare amicizia con i ragazzini del piccolo villaggio, gustare un’ospitalità semplice e genuina attorno al focolare al centro dell’abitazione, dare una mano nella preparazione della cena.
Da Along a Pasighat, lungo una strada panoramica che costeggia il fiume Syiam, affluente del Brahmaputra, si può provare l’emozione di restare sospesi sull’abisso, mentre si attraversa a piedi la gola sul Soangam Bridge, un ponte tibetano di bambù lungo 300 metri. Siamo nel territorio degli adi minyong, etnia dai caratteri e costumi simili ai “cugini” adi-gallong. Sono di piccola statura e come tali considerati l’equivalente asiatico dei pigmei africani. Indossano primitivi perizomi di tessuto verde e sono particolarmente esperti nelle costruzioni con il bambù, materiale con cui realizzano numerosi ponti sospesi sui fiumi Siyam e Siang.
Nella stessa zona vive anche il gruppo etnico degli hill miri. Conduce una vita sociale ed economica simile a quella della tribù nishi, intrattenendo buoni rapporti con la gente di pianura dell’Assam, con cui commercia. Sempre come i nishi, gli uomini portano elmetti di bambù (bopar), mentre, al posto dei capelli raccolti sulla fronte con gli spilloni, usano un lembo di pelliccia d’orso. A tracolla portano una spada lunga (orok) e un piccolo coltello (rwuchuk). L’abito femminile è tipicamente una camicetta lunga su cui è avvolta fino alla vita una sorta di stola colorata, con una collana a più fili di semi vegetali multicolori. Gli orecchini a forma di disco sono di metallo.
Belle le capanne di bambù sostenute da particolari pali disposti a X tutt’attorno. Gli hill miri sono dediti all’agricoltura, privilegiando soprattutto le colture di miglio e riso, con cui distillano un ottimo alcolico, l’opo, assai gradito alla popolazione. Il vino circola abbondante nelle occasioni particolari, come le feste di musica e danze, che amano molto, e soprattutto durante il Booriboot, la celebrazione principale che si tiene in febbraio.
Concentrati nelle regioni di Daporijo, Dumporijo e anche in aree contigue del West Siang, vivono i tagin, un popolo dalla tradizione guerriera che abita in case palafitticole per difendersi dalle piogge monsoniche e, soprattutto, dagli orsi e dalle tigri. Separati dalle abitazioni, anche gli eleganti granai posano su palafitte. Di origine buddista, i tagin si sono nel tempo convertiti al cristianesimo, conservando però l’uso dell’antica medicina tradizionale, che affida alle erbe la prevenzione e la cura delle malattie.
Nei pressi di Pasighat, il lunghissimo e spettacolare ponte di Sissen, fatto di canne di bambù, annuncia con una serie di tornanti in discesa l’avvicinamento alla pianura e la conclusione dell’itinerario in Arunachal. A Masabohi Hut, fangoso porto d’imbarco per la chiatta che attraversa il Brahmaputra e porta a Bodibill Hut, l’attesa si trasforma in un ripasso delle etnie finora incontrate, che qui sulla riva si radunano e si mescolano intente ai propri traffici. Tra visi chiari con occhi a mandorla di origine sino-tibetana-birmana e carnagioni scure di ceppo indiano, ognuno è impegnato a fare affari: chi vende bevande in lattina e tè, chi fa bagarinaggio di biglietti per i bus collettivi in partenza dall’altra sponda per la città vicine, chi offre samosa e vari cibi cotti, chi commercia latte fresco, travasato da contenitori di stagno.
Dopo la monotona traversata del fiume – dove spicca il faraonico ponte in calcestruzzo che stanno costruendo presso Bogibel Ghat, e che collegando stabilmente le due sponde contaminerà le ultime tribù dell’Arunachal – l’arrivo a Dibrugarh nell’Assam superiore riporta definitivamente il sapore dell’India, con il suo traffico caotico, i tuk tuk che strombazzano e le vacche che vagano indisturbate.
L’avvicinamento conclusivo in aereo a Kolkata consente un’ultima visita alla caotica città del Bengala e al Flower Market nei pressi dell’Howrah Bridge, per un’ultima vista piena di calore umano.
G L O S S A R I O
Adi-gallong. Questa lingua è parlata soprattutto in Arunachal Pradesh, ma anche in Assam, da circa 60.000 persone. 185 sulla mappa linguistica.
Adi minyong. Il minyong è un dialetto della lingua adi, usato da alcune migliaia di persone.
Apatani. Popolazione tribale di circa 60.000 individui, che parlano una lingua del gruppo sino-tibetano, gruppo tani. 205 sulla mappa linguistica. Molto attaccati alla loro cultura ancestrale, quando lavorano al di fuori del territorio eccellono nell’uso della tecnologia e nell’apprendimento della scienza.
Bon. È la religione primigenia del Tibet prima dell’arrivo del buddismo nel VII secolo. Animista e sciamanista, l’antico Bon ha lasciato il posto al nuovo Bon, tuttora praticato come versione tibetana del buddismo.
Chuba. Giaccone di pecora ad elevata protezione termica indossato dalle popolazioni tibetane.
Donyi-poloismo. Religione di tipo sciamanico e animista. Donyi significa sole, polo luna.
Hill miri. Varietà della lingua miri parlata da circa 10.000 persone. I giovani in età scolare tendono ad abbandonarne l’uso.
Mishing. Mezzo milione di parlanti per questa lingua dell’Assam. 204 sulla mappa linguistica.
Monpa. Parlato da oltre 9000 persone nel distretto di Tawang, in Arunachal Pradesh, e da circa 1300 in Cina, viene scritto in alfabeto tibetano. 171 sulla mappa linguistica.
Nishi. È la principale lingua indigena dell’Arunachal Pradesh, parlata da 220.000 persone. 181 sulla mappa linguistica.
Stupa. Monumento reliquiario buddista.
Tagin. Tribù dell’Arunachal Pradesh composta da circa 20.000 individui. Appartiene al più ampio gruppo dei tani.
Thangka. Stendardo buddista.
L’AUTORE
Giuseppe Russo è un viaggiatore, fotografo, blogger e reporter con oltre 20 anni di esperienze e collaborazioni di viaggio per il mondo come tour leader. I suoi reportage sono pubblicati, oltre che su “Etnie”, anche sul suo blog Zoom, Andata & Ritorno.