Bainzu Piliu, forse il più noto indipendentista sardo, dopo alcuni anni di silenzio ha deciso di tornare a far sentire la sua voce con un libro autobiografico, Cella n° 21 (Susil Edizioni, Carbonia 2014, € 21). Per motivi che vedremo tra poco, Piliu ha rifiutato di parlarci del libro, evitando in particolare di rispondere alle nostre domande su alcuni aspetti poco chiari del suo resoconto. Così, per raccontare ai lettori il personaggio e delineare brevemente gli eventi storici che l’hanno visto protagonista, ho pensato di riproporre – a mo’ di introduzione – l’estratto di un’intervista rilasciatami da Piliu nel 1990 e pubblicata dal mensile “Chorus” 1).
Sassari, 1990
Una palazzina anonima in un anonimo quartiere periferico di Sassari. Imprecando contro la calura, cerco sul citofono il nome del professor Bainzu Piliu. Suono. Dopo un paio di minuti, appare sul portoncino un signore abbronzato con gli occhi grigi dietro le lenti da scienziato, la barba più sale che pepe. Tra l’aspetto fisico e la camicia militare, sembra un entomologo ottocentesco rientrato di fresco dal Mato Grosso. Senza muoversi dalla soglia, Piliu comunica senza mezzi termini che non è convinto dell’opportunità di incontrarmi. Diffida dei giornalisti, dice; quando ci sono di mezzo le faccende etniche, sanno già cosa scrivere ancor prima di intervistarti. Gli spiego che lo scopo dell’articolo è invece proprio quello di riparare alla censura operata dalla stampa sull’argomento.
“Ah, ecco”, si ammansisce. “Tale dovrebbe essere la fondamentale funzione del giornalismo. Si accomodi”.
Lo studio al primo piano ospita una scrivania antiquata, una libreria piena di testi di chimica, una fotocopiatrice e, sulla parete, un gran drappo con una scritta in lingua locale che dice pressappoco: “Insegniamo il sardo a scuola”. Il professor Piliu, docente di Preparazioni chimiche all’Università di Sassari dal ’76 all’82, eccettuata una breve militanza nel Partidu Indipendentista non appartiene ad alcun movimento. Ma non ha importanza perché Piliu è il sardismo. L’unico tra i personaggi da me intervistati ad avere sperimentato sulla propria pelle la frusta della giustizia italiana. Un martire, secondo molti sardi. Nel 1981 il suo nome balzò per la prima volta agli onori delle cronache continentali per aver discusso due tesi di chimica in sardo.
“Vede”, inizia a raccontare, “la legge impone di discutere le tesi in italiano, ma non vieta di utilizzare anche un’altra lingua. Così ho fatto scrivere le tesi in sardo dalle due studentesse, riportando a lato la traduzione italiana”. Mi tende i fascicoli in questione; sono intitolati Komente produire vigoria e kun kale profetu prò sa Sardinya (Produzione energetica ed eventuali riflessi sulla Sardegna) e Aba rekuida dai paritzos logos ei su manizu sou a prus de totu cun intzenios kimikos e fisikos (Acque reflue di origine diversa e loro trattamento particolarmente con metodi chimici e fisici).
Non posso trattenere un fischio. “E le autorità come l’hanno presa?”.
“Tempo dopo, al rettore arriva una lettera del ministero della Pubblica istruzione in cui, con ‘estrema urgenza’, si chiede ragione del misfatto, cioè l’uso del ‘dialetto sardo’ accanto alla lingua ufficiale. Allora io prendo la penna e scrivo al ministro Bodrato, sorprendendomi che proprio alla Pubblica istruzione ignorino che il sardo è una lingua e non un dialetto, e allegando una bibliografia essenziale per documentarsi, tra l’altro stilata dal nostro ordinario di linguistica sarda”. Scoppia a ridere di gusto ricordando l’episodio. “Non si sono più fatti sentire!”.
Nell’incessante sforzo di farsi amare dalle autorità italiane, l’anno seguente accoglie Pertini – giunto nell’isola per inaugurare il monumento alla brigata Sassari – con una busta contenente, “signor presidente, le richieste più pressanti del popolo sardo”. Non contento, il terribile e tenace professore si aggira attorno al monumento con un gruppo di accoliti, inalberando con fierezza uno striscione con la scritta Afora s’Italia! I granatieri presidenziali lo sequestrano. L’accademico va dall’ufficiale e minaccia di denunciarlo per furto. Lo striscione torna a sventolare sul naso di Pertini. Il capitolo si chiude con un articolo del professor Piliu che invita il capo dello Stato a non farsi più vedere per inaugurare monumenti agli “ascari sardi”.
“Ascari sardi, proprio così”, sottolinea. “Sì, i sardi si sono condotti valorosamente durante la Grande Guerra, ma non potevano fare altrimenti: o sparavano agli austriaci, o gli sparavano gli italiani alle spalle”.
Poi, alla fine dell’82, l’episodio più grave e per molti versi sconcertante. I giornali dell’epoca ne parlarono in modo frammentario e impreciso, tanto che in continente nessuno capì bene cosa fosse successo.
“Nel 1981 due candelotti di dinamite esplosero nella sede cagliaritana della compagnia di navigazione Tirrenia facendo scarsi danni. Fu arrestato un militare di leva, trovato con dell’esplosivo nascosto in caserma. Il giovane sostenne di essere stato spinto all’azione da un certo Salvatore Meloni, un sardista. Aggiunse di aver ‘sentito dire’ al Meloni che Bainzu Piliu era il capo ideologico e carismatico di una cospirazione separatista finanziata dalla Libia”.
“Era vero?”.
“Era vero che conoscevo Meloni di sfuggita, che ero d’accordo con lui sui temi generici dell’indipendenza. Non era vero che avessi ordito una cospirazione, tanto meno con l’appoggio libico. Senza contare che sono un nonviolento. A termini di legge non si trattava neppure di cospirazione, era solo presunta. Per farla breve, nel dicembre dell’82 mi arrestarono; l’anno seguente ebbi gli arresti domiciliari, che scontai tenendo sempre esposta la bandiera sarda alla finestra. Nell’88 la Cassazione confermò la condanna. Morale, tre anni complessivi di pena”.
In carcere, Piliu fa propaganda e organizza una raccolta di sangue per i bambini talassemici (“Ho iniziato a donare il sangue nel ’56 per i rivoluzionari ungheresi”). Quando esce si trova senza lavoro: l’università gli ha tolto la cattedra. “Ma stia certo che non mi hanno piegato. Continuerò a battermi per l’indipendenza”.
Lo invito a pranzo in un locale del centro storico, una di quelle tipiche bettolacce sarde dove mangi bene, bevi ottimo Cannonau e spendi diecimila lire a testa. Non è spilorceria: la vera cucina nuragica la trovi soltanto qui; i locali per i turisti non servono budella di pecora oppure sangue fritto.
Adesso Piliu è rilassato. La diffidenza è passata. “Vede”, riprende, “a uno dei vostri autonomisti non sarebbe mai accaduta una cosa simile. Non ne avrebbero avuto il coraggio. L’Italia ha molta più paura degli indipendentisti sardi. Se il nostro popolo decidesse di passare all’azione, esclusa naturalmente la violenza, il governo sarebbe in un bel guaio. E per il nostro numero e per la distanza dal continente. Ci basterebbe bloccare i porti e gli aeroporti dell’isola”.
Sì, la situazione sarda è assai diversa da quelle incontrate finora. Non ho ancora sentito un valdostano o un veneto programmare la neutralizzazione di ponti e ferrovie. Forse qui passa la discriminante tra gli autonomisti e i separatisti. I primi attendono di avere la forza elettorale per cancellare una struttura amministrativa con un tratto di penna; i secondi devono aspettarsi l’invio di truppe aviotrasportate.
“Qualcosa mi dice che lei non è uno sfegatato propugnatore dell’Europa dei popoli”, insinuo a questo punto.
“Certo che apprezzo il concetto di federalismo. Però sono soprattutto per il mondo dei popoli. Se fossi il presidente della repubblica sarda, adotterei un neutralismo attivo che favorisse ogni opera di pace, ogni forma di mediazione. Ma non nell’Europa. Come minimo nel bacino del Mediterraneo. Lei è nordico e forse non può capire… La Sardegna è un paese mediterraneo che necessita di rapporti con l’Europa per certe cose e con le sponde meridionali per altre. In un’Europa federalista saremmo comunque colonizzati, non tanto per il divario economico quanto per quello gestionale”.
“Non afferro”.
“Secondo me i soldi non contano molto. Si può averli ed essere poveri. La vera ricchezza consiste nella capacità di fare, di organizzarsi, di costruire. Noi non siamo messi bene, per il momento. Se i sardi si contattassero lasciando perdere il loro esasperato individualismo, se rivolgessero uno sguardo interiore per vagliare e concentrare le proprie energie umane, allora sarebbero ricchi. Ma per ora no. Vedo che oggi in Sardegna abbiamo un sacco di gente valida e istruita, però mancano la struttura e l’idea guida. Federalismo… io non sono contrario ad alcun tipo di accordo o federazione, tuttavia è lampante che se un uomo forte si allea con uno debole è solo per poterlo gestire”.
“Qual è, in sostanza, la situazione attuale del sardismo?”.
“Non c’è molto da scegliere. Il Partito Sardo d’Azione, così com’è oggi, è utile solo ai nemici della Sardegna. E si vede dal calo dei voti. A parte che il suo vicepresidente è stato arrestato per truffa o roba simile, manca la carica ideale e la disponibilità ad affrontare i sacrifici che comporta un movimento di liberazione. Non pretendo che un politico faccia il martire come i patrioti dell’Ulster, ma qualcosa deve ben rischiare. Il Partidu Indipendentista, ammesso che esista ancora, sfruttava il mio nome unicamente a fini elettorali. Io so che sparse nell’isola ci sono le persone giuste con cui costruire qualcosa di valido. Tutto sta a trovarle”.
“Qual è la massima accusa che lei muove allo stato italiano?”.
“Di non aver mai garantito ai popoli che lo compongono l’opportunità di essere parimenti creativi e produttivi”.
“Una curiosità. Lei si chiama Bainzu, ma sulla guida telefonica l’ho trovata come Gavino Piliu…”.
La risposta mi lascia lievemente disorientato. “Ah, certo. Infatti il mio vero nome è Gavino. Ma ho adottato la sua versione sarda, Bainzu, perché fosse ben chiara la mia provenienza”.
Il professore, il quale evidentemente teme di essere preso per tirolese, si informa: “Secondo lei, lo stato accoglierebbe una mia richiesta di variazione del nome?”.
“No, non ci sono i presupposti giuridici”. Evito di aggiungere che Bainzu Piliu è forse l’ultima persona a cui lo stato italiano sarebbe disposto a fare qualsiasi concessione.
Torniamo ai nostri tempi
Da quell’incontro ho tratto l’impressione (e malgrado certe oscurità del libro la conservo tuttora) che Piliu sia una di quelle persone talmente convinte dell’ovvietà, non tanto delle proprie convinzioni quanto dell’evidenza dei fatti oggettivi (e l’etnismo vive sostanzialmente di evidenze negate dalla propaganda e dall’ignoranza di massa che ne è vittima) da non concepire alcuna forma di diplomazia o mediazione. Presentarsi al cospetto del presidente Pertini in abito tradizionale o ricordare paternalisticamente a Guido Bodrato che il sardo mica è un vernacolo, non è – credo – come si potrebbe supporre un atteggiamento provocatorio, di sfida, ma la reazione spontanea (nata cioè da un’indignazione profonda) di fronte a un “galantuomo” che comanda un esercito di occupazione e a un ministro della Pubblica Istruzione che sembra ignorare i fondamentali.
Questo fa di Piliu la negazione del politico di successo perché, si voglia o no, in tutto il mondo, in Italia, in Sardegna, nessuno può scalare le istituzioni o capeggiare movimenti dicendo ciò che pensa e mostrando limpidamente i propri obiettivi 2).
I politici sono emanazione – non in senso elettorale ma antropologico – delle popolazioni, e se la Sardegna ha sempre consegnato i poteri locali a esponenti del Partito di Roma deve prendersela solo con se stessa. La gente come Piliu dice cose chiare, ovvie, che la maggior parte degli ascoltatori sardi condivide, ma poi al momento buono costoro votano il comunista o il forzista di turno. Come altrove, peraltro.
L’indipendentismo “attivo”, quello che ricerca vie alternative alle elezioni, è anche figlio di questa stanchezza interiore, del continuo ripetere ovvietà, decennio dopo decennio, senza che cambi mai nulla; irrisi e criticati, decennio dopo decennio, sempre dagli stessi giornalisti italioti, sempre con le stesse frasi fatte da quattro soldi.
Il concetto stesso di “lotta separatista” può essere declinato in modi diversi, ancora con il discrimine della solitudine, quella che Piliu confessa di patire e di cui non riesce a capacitarsi (e come dargli torto). Puoi trovarti con dieci o venti persone simili a te e inventare qualche azione dimostrativa (che non porterà a nulla, a meno di non avere uno Stato straniero alle spalle, come il Sudtirolo), puoi avere un piccolo esercito partigiano e compiere attentati (trasformandosi, tipo Eta, in un branco di tagliagole), o puoi avere un seguito popolare tale da indurre l’occupante a discutere con te da pari a pari, senza che voli uno schiaffo. Quest’ultima eventualità difficilmente si verificherà in Sardegna per via delle forze in campo, mentre potrebbe accadere (sognare non costa nulla) con altre realtà etniche più corpose. Come si vede, l’indipendenza inseguita alla faccia delle Costituzioni (esiste altro modo?) è un atto criminale oppure una dignitosa prova di forza, di efficienza e di superiorità muscolare e intellettiva a seconda che i separatisti siano pochi o tanti, poveri o ricchi, pigri o convinti…
Bainzu Piliu sembra doppiamente solo e singolare nel novero dell’indipendentismo sparuto: i gruppetti di questo genere tendono a essere esigui proprio perché disertati dagli individui più dotati di cultura e visione strategica, gli stessi che parteciperebbero e guiderebbero movimenti più vasti se prendessero piede. Con tutto l’affetto, qual è lo spessore “professionale” dei separatisti sardi processati negli anni ’80 o quello dei venetisti del Campanile o del Tanco? Che c’entrava il professor Piliu con questa gente (ammesso che un rapporto profondo esistesse)? Nulla, probabilmente, tranne che quando si è soli si cerca un compagno di cammino purchessia. È umano.
Giocando con il lettore
Ma torniamo a Cella n° 21. Ho cercato di capire il senso di questo libro e pertanto, dopo una prima lettura, ho chiesto a Piliu di spiegarmi alcuni punti oscuri. Il più macroscopico, a mio avviso, è la disomogeneità… ma chiamiamola pure contraddizione… tra la quarta di copertina, quella che di solito riassume il tema del libro inducendo il potenziale lettore a comprarlo o meno, e il contenuto. Leggiamola un po’:
Durante tutto il processo sul presunto complotto separatista, Bainzu non si è lasciata sfuggire alcuna confessione o una parola di pentimento. Oggi, dopo una vita trascorsa tra alti e bassi, nello studio e nella ricerca di conoscenza, affrontati i problemi familiari e quelli giudiziari, è approdato a una nuova dimensione esistenziale e fa lo psicologo. I ricordi del passato si affollano nella sua mente ed egli cerca di trovare un equilibrio tra gli ideali di un tempo e la loro possibile realizzazione. Tormentato dai rimorsi ha deciso finalmente di confidarsi coi lettori su un punto essenziale della vicenda giudiziaria che lo ha visto coinvolto: “… i giudici volevano da me tutta la verità e io non ritenni opportuno rivelarla … per riguardo alla loro sensibilità …e poi dovevo guardarmi dall’ira funesta di chi stava più in alto e mi osservava”.
Confessa, così, per la prima volta chi fosse il “grande vecchio”, l’animatore e la guida della cospirazione che avrebbe dovuto innescare la lotta contro lo Stato italiano fino al distacco della Sardegna e alla sua costituzione in Stato sovrano.
È stata una decisione sofferta, inconciliabile con i suoi trascorsi politici; egli è consapevole dei pericoli che corre, e ai quali espone anche il personaggio di cui rivela l’identità; sa bene che su di lui cadrà il discredito di quanti per tanto tempo hanno pensato che fosse coerente e lineare, ma il tormento interiore per aver taciuto la verità è più forte di ogni altra considerazione e gli impone oggi di parlare, con la speranza di trovare nel lettore almeno la comprensione se non il perdono.
Cosa capite, voi? Io questo: che una persona accusata a metà degli anni ’80 di cospirazione contro lo Stato e condannata ad alcuni anni di carcere, la quale durante il processo ha sempre negato l’esistenza stessa del reato, oltre a dichiarare la propria estraneità (e questi sono fatti storici noti), nel 2014 si pente di non avere detto la verità e promette di rivelarla al potenziale lettore. Quale verità? L’ingenuo pensa: se ha negato, ora che gli resta mai, a rigor di logica, se non ammettere? Tanto più che si comunica l’esistenza di un “grande vecchio” animatore e guida della cospirazione, quindi la cospirazione esiste, sempre a rigor di logica. Anzi, investirò 21 euro e leggerò nome e cognome del personaggio e magari, come impetra Piliu, perdonerò anche l’autore del libro…
Ora, oggigiorno siamo tutti abituati alla tv sensazionalista stile Misteri e Voyager che promette rivelazioni esplosive e, dopo un centinaio di effetti speciali, ti lascia a grattarti la testa, quindi avremmo scusato una spiegazione anche loffia tipo “il parroco era con noi” o “Cossiga sapeva”. Ma che nell’intero volume non si faccia il minimo cenno al grande vecchio, questo no, non va proprio giù. Non solo: l’impressione – ma qui posso sbagliare – è che, al netto di qualche contraddizione qua e là, l’autobiografia sostenga esattamente il contrario: il golpe separatista è da ritenersi presunto, Piliu non ammette assolutamente che ci sia stato e comunque lui non vi ha preso parte. Salvo inferire, sornione, che comunque avrebbe anche potuto o potrà fare la sua parte in futuro.
Alle mie obiezioni, Bainzu risponde:
Nella quarta di copertina mi limito a dire:
“i giudici volevano da me tutta la verità e io non ritenni opportuno rivelarla”. Con ciò non ammetto di aver partecipato a una congiura, dico semplicemente che renderò nota l’identità del “grande vecchio”. Il mio “pentimento” non va oltre. Le due cose sono molto diverse!
In tutte le fasi del processo ho sostenuto di non aver partecipato ad alcuna congiura, inoltre, non ho mai affermato che si trattasse di “una cosa montata dai servizi”; altri lo fecero. Del “grande vecchio” parlò il giudice istruttore, non io. Volendomene occupare nella stesura del libro, ho presentato una scena e ho usato determinati vocaboli; leggendo con attenzione e riflettendo si può giungere a identificare in modo univoco il misterioso personaggio. Finora due soli lettori lo hanno fatto. La maggior parte degli altri non si è soffermata a sufficienza sulle mie parole ma ha seguito d’impulso un proprio percorso mentale, allontanandosi sempre più dalla “verità”. Così è stato per te. Comunque, io rifiuterò sempre di dare conferme al riguardo, non mi pare il caso. Sic stantibus rebus, non riesco a vedere né scorrettezze né incongruenze.
Anzi, direi che trovo la cosa piuttosto divertente.
Si potrebbe affermare che questa non è una risposta a tono a una serie di domande, che non traspare il minimo desiderio di chiarire le idee al lettore, che un libro presentato come un pezzo di storia dell’indipendentismo non può trasformarsi nella Settimana Enigmistica; ma ad aprire uno spiraglio di comprensione è la frase finale: Piliu si sta divertendo. A ottant’anni si toglie il gusto di fare cippirimerlo ai magistrati che l’hanno inquisito, ai dirigenti sardisti che non l’hanno appoggiato e al brigadiere che inevitabilmente ascolta le sue telefonate. Bene, diciamo pure che ne ha il diritto, anche se il lettore un po’ ci rimane male.
Intervista mancata a un indipendentista
Ma, ammettiamolo, i suddetti son fatti del tutto secondari. Probabilmente non a tutti importa qualcosa dell’esistenza o meno di un golpe capeggiato da Salvatore “Doddore” Meloni o di un burattinaio così lungimirante da ispirarlo. A interessare è semmai l’esperienza sardista di Bainzu Piliu e ciò che può trasmettere alle giovani generazioni dell’isola e ai “continentali” per aiutare i primi a combattere per la propria libertà, i secondi a comprendere meglio il popolo sardo con le sue aspirazioni.
Molti articoli, lettere e proclami di Piliu riportati nel libro sono veramente di alto livello, sia per come affrontano i retroscena storico-antropologici che hanno condotto al secolare subordine della Sardegna, sia per l’incitamento a riappropriarsi di lingua, cultura e autodeterminazione politica. In verità è proprio di questo che ci sarebbe piaciuto parlare con lui nell’intervista che avevamo più o meno concordato, quasi un quarto di secolo dopo quella raccolta nella sua casa di Sassari.
Il fatto è che alcuni aspetti dell’ideologia piliana lasciano un tantino perplessi, e non dovendosi trattare di un’intervista condotta a tappetino, ho inviato le mie domande-dubbio al professore. Risultato? Di nuovo il rimprovero di non aver capito niente e l’invito a rileggere il libro (che stavolta, per il mio equilibrio, ho declinato).
Inoltre, mentre un Piliu in versione “quarta di copertina” aveva in precedenza accettato l’intervista – dichiarandosi, anzi, interessato alla reazione degli “italiani” – ora in versione riveduta e corretta non riusciva più a comprenderne l’utilità: in fondo avrebbe, nelle sue intenzioni, effettuato una serie di presentazioni capillari in territorio sardo per raggiungere il pubblico che gli interessa (non sappiamo se con diritto di domande e critiche).
Ecco le tre osservazioni incriminate:
Il tuo atteggiamento “politico” nei confronti dell’indipendentismo, così come lo riporti nel libro, appare oggi terribilmente obsoleto. A parte la contiguità con sinistre stile Democrazia Proletaria, che oggi come allora definiscono l’autonomismo “particolarista” e l’etnismo “razzista” – a meno che caso per caso non gli faccia comodo allearvisi – il terzomondismo applicato alla Sardegna mi pare un autogol. Io oggi incontro sardi che si vantano di essere geneticamente il prototipo degli europei, non certo di essere imparentati con Gheddafi. Tu ventilavi una Sardegna ponte tra il sud e il nord del Mediterraneo, ma questa terminologia aveva senso ai tempi dell’impero romano. Oggi la “sponda sud” è un’invenzione dei dhimmi di Bruxelles per farci trangugiare quello che è semplicemente il “Nordafrica”. Insomma, saldarsi al terzo mondo soltanto perché avete in comune un’oppressione coloniale mi sembra sbagliato e fallimentare.
Avrei un secondo appunto. Nel tuo articolo dal carcere Ite kerimus e proite (1983) fai di nuovo una saldatura tra veterocomunismo e, stavolta, meridionalismo:
“Le popolazioni calabre, campane, lucane, pugliesi e così via, sono state lasciate nell’abbandono, trascurando le loro capacità creative, ignorando le risorse naturali, utilizzando quelle regioni esclusivamente come serbatoio di braccia, di soldati e di voti. Le male piante della camorra e della mafia non sono perciò da imputarsi ai campani e ai siculi ma in larghissima misura sono una colpa incancellabile dei governi centrali che, per inettitudine e corruzione, hanno lasciato che si creassero le condizioni favorevoli allo sviluppo di associazioni a delinquere, quando non hanno essi stessi fruito dei servigi di camorristi e mafiosi.”
Sembra di leggere Gramsci quando parla del proletariato meridionale sfruttato dalla borghesia nordica. A parte che gli imprenditori del nord stanno morendo per mano del governo di Roma, che le popolazioni padane vengono dissanguate dalle allegre regioni meridionali e che l’indipendentismo padano viaggia spesso mano nella mano con quello sardo (e quando tu scrivevi l’articolo le cose stavano più o meno allo stesso modo), il vero autogol sta nell’accettare e addirittura abbracciare la tesi tipicamente “italiana” della Sardegna come parte del meridione, ugualmente sfruttata dal cattivo nord. Anche il grande Virginio Titone 3), pur avendo fatto piazza pulita del meridionalismo lagnoso, ha commesso lo stesso errore di infilare la Sardegna nel calderone, mentre i sardi sono tutt’altra cosa.
Un terzo limite, che ho individuato nel libro ma soprattutto discutendo con te, è uno scarso interesse per la comunicazione al di fuori della Sardegna. Tu ritieni che i tuoi (o vostri, in quanto gruppo ideale di indipendentisti) interlocutori siano soltanto i sardi, e che gli “italiani” al massimo possano scoprire che “la Sardegna è bella”, ma che siano paghi dei risultati dello sfruttamento della vostra terra, delle servitù militari, eccetera; ovvero che a tutti i cittadini della Repubblica faccia comodo il furto delle vostre risorse. Insomma, siamo ancora all’“isola” contrapposta al “continente”.
Non è un atteggiamento autistico, che non tiene in alcun conto la plurietnicità del mondo al di là del mare? Non pensi che se anche solo un 10% di cittadini votanti prendesse coscienza di queste realtà sarebbe un passo avanti?
Quello di cui, a mio avviso, alcuni intellettuali sardisti non si rendono conto è che i guasti che denunciano sono quasi sempre sconosciuti altrove. Da una parte, è vero, perché i giornaloni se ne fregano se piovono missili sulle spiagge di Capo Teulada; ma dall’altra perché stanare uno studioso, un linguista, un autonomista o un archeologo sardo e indurlo a parlare è un’impresa spesso difficile…
Domande che rimarranno senza risposta. E tuttavia, rileggendole, mi rendo conto che Bainzu Piliu ha fatto bene a darmi il benservito. Nelle mie intenzioni dovevano essere legittime curiosità, diciamo persino perplessità, ma a conti fatti tradiscono la sostanziale (e probabilmente ignorante) convinzione che, nel 2014, gli insegnamenti e le proposte da consegnare ai giovani – sardi e non – per riappropriarsi della loro cultura dovrebbero essere ben altri. Me ne scuso e mi ritiro in buon ordine.
NOTE
1) Intervista tratta da Roberto C. Sonaglia, Brandelli d’Italia, “Chorus”, settembre 1990. Il tono dell’articolo è volutamente ironico e distaccato, com’era (è) d’obbligo per far passare argomenti etnici sulla stampa generalista.
2) Anche se in un articolo di “Sassari Sera” del gennaio 1985, il direttore Careddu definisce Piliu “calcolatamente folcloristico”.
3) Virginio Titone, La festa del pianto, presentato qui.