Domenica 4 settembre a San Pietro, davanti ai cardinali chiamati in concistoro, papa Giovanni Paolo I al secolo Albino Luciani è stato beatificato da papa Francesco. Il papa ha ratificato la tesi del cardinale Beniamino Stella, postulatore della sua causa di beatificazione, anche in riferimento al miracolo di Giovanni Paolo I nei confronti di una bambina argentina.
La storia dell’undicenne Candela Giarda, affetta da una gravissima malattia neurologica, e della sua guarigione miracolosa l’ha raccontata padre Juan José Dabusti, parroco nella parrocchia di Nostra Signora di La Rábida nel centro di Buenos Aires e testimone del miracolo. Il sacerdote argentino, chiamato al capezzale della giovane colpita da un attacco epilettico (per i medici non avrebbe passato la notte), di fronte alla disperazione della madre chiese l’intercessione di Giovanni Paolo I. Egli raccontò che “spinto dallo Spirito Santo, insieme a lei e ad alcune infermiere, lo pregammo chiedendo la guarigione della bambina”.
Don Albino dal Veneto, terra di fede
Albino Luciani nacque a Forno di Canale (oggi Canale d’Agordo, BN), un paesino delle Dolomiti, il 17 ottobre 1912 da una povera famiglia. Suo padre era Giovanni Luciani (socialista) e sua madre Bortola Tancon. Nell’ottobre del 1923 entrò a soli 11 anni nel seminario minore di Feltre, e in seguito, nel 1928, nel seminario interdiocesano maggiore di Belluno.
Ordinato diacono il 2 febbraio 1935, in luglio venne ordinato sacerdote nella chiesa di San Pietro Apostolo a Belluno. Nominato cappellano e vicario di Canale d’Agordo, vi si trasferì fino al luglio 1937. Insegnò religione all’istituto minerario e poi al seminario gregoriano di Belluno. Dal 1937 al 1947 fu nominato vicerettore. Nel febbraio 1947 si laureò in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma.
Durante le elezioni politiche dell’aprile 1948 collaborò alla vittoriosa campagna di propaganda di papa Pio XII contro il fronte social-comunista. Ebbe una cura particolare per la catechesi, alla quale riservò un posto centrale nella sua azione pastorale a Vittorio Veneto, a Venezia e a Roma. Nel 1954 divenne vicario generale della diocesi di Belluno e nel 1956 fu nominato canonico della cattedrale di Belluno; fino a quando papa Giovanni XXIII, il 27 dicembre 1958, lo consacrò vescovo di Vittorio Veneto dove si insediò l’11 gennaio 1959.
Nel 1962 dovette fronteggiare il dissesto finanziario della diocesi causato da due sacerdoti. Affrontò con coraggio il problema, e in pochi mesi sanò con enormi sacrifici, fino all’ultima lira, i debiti verso i creditori.
Tra il 1962 e il 1965 partecipò al Concilio Ecumenico Vaticano II. Luciani non intervenne personalmente, ma nella tesi inviata a Roma per la fase preparatoria auspicò che nel consesso emergesse l’”ottimismo cristiano” contro il “diffuso pessimismo” del relativismo, denunciando altresì una biasimevole ignoranza delle “cose elementari della fede”.
Egli si convinse – con eccessivo ottimismo – che il rinnovamento teologico del Concilio fosse circoscritto solamente alla dimensione pastorale. Sottovalutò il rischio insito nei nuovi metodi di consultazione episcopali collegiali, che diminuivano di fatto l’importanza della funzione del pontefice, anche perché, come affermò il cardinale Joseph Ratzinger, futuro Benedetto XVI, “la Chiesa non è una democrazia parlamentare”.
Divenne presidente della Conferenza episcopale triveneta ed entrò nella presidenza della Conferenza episcopale italiana come vicepresidente. Fu elevato a Patriarca di Venezia, il 15 dicembre 1969. Nel settembre del 1972 ricevette la visita di Paolo VI, il quale in piazza San Marco, dopo la messa, gli pose inaspettatamente sulle spalle la sua stola pontificale, cosa che lo imbarazzò non poco. Un gesto che in seguito venne considerato chiaramente profetico.
Il patriarca di Venezia visse le incombenze del secolo e le tensioni sociali e politiche: erano gli anni di piombo e del referendum sul divorzio del 1974. Si cercò a torto di farlo passare come progressista per alcune presunte posizioni favorevoli alla contraccezione. Paolo VI istituì una commissione teologica incaricata di esaminare le ricadute che un’eventuale apertura al tema avrebbe avuto in campo dottrinale. Nel 1968 il papa, di fronte a una società in deriva verso il secolarismo e mentre la scienza cominciava a “mettere le mani” sulla procreazione, riconfermò la dottrina della Chiesa sulla famiglia e il matrimonio promulgando la Lettera Enciclica Humanae Vitae: Luciani la difese sempre con estrema determinazione.
Era il tempo della “scelta socialista” delle ACLI e la rottura con i vescovi. Il patriarca ribadì l’inconciliabilità tra cattolicesimo e marxismo, nel quale scorgeva una manovra di radicale scristianizzazione della società. Si oppose a ogni ipotesi di rottura dello schieramento cattolico a favore dei partiti socialista o comunista in occasione delle scadenze elettorali.
Nel 1974 sciolse la FUCI veneziana (la federazione degli universitari cattolici) durante la campagna elettorale per il referendum sull’abrogazione del divorzio: la federazione aveva aderito al movimento dei “cattolici per il No”.
Sul tema dell’aborto si espresse nel giugno 1978, due mesi prima di diventare papa: “L’embrione è un vero essere umano, fornito di vita propria e di individualità distinta da quella della madre, anche se dalla madre dipende. E ciò fin dal primo istante della concezione”.
Non bisogna tuttavia credere che si sia schierato dalla parte del clero tradizionalista.
Ubbidiente al conciliarismo, guardò con ostilità ai difensori del rito tridentino imponendo il nuovo Messale di Paolo VI. Una sua lettera del 20 febbraio 1978 proibiva “a qualsiasi titolo la celebrazione della Santa Messa Vetus Ordo nella chiesa di San Simeone Piccolo a Venezia e nel territorio della diocesi”. Lasciò a don Siro Cisilino, sacerdote della zona, la facoltà di celebrare la Santa Messa di sempre solo in casa sua.
In verità, la pretesa di escludere quel rito e di escluderlo nel territorio della diocesi contrastava con i diritti della Costituzione Apostolica Quo primum Tempore di papa San Pio V. Questi, nella bolla del 1570, concedeva l’Indulto Perpetuo per poter seguire il suo Messale scrivendo: “Decretiamo e dichiariamo che le presenti Lettere in nessun tempo potranno venir revocate o diminuite, ma sempre stabili e valide dovranno perseverare nel loro vigore.”.
Nessun papa l’ha mai abrogata, né potrebbe farlo. Non si può fare altro che osservare la bolla perché, a fronte di un Indulto Perpetuo, non può essere revocata, tantomeno da un prelato anche se d’alto rango.
Il breve papato: la punta di un iceberg
La sera di sabato 26 agosto 1978 la fumata bianca annunciò ai cattolici e al mondo che i presuli riuniti in conclave avevano scelto, in sole 26 ore, il patriarca e cardinale di Venezia Albino Luciani come successore di Pietro e 263esimo vescovo di Roma. Questi prese il nome di Giovanni Paolo I. Si dice che la sua elezione fosse voluta dai cardinali vicini al defunto papa Paolo VI, Giovanni Benelli su tutti, i quali temevano l’elezione di un papa anticonciliare come il cardinale di Genova Giuseppe Siri.
In questo quadro, Luciani accolse la notizia della propria nomina con sconcerto sentendosi inadeguato all’incarico. Inoltre, essendo affetto da patologie polmonari fin dalla giovane età, riteneva (come aveva detto alla sorella prima di partire per Roma) di essere escluso dai papabili.
Dopo aver comunque accettato, apparve dalla loggia vaticana con la croce pettorale, lo zucchetto bianco “a tre quarti” e la stola pontificale.
Egli portò con sé da Venezia il motto episcopale Humilitas e scelse appunto il doppio nome Giovanni Paolo per gratitudine verso i due pontefici precedenti. Liberato poi dal cerimoniale vaticano, quando poté parlare alla folla che gremiva piazza San Pietro, disse con voce piena di emozione: “Non ho né la sapientia cordis di papa Giovanni XXIII, né la preparazione e la cultura di papa Paolo VI, ma sono al loro posto e devo cercare di servire la Chiesa. Spero che mi aiuterete con le vostre preghiere”. Da allora fu conosciuto come il ”papa del sorriso”, anche se dietro la sua personalità volutamente nascosta ai media si celava un uomo di Chiesa tenace, di grande complessità e per nulla malleabile.
Luciani rinunciò al tradizionale rito dell’incoronazione e il 2 settembre 1978 celebrò la Messa solenne di inizio del ministero petrino. Abolì il plurale maiestatis e la sedia gestatoria… che dovette essere poi ripristinata poiché i fedeli non riuscivano più a vedere il papa.
Alle udienze del mercoledì si presentò ai fedeli come un insegnante di catechismo. Tuttavia i suoi discorsi non erano per nulla semplicistici. Dopo la sua morte furono trovate le agende con le bozze dei discorsi preparati e studiati con dovizia di particolari, e purtroppo molti caddero in errore nell’interpretarli in modo banale. Alcuni giornalisti, soprattutto all’estero, travisarono al limite dell’offesa la sua grande cultura mai ostentata, soprattutto per quanto riguardava la sua opera più nota, Illustrissimi, una raccolta di articoli tratti dal “Messaggero di Sant’Antonio” (periodico dei Frati Minori della Basilica di Sant’Antonio di Padova, tradotto in molte lingue).
In uno dei suoi scritti del 1949, Catechetica in briciole, disse che “l’essenza del catechismo può essere più importante dei paroloni”. “Anch’io sono capace di parlare difficile ma, messo da parte il catechismo cari confratelli, non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Metterete avanti ‘l’imperativo categorico e filosofico diKant’? Non c’è confronto con il catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche e soddisfa le ricerche più penose dello spirito umano”.
Nei primi giorni di pontificato, il metropolita ortodosso Nicodim di Lenigrado, in Vaticano, morì d’infarto tra le sue braccia e Giovanni Paolo I gli dette l’assoluzione. Fu l’ultima triste esperienza prima di rendere, egli stesso, l’anima al Padre. Sopraggiunse improvvisa, dopo 33 giorni di papato (dal 26 agosto al 28 settembre), la morte naturale. Così annunciò in forma ufficiale la Santa Sede. Un fulmine che colpì il cattolicesimo universale profondamente addolorato per la dipartita di Albino Luciani, a quasi 66 anni, che portò subito molte congetture e speculazioni, ma la cui causa conosce solo l’Altissimo che persegue i suoi imperscrutabili disegni.
Non si fece l’autopsia. Allora non c’era una legge in Vaticano che la imponesse: la introdurrà Giovanni Paolo II nel 1983. I dottori Fontana e Buzzonetti, nel referto della morte, scrissero di “non ritenerla necessaria”. La visione del cadavere, la descrizione delle macchie, secondo la medicina legale indicava come causa del decesso un infarto.
Secondo lo scrittore Juan Manuel de Prada non fu omicidio: egli giudicò l’ipotesi “una immaginazione delirante; mai nessuna prova o anche solo indizio si è potuto però portare a conferma di tali maldicenze”.
Americo Mascarucci, giornalista e scrittore di libri a sfondo politico e religioso, comunque contrario a ogni ipotesi di complotto o omicidio, disse: “Se questa tesi avesse un fondamento in tanti potevano trarre un vantaggio dal fatto che Luciani morisse dopo un solo mese di pontificato”.
Come mai, dunque, nacquero subito congetture e supposizioni sul triste evento? Occorre dire che per i “sempre verdi” detrattori dell’Istituzione bimillenaria non pareva vero poter “intingere il pane” nei suoi misteri. A parte le Crociate e l’Inquisizione (s’imporrebbe un discorso a parte), non è qui il caso di elencare le nefandezze di taluni ecclesiastici venute a galla proprio negli ultimi anni (pedofilia e omosessualità praticata), stigmatizzate e sanzionate a partire da Benedetto XVI. Tuttavia, di converso, non basterebbe una vita per raccontare il sacrificio di martiri santi dei Benedettini, costituenti della civiltà occidentale, e delle opere di carità.
I tentacoli della massoneria
Tornando al pregresso di Luciani sappiamo che i suoi trascorsi di patriarca di Venezia lo videro contrastare le manovre occulte della massoneria. Checché ne dicano i suoi sodali, questa è sempre stata (e resta) una società segreta operante all’insaputa di tutti, attraverso personaggi noti, ma la cui appartenenza resta circondata dal più rigoroso mistero. Gli uomini della setta, sotto mentite spoglie filantropiche, sono sempre stati inclini a favorire con ogni mezzo gli interessi dei loro pari grado.
Nel caso di Luciani, come vedremo, si potrà ipotizzare un rapporto di causa-effetto che non offre nessuna prova certa sul nesso tra la morte del Papa e un complotto per eliminarlo, ma che non esclude e comunque autorizza una chiave di lettura anche in questo senso.
In effetti nel 1972 il patriarca entrò in rotta di collisione con il tristemente famoso monsignor Paul Marcinkus, presidente dell’Istituto per le Opere di Religione. Luciani fu molto contrariato (per usare un eufemismo) quando lo IOR vendette, a sua insaputa, al Banco Ambrosiano il 37% delle azioni della Banca Cattolica del Veneto, conquistando così la maggioranza relativa della banca. La vendita avrebbe modificato le condizioni dei tassi favorevoli per le parrocchie e le diocesi.
La manovra finanziaria venne gestita negli anni ‘70 dal direttore generale del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, uomo potente soprannominato “il banchiere di Dio”. Fu trovato impiccato a un traliccio sotto il ponte londinese dei Frati Neri nel 1982: una morte tuttora avvolta da misteri oscuri e irrisolti.
Neanche un mese dopo l’elezione del papa, sul n. 24 del 12 settembre 1978, la rivista “Osservatore Politico” del giornalista Mino Pecorelli (ucciso a Roma nel 1979) pubblicò l’articolo La Gran Loggia Vaticana, contenente una lista di 113 presunti massoni ecclesiastici. Pecorelli non precisò la fonte, ma – autentico o meno – l’elenco gettò ombre sulla gerarchia e non poté non turbare il neoeletto pontefice, il quale sembra avesse intenzione di togliere dalla sua chiacchieratissima posizione Marcinkus, guarda caso uno dei nomi sulla lista…
Tuttavia un altro macigno venne posto sulla strada di papa Luciani. Dopo il Concilio, la Compagnia di Gesù, guidata da Pedro Arrupe, aveva avviato una profonda riforma interna chiedendo un’apertura al laicato e un impegno diretto dei gesuiti nei contesti politici e sociali. Essa aveva aderito alla teologia della liberazione dell’America Latina, con la partecipazione della Chiesa locale alle rivoluzioni e alle lotte di liberazione. Paolo VI aveva manifestato contrarietà ai propositi di Arrupe e lo aveva convocato a Roma, rimproverandolo duramente.
Luciani, in linea con il predecessore, avrebbe voluto ricondurre la Compagnia sui binari dell’ortodossia e riportare i gesuiti a prima del Concilio, ovvero al ruolo di difensori della dottrina. Non vi fu il tempo per Luciani di ricondurre all’ovile di Cristo le “pecorelle smarrite”, tuttavia scrisse loro una lettera che verrà poi resa pubblica. In essa, si condannavano le tendenze secolarizzatrici individuando nella loro “svolta” teologica il pensiero del gesuita Karl Rahner, il quale credette di annullare la Rivelazione divina ponendo l’uomo al centro di tutto. Richiamò dunque i gesuiti, o quello che oggi definiamo gesuitismo, all’originario carisma della Compagnia, nel nome di Nostro Signore Gesù.
Il papa ribadì come l’impegno politico non fosse compito dei gesuiti; i quali anzi avrebbero dovuto ritornare al pensiero di Sant’Ignazio di Loyola, rammentando che il loro primo dovere era difendere l’integrità della fede dai tentativi di assimilazione con la mentalità contemporanea.
Albino Luciani non riuscì a leggere pubblicamente la lettera e morì prima del discorso.
In conclusione
Giovanni Paolo I, come si è visto, non fu un papa conservatore, anche alla luce della sua zelante fedeltà al Vaticano II con le relative innovazioni. Tuttavia non può essere paragonato a Bergoglio, visto che questi non ha mai richiamato all’ordine i propri confratelli gesuiti, i quali, contro gli auspici di Luciani, hanno continuato a contaminarsi con il mondo. Il suo papato, per quanto brevissimo, è stato un dono (messo in ombra dal suo successore Giovanni Paolo II) ed è necessario ricordarlo soprattutto per la sua vita, e non per la sua morte come invece si tende a fare oggi.