Il 24 maggio 1796 il tranquillo borgo agricolo del Milanese veniva quasi completamente incendiato e distrutto da una “spedizione punitiva” francese: in questo modo, il “Grande Corso”, vittorioso sugli Austriaci, dopo requisizioni, intimidazioni, spoliazioni, imposte decretate a tamburo battente, affermava e diffondeva qui come in tutta Europa il suo messaggio di “liberté, égalité, fraternité”.
“Gli abitanti di Binasco non più oltraggeranno i Francesi. Sterminati, erranti e fuggitivi, essi portano le pene dovute al loro attentato; e la fiamma divoratrice che serpeggia ancora intorno ai loro asili, dimostra…” Queste parole apocalittiche sono tratte dal proclama che il generale francese Despinoy, comandante la piazza di Milano, pubblicò il 27 maggio (o meglio il 9 pratile, per usare la data del tempo) del 1796. Il bando venne affisso ovunque per le vie di Milano e nei paesi del contado, ed il suo significato era chiaro: chiunque avesse tentato altre ribellioni contro le truppe francesi sarebbe incorso senza scampo nel “giusto gastigo”, ossia avrebbe fatto la fine degli abitanti di Binasco le cui case erano in preda alla fiamma divoratrice.
Il fatto era accaduto tre giorni prima, il 24 maggio: una spedizione punitiva francese contro Binasco, comandata dal generale Garnier, nel corso della quale i soldati avevano sparato, trucidato, saccheggiato le case, e alla fine appiccato il fuoco ovunque. A sera inoltrata era arrivato a Binasco il generale Bonaparte in persona, accompagnato dall’Arcivescovo Filippo Visconti, e, constatato il buon lavoro fatto dai suoi soldati, aveva deciso che il “giusto gastigo” poteva bastare, e autorizzato l’inizio dei lavori di spegnimento. A spegnere le fiamme si accinsero i pochi Binaschesi rimasti in paese, poi ritornarono quelli che erano fuggiti per le campagne, e con loro vennero molti volontari dai paesi vicini; ma pare che ai volontari, più che spegnere gli incendi, interessasse visitare le case saccheggiate e cercare se era rimasto qualcosa. Comunque, le fiamme ardevano ancora a tre giorni di distanza, quando appariva sui muri di Milano il proclama di Despinoy. Metà delle case di Binasco andarono distrutte. L’episodio si inserisce nelle intense giornate del maggio 1796, in cui tante cose assieme erano accadute in un brevissimo arco di tempo: l’arrivo in Italia dell’esercito repubblicano francese, la sua vittoria sugli Austriaci a Lodi, l’entrata in Milano del Bonaparte, l’entusiasmo popolare e l’erezione degli alberi della libertà; e contemporaneamente le requisizioni, le spoliazioni, e le prepotenze dei Francesi. Non ci volle molto tempo perché i Lombardi cambiassero umore: i primi episodi di ribellione si ebbero poco più di dieci giorni dopo la battaglia di Lodi, seguiti da una immediata repressione.
È significativo dare uno sguardo alla rapida successione degli avvenimenti come risulta dalle cronache del tempo. Il 10 maggio Bonaparte sconfigge gli Austriaci al ponte di Lodi; il 14 entra a Milano l’avanguardia francese comandata dal Massena, ed il giorno stesso viene imposta la requisizione dei cavalli da sella. L’indomani, Bonaparte fa il suo ingresso solenne in Milano, accolto da grandi festeggiamenti, e prende alloggio a Palazzo Serbelloni, nell’attuale Corso Venezia. Il 18 si erige in piazza del Duomo l’Albero della Libertà “… intorno a cui si commettono stranezze di ogni sorta”; nello stesso giorno viene annunciata una imposta straordinaria (“Una Tantum”) di venti milioni di franchi. Il 21 maggio il Cittadino (Duca) Gian Galeazzo Serbelloni viene eletto Presidente della Municipalità, i cui atti vengono emessi “in nome della Repubblica Francese”. I Francesi requisiscono al Monte di Pietà tutti i pegni di valore superiore ai cento franchi. Poi, per dare un colpo al cerchio dopo uno alla botte, decretano che quelli rimasti vengano restituiti gratuitamente ai pignoranti. Il 22 maggio si verificano i primi incidenti: grida sediziose, schiaffi a chi va in giro con coccarde francesi, e simili. Viene decretata una nuova imposta straordinaria (seconda “Una Tantum” in quattro giorni) di 14 denari per ogni scudo di estimo. Il 23 maggio è ordinata la requisizione di tutti i cavalli, ossia di quelli già scampati alla requisizione di nove giorni prima. Si accendono dunque i tumulti antifrancesi. A Milano si tenta di suonare a martello le campane di San Gottardo, ma il parroco riesce a impedirlo. I soldati francesi riprendono subito il controllo della situazione; ma a Pavia si sviluppa una vera rivolta. Tumultuano anche le campagne tra Pavia e Milano. Quanto a Binasco, vi si radunano frotte di contadini armati che suonano le campane a stormo, ammucchiano sassi come munizioni da lancio e ostruiscono gli ingressi al paese con barricate. La spedizione punitiva francese si mette in moto da Milano a mezzogiorno del 24; i cittadini più prudenti, con il parroco Don Stefani, insistono per inviare una delegazione incontro ai Francesi per tentare un accomodamento e salvare il paese, ma ne vengono impediti dai rivoltosi. Il drappello di cavalleggeri inviato d’avanguardia è accolto a fucilate; un dragone rimane morto sul terreno. All’arrivo del grosso delle truppe, la resistenza è di breve durata: esaurite le scarse munizioni, i rivoltosi si danno alla fuga per le campagne e i Francesi entrano in paese a baionette spianate dando inizio al saccheggio e all’incendio. Un paio di giorni bastarono a Bonaparte per domare la rivolta a Pavia e nelle campagne vicine. In Milano, dove si trovavano già riunite molte truppe, era bastato assai meno. Il 26 maggio ci fu a Milano l’esempio di una pubblica esecuzione (Pomi Domenico, popolano, fucilato al mercato di Porta Ticinese); il giorno seguente il proclama di Despinoy rese noti i fatti di Binasco additandoli a severo monito per tutta la Lombardia. È così che Binasco, tranquillo borgo agricolo tra risaie e marcite, divenne un tragico esempio con le sue rovine fumanti. Binasco pagò per tutti, così come aveva pagato il Pomi Domenico.