Sperduti tra le montagne franco-liguri, nessuno li aveva sentiti nominare, tranne pochi specialisti in linguistica o qualche studioso di problemi alpini. Chi sono e come si è giunti alla loro “scoperta”.

Nel 1980, dopo circa vent’anni di ricerche etno-antropologiche, dirette e indirette, dedicate in grande prevalenza all’America india, dovetti ridurre questa attività perché la situazione dell’America Centrale (specie del Guatemala a cui lavoravamo Azzo Ghidinelli e io) non consentiva più soggiorni tranquilli e contatti regolari. Tale rallentamento di attività mi fece riflettere sul fatto che, nel campo italiano ed europeo, avevo prodotto poco. E la Liguria, di conseguenza – specie quella contadina e montana così diversa da quella costiera – era restata completamente fuori dalle mie ricerche. Dopo alcune prospezioni in provincia di Imperia, in alcuni centri di indubbio interesse demo-etno-antropologico (Ceriana, Pigna, Olivetta, San Michele, Pieve di Teco, Triora, Baiardo e altri) rilevai che l’estremo ponente, quello che confina con la Francia e il Piemonte, era ignorato dalla letteratura etno-antropologica: il compianto Lamboglia si era dedicato esclusivamente all’archeologia, Teofilo O. De Negri alla storia, ed Enzo Bernardini scrive piacevoli e interessanti libri, ma sulla vita degli antichi preistorici liguri. Il canonico Guido Pastor, di Buggio, il quale trent’anni fa era stato parroco a Realdo e Verdeggia, mi segnalò che in quella località “potevano permanere tracce dell’antica cultura pastorale”. Partii quindi per una breve escursione domenicale a Realdo. Fu un’ispirazione: il fatto di aver incontrato subito alcune interessanti persone anziane, aver sentito parlare il loro linguaggio (che riuscivo a capire in parte, ma attraverso il piemontese o il francese), aver potuto subito gustare il piatto tipico brigasco, i süggéli, fu determinante. E senza aver letto nulla di specifico sulla loro cultura, decisi immediatamente di dedicarmi a una esauriente ricerca demo-etno-antropologica. Non rifarò, ovviamente, né la storia della ricerca né della metodologia seguita, che saranno diffusamente esposte nel volume Cultura alpina in Liguria: Realdo e Verdeggia (Un’interpretazione etno-antropologica) che la casa SAGEP di Genova pubblicherà entro il 1984. Dirò solo che ho usato un metodo sincronico con fonti rigorosamente astoriche (con questo non voglio dire che la ricerca voglia o anche solo possa essere astorica!), ossia le “fonti orali” di un numero rilevante di persone anziane (130 interviste su un numero stimato di realdesi e verdeggiaschi, compresi quelli della diaspora, di ottocento-mille), di cui una trentina intervistate periodicamente e a lungo nell’ambito di tre anni. Un metodo che definisco neofunzionale, senza volermi attribuire particolari etichette. Ciò mi ha consentito la raccolta di una massa enorme di dati, completati dall’“osservazione partecipante”, dalla ripresa di duemila diapositive, più schizzi, disegni, carte tematiche e, cosa importantissima, la raccolta del lessico di due paesi e la costruzione di una grammatica, compiti questi a cui fui cortesemente spinto dalla professoressa Petracco Sicardi, direttrice dell’istituto di Glottologia dell’Università di Genova.

Chi sono i Brigaschi dunque? E, domande conseguenti, si possono definire un gruppo socio-culturale a sé? In che modo può essere classificato il loro linguaggio? Che origine storica hanno? Collochiamoli intanto nello spazio: trattandosi di un popolo di montagna, i loro confini sono netti e precisi. Appartengono a questa cultura gli abitanti dei centri di Realdo, Carmeli, Verdeggia in Liguria (provincia di Imperia, Comune di Triora), di Piaggia, Upega, Camino in Piemonte (provincia di Cuneo, comune detto di Briga Alta), di Viozène a ovest del Rio Regiùs (sempre in provincia di Cuneo, ma nel comune di Ormea), di Briga Marittima e Morignolo, costituenti un comune del dipartimento delle Alpes Maritimes, oggi in Francia. Un confine assurdo quindi, calato come una scure impietosa il 10 febbraio 1947, quando la Francia per l’abilità gollista fece credere al mondo di aver vinto la guerra e spaccò in due una comunità cosi culturalmente omogenea. Il nome “Brigaschi” deriva dalla cittadina di Briga Marittima, ora in Francia, da cui emigrarono per ragioni economiche, ma certamente anche politiche e forse religiose, tra il XV e il XVI secolo. Prima, i centri erano masagi, cioè centri residenziali estivi per la pastorizia; divennero poi centri abitati permanentemente. Quando si sia formata l’etnia brigasca è difficile dire: non pare sia molto antica, risale forse all’XI o XII secolo.

Uno studio storico-antropologico manca ancora e quindi ci esprimiamo qui in via di ipotesi. Il fatto che il cognome più diffuso sia Lanteri (di chiara origine germanica: burgunda, gota, franca o longobarda), cui si aggiungono quelli di Alberti (di “stile” germanico), di Pastorelli (che indica solo una professione) e poi di Banaudi (con desinenza occitana), Barucchi (dall’ebreo baruch con desinenza piemontese?), Lanza (a Briga), Dolla (a Viozène), complica il problema della origine dei Brigaschi, ma ne fissa il polo di diffusione in Briga Marittima. Forse, quello dell’origine è un problema che dovremo affrontare solo alla fine dei nostri studi, dopo cioè il completamento dell’analisi demo-etno-antropologica e di quella linguistica.

 

I caratteri

Caratteristiche fondamentali della cultura brigasca, dal punto di vista etnoantropologico, sono le seguenti:

a) Isolamento. Una condizione di isolamento intorno al triplice spartiacque Roja/Tanaro; Tanaro/Argentina; Argentina/Roja. Briga Marittima era vicino alla strada del colle di Tenda, ma ciò non le impediva di fare vita a parte. Poi giunse la ferrovia all’inizio del secolo. La Val Tanaro ebbe la strada carrozzabile intorno al 1950 ed essa è asfaltata solo da tre anni. La via dell’Argentina fu ancora più lenta a raggiungere l’Alta Valle: essa entrò in area brigasca (e il punto storico è l’Arma Pisciusa), se non erriamo, intorno al 1954; nel 1964 arrivò a Verdeggia, nel 1970 a Realdo. Prima le comunicazioni erano assicurate dai muli e le merci trasportate ai paesi mediante una teleferica. Tutti i territori brigaschi delle tre valli nascono da una strozzatura: nella Val Roja la Gola di Berghe, nella Valle Argentina dall’Arma Pisciusa, nella Val Tanaro le strettoie tra Ponte di Neva e Viozène (ma in tal caso si includono alcuni piccoli centri di dialetto ormeasco) oppure si salta Viozène e si considera il limite all’inizio del magnifico “canyon” di sette chilometri per andare a Upega. L’isolamento geografico veniva interrotto solo dalla bandia, cioè dalla transumanza a mare, quando lesorte di pecore venivano portate a svernare sulla costa, tra il Var e la piana di Albenga. La transumanza, però, non creava stretti legami con gli abitanti della Riviera, se non per certe categorie marginali di esse. Da Realdo si andava a Briga, capoluogo della Cumüna, in quattro-quattro ore e mezzo di strada (salvo il periodo invernale), e a Triora in tre ore e mezzo.

b)Sistema alpino. Il sistema di vita era tipicamente alpino, avente, non lo neghiamo, parecchi tratti comuni con i liguri montani, siano essi di Pigna o di Buggio o dell’Alta Valle Arroscia. I Brigaschi sono però, in Liguria, l’unico gruppo a cultura esclusivamente alpina di tipo pastorale, con l’integrazione di un’agricoltura interessante. Gli altri Liguri sopraccitati hanno qualche elemento in più che non permette di definirli come “esclusivamente alpini”: il vino, l’olio, un sistema di vestirsi e di alimentarsi notevolmente diverso.

c)Economia non monetaria e a ciclo chiuso. La condizione di isolamento rendeva necessaria un’“economia a ciclo chiuso completo”. Praticamente, tutto veniva prodotto in loco, tranne il sale e una parte della strumentazione agricola, il che dava luogo a un’economia assolutamente non monetaria, nel suo interno, e molto limitatamente monetaria all’esterno. Questo ha stimolato (o ne è stato l’effetto?) l’inventiva dei Brigaschi, che sono indubbiamente di alto quoziente intellettivo e molto versatili. Forse non tutti sapevano fare il pastore, ma i pastori facevano anche i contadini, le case se le costruivano da soli, molti avevano dimestichezza con il lavoro del legno. Vestiario, scarpe, ferri per le bestie venivano prodotti in loco. Questo tipo di economia a ciclo chiuso completo non è certo una prerogativa dei Brigaschi, ma per essi era più rigida e diversa, in tanti particolari, da quella degli altri gruppi finitimi.

d) Coscienza etnica. L’isolamento porta a particolari atteggiamenti psicologici, nettamente etnocentrici. I Brigaschi hanno un doppio etnocentrismo: uno di paese e uno di gruppo. Hanno vivissimo il senso di appartenenza a un gruppo ben definito, cioè quella che si chiama “coscienza etnica”. Essa non è mero fatto che interessi solo gli psicologi: è un fatto importante che comporta delle conseguenze non sempre positive. Positivo è il senso di orgoglio, specie a Briga e Realdo, il senso civico, il rispetto rigoroso delle regole di lavoro, l’aiuto reciproco, il lavoro comune, il rispetto dei genitori, la tenacia nel lavoro, l’inventiva, la sopportazione della durezza della vita, la cartesiana semplicità del ragionare, la religiosità forte ma di tipo naturalistico, la facilità nell’apprendere. Come gruppo, poi, i Brigaschi disprezzavano soprattutto iFigun (cioè i Liguri, quelli che stanno da Triora in giù fino ad un punto non ben determinato: pare che i Genuisi o Genovesi non siano considerati figun, cioè mangiatori e venditori di fichi). I Piemontesi sono più rispettati, anche perché tutti i centri della zona brigasca appartenevano agli Stati Sabaudi (esclusi, ma non sempre, Verdeggia e Viozène) e i Brigaschi erano ottimi soldati. Durante il servizio militare e anche per i contatti con i pastori degli altri versanti, imparavano perfettamente il piemontese, che tutti capiscono e quasi tutti parlano, anche oggi. Le simpatie maggiori fuori del gruppo vanno alla gente dell’area d’Oc, naturalmente quella contigua: Saorgio, Tenda, i Nizzardi, gli Occitani alpini. Non hanno tuttavia, se non in epoca recentissima, la conoscenza del termine “occitano”: è più conosciuto quello di “provenzale”, anche se la lingua storica della Provenza, il félibrige  mistraliano, è più lontano dal brigasco che non i linguaggi occitani alpini del versante piemontese. I Francesi “etnici” non sono in generale ben visti; bisogna infatti stare attenti: quando parlano di francesi, molto spesso vogliono dire Provenzali, Nizzardi, eccetera. Nondimeno la Francia come Stato ha sempre esercitato un forte richiamo economico in tutti i Brigaschi, che in parte si espressero in suo favore nel discutibile referendum del 1947.

 

Campanilismo e variante razziale

La coscienza etnica ha effetti pratici come l’endogamia. Il gruppo brigasco era fortemente endogamico. Una Realdese che sposasse un detestato figun era ipso facto squalificata; meno grave era il giudizio se sposava un Piemontese.. Purtroppo, questo senso di coscienza di gruppo, che esiste ed è comprovato anche oggi, ha il suo lato negativo: il campanilismo. Campanilismo che una volta aveva una ragione storica di essere in quanto Verdeggia apparteneva politicamente a Genova e Viozène era contesa, mentre il resto era sabaudo. Gli etno-antropologi sanno che questo atteggiamento esiste in tutto il mondo, che non ha alcun valore scientifico (in quanto non deriva necessariamente da differenze razziali, linguistiche o culturali): “quelli del villaggio vicino sono brutti, sono scimmie, sono cattivi, si odiano tra loro, aggrediscono le nostre ragazze, ci rubano tutto… Noi siamo buoni, belli e intelligenti, non portiamo via niente a nessuno, le nostre donne sono un modello di purezza, noi siamo i veri uomini”. Che questi discorsi si sentano nei villaggi dell’Amazzonia o in quelli dell’Africa Occidentale è plausibile; che ci sia qualcuno che li fa con convinzione a quaranta chilometri da San Remo fa un po’ ridere. Ma, tant’è, qualche espressione in questo senso l’ho sentita: “I Realdesi sono duri con noi”, “I Brigaschi [quelli di Briga Marittima] trattano tutti dall’alto in basso”, “I Verdeggiaschi sono una razza mista, sonofigun senza fighe”, “I carniné è meglio lasciarli perdere”. “I Viozenesi parlano come noi, ma sono ën géch ciü grami [un po’ più cattivi]”. Insomma, in questo microcosmo montanaro esistono ancora i residui di un atteggiamento clanico, compreso in un più vasto atteggiamento tribale (ma se per tribale intendiamo brigasco, esso è perfettamente giustificato dai dati scientifici). C’era un’endogamia di villaggio, ma più stabile era l’endogamia di gruppo, cioè entro il gruppo brigasco. Prendiamo ad esempio Realdo, il sistema endogamico aveva questo sviluppo: un realdese prima sposava un’altra realdese, poi – ovviamente se non trovava – una brigasca di Briga Marittima, poi una verdeggiasca o una piaggiasca; gli upeghesi erano un po’ più lontani e così i carniné e i viozenesi. Ci si sposava anche in quella fascia di villaggetti che, pur essendo abitati da Liguri, subiscono un forte influsso brigasco e sono tuttora misti, cioè Creppo, Bregalla, Cetta, Loreto, nella Valle Argentina; Bottaxina, Goina, Vignago nella Val Craviòo, e anche nell’Alta Valle Arroscia come a Mendatica, Cosio, Montegrosso Pian del Latte. Circa lo spirito di gruppo, valga per tutti questa intervista da me fatta pochi mesi fa a Piaggia, ad una donna di 76 anni:

“Ma Lei che cosa si sente, di che gente si sente?”

E mi më sent brigasca.”

“Ma Piemontese o Ligure?”

Nu, ni piemuntès ni figùn. Brigasca.”

“E che cosa pensa degli Occitani?”

Loch li sun i Ucitani?

“Sono i Provenzali, i Saorgiaschi, quelli di Tenda, delle montagne da Limone in su.”

Alura quili sun com nue.”

“Ma siete Francesi o Italiani?”

Nu, Fransisi ȓén. Italian e semm Italian. Ma Brigaschi.”

 

I Brigaschi non sono stati ancora studiati dal punto di vista dell’antropologia fisica, ma senza voler enfatizzare le loro caratteristiche, certo alcuni elementi appaiono a prima vista e consentono nella maggior parte dei casi di distinguere un Brigasco da un Ligure. I caratteri distintivi del fenotipo che colpiscono sono il naso molto alto e diritto, gli occhi da azzurro a celeste, i lineamenti fini, con stature medie e medio-alte. I capelli da castano chiaro a bruno, con assenza quasi totale dei biondi veri e propri. Le donne anziane sono sovente soggette a ipertricosi. Il cranio varia da un meso-brachicefalo alpino, forse prevalente, a un dolicocefalo con volto lungo. L’isolamento non ha prodotto una completa omogenizzazione razziale: probabilmente le componenti più antiche, quando si è formata l’etnia culturalebrigasca erano già genotipicamente eterogenee. L’endogamia quindi non necessariamente ha prodotto il perpetuarsi di tare, sia per la possibile varietà dei caratteri già esistenti, sia poiché la forte selezione naturale non le ha perpetuate. D’altra parte, le leggi dell’ereditarietà funzionano in due sensi, e se vi sono caratteri positivi come l’alto quoziente di intelligenza e l’ottima facoltà di apprendimento, anch’essi si rafforzano. Ho sentito un Ligure chiedere a un Verdeggiasco: “E cume l’è che vui savéi parlà ligure, fransése, piemuntése, e nui… nu capimmu un belin?” E ilverdeggiasco, nel suo linguaggio:

“Ȓ li è chë nue e semm ciu entelligenti de vue.” (Traduzione inutile).

La vita dura ma sana, un’alimentazione povera in grassi, carni e alcolici, ma varia in carboidrati e vitamine, hanno consentito alle generazioni che hanno vissuto nelle Valli di arrivare ad alte medie di età, con la mente lucida, con pochi casi di arteriosclerosi e qualche caso di sordità. Ma i vecchi sono tuttora delle “biblioteche viventi” alle quali ho attinto a piene mani, senza avere alle spalle pareti polverose di carte, ma camini fumosi di legni odorosi o imponenti sfilate di fasce o di larici rossi.

 

Le vicende del linguaggio

Fino al 1898 nessuno sapeva, o nemmeno si chiedeva, se “queli tanardi lasciü (quei testoni lassù, come li chiamano gli abitanti delle basse valli liguri) fossero molto diversi dalle pecore, parlassero qualche particolare linguaggio e che interesse potessero avere. Nel 1898, l’intuizione del giovane, valoroso e sfortunato Christian Garnier. Ricordiamolo: figlio di un ricco architetto, che aveva costruito tra l’altro il Teatro dell’Opéra di Parigi, laureato in geografia, era disgraziatamente affetto da tisi; il padre gli fece costruire una villa a Bordighera perché vivesse in un ambiente asciutto e sano. Gli operai incuriosivano il Garnier, giovane evidentemente molto dotato: si accorse subito che parlavano due linguaggi diversi; difatti gli uni erano Bordigotti, gli altri (o un altro) Realdesi. Il Garnier si fece spiegare i linguaggi di questi lavoratori e, senza mai essere stato a Realdo, usci con una piccola grammatica dei due dialetti. Quella di Realdo non è priva di difetti, ma in sostanza i pregi sono superiori e non è vero – come taluno sostiene – che abbia sbagliato tutto. Bisogna tener conto che la trascrizione dal realdese, come di qualsiasi altro dialetto brigasco, è particolarmente difficile, e Garnier partì dal francese. E 500 vocaboli non sono molti. Dopo Garnier, silenzio assoluto. In anni recentissimi era assioma indiscusso e indiscutibile a Genova che il brigasco fosse un dialetto ligure perché contiene i fenomeni di metafonesi di pla-bla in cia-gia: pianta-cianta;blanco -gianch. Ma già nell’81, contemporaneamente alle mie ricerche, Andrea Capano di Ventimiglia osservava con maggiore acutezza che i seguenti fenomeni sono non liguri:

a) caduta pressoché totale della vocale finale nei sostantivi maschili: ortu – ort; onmu – om; fogu – fógh ;

b) caduta della e pretonica (o sua trasformazione in semisuono muto): perüssu (pera) – prüs (io preferirei scrivere përüss);

c) esito in è del suffisso latino ariu: cravée invece di cravà.

Ma i fenomeni fonetici che distinguono il brigasco sono ancora molti e ricordano, più che il ligure, i dialetti occitani e il piemontese. Osservando poi il lessico, troviamo che scavando sempre più verso i termini desueti e arcaici, aumentano i termini occitani, dove per occitani intendiamo soprattutto quelli delle alte valli interne delle Alpi occidentali italiane, del Gavot e delle Alpi francesi, e non tanto quelli dell’Occitano “ufficiale” come il provenzale rodoniano derivato dal félibrige mistraliano. Il punto sulla situazione attuale delle nostre conoscenze (e intendo dire delle conoscenze raccolte dal nostro gruppo di studio dell’istituto Studi Transculturali) ci consente per ora, come ipotesi di lavoro, di proporre il seguente specchietto che indica l’importanza decrescente delle sue componenti:

1) Occitano; 2) Ligure; 3) Piemontese; 4) Termini di probabile formazione locale, specie onomatopeici; 5) Linguaggi del gruppo d’Oil; sia francesi che franco-provenzali; 6) Italiano letterario; 7) Francese letterario; 8) Linguaggi vari (lingue germaniche, ligure preromanzo, lingue celtiche). Nessuno nega qui l’importanza del contributo ligure, non solo nel lessico, ma in molti fenomeni fonetici. Pure il contributo più importante ligure non è, e riguarda soprattutto la parte più antica, l’agricoltura, la pastorizia, i nomi geografici e del terreno, l’astronomia, i rapporti familiari, l’abbigliamento.

Ma non ci si deve fermare alla fonetica e al lessico. La morfosintassi, appena agli inizi della sua ricostruzione analitica, mostra strutture molto originali, che non sono liguri ma piuttosto occitane, mentre affiorano forme franco-provenzali o francesi. Sono la logica della lingua che sta dietro il lessico e la sua costruzione che non sono liguri, almeno del ligure dei tempi che noi conosciamo. Saranno poi gli etimologisti a risolvere, io spero, il problema dell’origine una volta che avremo loro consegnato il materiale raccolto, per la scelta definitiva. I vari studiosi, su questo linguaggio-cerniera, hanno emesso le seguenti ipotesi: Christian Garnier (1898), (Realdo, 500 termini): “on doit donc examiner avec interêt ce patois, seul reste de la langue qui jadis domina sur un vaste territoire”, cioè “paleoligure preromanzo”; Pierre Bec (1973): dialetto ibrido sostanzialmente “piemontese” come il tendasco. Edilio Boccaleri (1982), (Carnino, 1.500 termini): non prende posizione, ma propende per una soluzione “ligure”. Andrea Capano (1983), (Verdeggia, 150 termini): non prende posizione, ma rileva i tratti manifestamente “non liguri”. Pierleone Massajoli (dal 1980), (Realdo e Verdeggia, 6.000 termini; Piaggia, 400 termini): propende per una prevalenza “occitana”, pur ammettendo forti contributi liguri e piemontesi. Roberto Moriani (dal 1979), (2.000 termini di Viozène e Upega): propende più decisamente per una soluzione “occitana alpina”. Carlo Lanteri (dal 1981), (2.000 termini di Upega): propende per una soluzione “occitana”. Werner Forner (dal 1982), studi solo fonetici: insiste sulla “liguricità” della fonetica.

Quale sia il nucleo più antico della lingua brigasca, indubbiamente ibrida e rielaborata nell’isolamento della montagna, non ci sentiamo di dire. Se, dopo aver identificato tutti i termini collegati alle radici delle lingue romanze conosciute e delle altre note, dopo aver isolato quelle parole di chiara formazione locale recente, restasse un nucleo di termini di una certa consistenza numerica (diciamo qualche decina) non collegabile a nessuna lingua nota, allora questo nucleo non potrebbe che essere paleoligure, e avremmo trovato la lingua dei mitici pastori di Monte Bego: una scoperta sensazionale. Ma questi finali a sensazione piacciono troppo a Peter Kolosimo per poter essere realistici. Abbiamo detto che non vogliamo fornire una descrizione ergologica, riservandola semmai ad altra occasione. Mettiamo in luce solo che l’ambiente ha condizionato fortemente le tecniche di sopravvivenza: dalla parte ligure le ha condizionate in modo positivo, poiché la nicchia ecologica rappresentata da Realdo e Verdeggia ha un clima di tale eccezionale mitezza che il grano veniva coltivato fino a 1.800 metri d’altitudine. Dalla parte degli altri versanti, le ha condizionate meno favorevolmente come temperatura, ma ne ha arricchito i pendìi di acque piovane, sottratte in parte alla Valle Argentina da fenomeni carsici. Nel campo della pastorizia e dell’allevamento, solo quattro erano gli animali dei Brigaschi: pecore, mucche, capre, muli (con esclusione pressoché generale di buoi, tori, maiali, cavalli). La pastorizia ovina è transumante, quella bovina estivante, quella caprina ubiquitaria. I muli servivano solo per trasporto. Lefasce strappate con secolare fatica ai monti danno ancora, seppure in misura più limitata per via dello spopolamento, eccellenti e variati prodotti come patate, porri, barbabietole, quattro varietà di ceci, lenticchie, fagioli, piselli, spinaci, cipolle, aglio, ciliegie, mele. Importantissima un tempo la raccolta delle castagne. L’artigianato produceva la lana stamegna necessaria per la fabbricazione del 90% dei capi di vestiario. Apicoltura, distillazione della lavanda, raccolta di funghi completavano i prodotti animali: latte, burro e formaggio. Ricco l’artigianato del legno, della pietra, dell’ardesia; discreto quello del ferro. Del tutto assenti concia, terracotta, intreccio, metallurgia del rame.

Salvare la cultura brigasca

Abbiamo qui brevemente esaminato alcune delle ragioni fondamentali per cui i Brigaschi possono essere considerati un gruppo a sé, una minuransa brigasca. Il problema urgente è quello di salvare una cultura minacciata dall’abbandono di certi manufatti di estremo interesse, e di fissare e perpetuare la lingua. Si stanno creando le strutture: accanto alle Pro Loco che in ogni paese hanno tenuto vive feste e tradizioni popolari, occorre qualcosa di più. Sul piano della ricerca opera il nostro Gruppo per le Ricerche Demo-Etno-Antropologiche nell’area alpina ligure-marittima dell’istituto di Studi Transculturali di Milano, di cui fanno parte già otto ricercatori. Sul piano della conservazione e tutela del patrimonio materiale e spirituale, nonché per aumentare la coesione tra tutti i Brigaschi – presupposto essenziale per le richieste che questo gruppo dovrà porre – si rende necessaria la costituzione di una Associazione delle Tradizioni Brigasche che curi il giornale in brigasco “Ȓ ni d’àigüra” e si preoccupi dei rifacimenti delle “unità” artigianali: mulino per grano, mulino per castagne, battitore di lana (follone o paraù), segheria, fornace da calce, forni, e di fondare il Museo articolato degli Usi e Costumi della Gente Brigasca. Terza fase: appoggiare i progetti di legge (sul tipo Fosson Dujany) per ottenere l’autonomia etno-linguistica entro l’ambito occitano, come già proposto nella precedente legislatura. L’etnologo dunque deve, se può, fare l’etnologo di campo: ma deve perché può essere un etnologo in campo: molti sono i modi per farlo, ma occorrono una preparazione scientifica adeguata (e non come quella delle falangi di architetti del ’68 che si erano scatenati sui costituendi “musei della civiltà contadina” come altrettante mesciunére, cavallette in brigasco), una vocazione sicura, la conoscenza dei metodi di ricerca e di rapporto umano transculturale. Salvare la cultura che si studia non è un hobby: è un impegno etico che da solo può dare la misura del valore di un etnologo.

 

Bibliografia

 

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Pierleone Massajoli, Nota su magia e stregoneria in area brigasca, in Atti del Convegno “La Strega, il Teologo, lo Scienziato”, Borgosesia, 1983

Pierleone Massajoli, Antropologia regionale: ricerche etno-antropologiche su un gruppo alpino, Milano, Istituto Studi Transculturali, 1983.

Pierleone Massajoli, Cultura alpina in Liguria. Realdo e Verdeggia (Una interpretazione etno-antropologica), Genova, SAGEP ed. in stampa.

Roberto Moriani, Upega, Carnino, Viozène, in “Novel Temp”, n. 17, Sampeyre. Roberto Moriani, Alto Tanaro: un interessante documento su Upega, in“Novel Temp” , n. 19, Sampeyre.

Amabile Ferraironi, L’alta Valle Argentina – Storia e tradizioni della zona di Triora, Isola Liri, Pisani, 1983.

Guido Pastor, Velbure, Reijure, Galbure e Cheich ren d’autrù en Bijinolu s-cetu, Pinerolo, Alzani, 1982.

Edward Neill, Tradizioni popolari imperiesi, disco della Camera di Commercio di Genova e Imperia.

Cai di Mondovì, Pietre di ieri, 1982.