I riti del supremo “momento di passaggio” a Premana, località della Val Varrone, nell’Alta Lombardia: uno degli ultimi esempi di consapevolezza collettiva dell’intimo legame e della continuità fra vita e morte, che ormai la contemporanea civiltà occidentale ha irrimediabilmente perduto.

Morte negata, “proibita”, assurda quant’è assurda la vita, rimossa dalla coscienza collettiva come elemento disturbatore rispetto alla assoluta legge del benessere e della “felicità” di massa: questi sono solo alcuni fra gli aspetti più eclatanti elaborati, in forma più o meno consapevole, all’interno della contemporanea civiltà occidentale, in cui la morte “ha preso il posto della sessualità come principale tabù”1. La ritualità connessa al supremo “momento di passaggio” dell’esistenza si delinea così secondo moduli che appaiono sempre più svuotati del loro originario valore culturale: ogni manifestazione esteriore di cordoglio e lutto è socialmente divenuta quasi riprovevole, ma non per questo risulta attenuato il trauma derivante dalla perdita di una persona cara, anzi pare che l’“obbligo” di soffrire in solitudine e di nascosto aggravi addirittura la portata e l’intensità del dolore. Il pensiero della morte, innominabile ed estromesso dalla sfera cosciente, si ripresenta dunque nella forma più distruttiva come paura ed angoscia. Ma, dove il patrimonio culturale tradizionale non è ancora stato profondamente intaccato dal processo di omologazione di pasoliniana memoria, è possibile rintracciare, al di là delle differenze in termini di azioni rituali, un atteggiamento diverso nei confronti della morte. Particolarmente significativo ci sembra, in tal senso, il caso di Premana2, località della Val Varrone, definita “isola sul monte”3 per la sua caratteristica posizione ambientale, ma soprattutto per le sue specificità linguistiche e socio-culturali che la distinguono dal resto della zona. In questa comunità, dove già la costruzione dello spazio abitativo rivela una dimensione collettiva dell’esistere e dell’operare4, la morte è ancora comunitariamente sentita come “stato di vita”: così ci diceva (nel corso di alcune interviste da noi condotte in Premana tra l’autunno dell’84 e quello dell’85, volte ad analizzare le peculiarità e le sopravvivenze dei riti di passaggio in uso nella zona) Antonio Bellati, premanese, da anni appassionato e documentato cultore delle tradizioni del luogo. Il senso della morte compenetra il quotidiano, a livello individuale e comunitario: al culto dei morti è ancora dedicata particolare cura, anche se con ritualità che si discostano per alcuni aspetti dal passato, ed emerge dalle testimonianze degli intervistati un profondo senso di accettazione della morte e familiarità con la stessa, riconducibile certo ad una consapevolezza collettiva dell’intimo legame e della continuità esistenti tra morte e vita. Questa “familiarità” con la morte – la morte “addomesticata” di Ariès5 – si pone certamente come eredità di un passato non troppo lontano, quando addirittura si portava in dote il lenzuolo di lino con cui la salma sarebbe stata avvolta e sepolta nella nuda terra. La morte veniva accettata e attesa non solo dal morente, ma dall’intera comunità, che veniva fatta partecipe dell’imminente trapasso di un suo membro tramite il suono delle campane: il “sonà l’agonìe” diventava così per tutto il paese un invito a pregare per il moribondo. Al capezzale dello stesso venivano accese, all’entrata nello stato agonico, le candele benedette che, a ribadire il concetto del legame vita-morte, gli sposi avevano acquistato durante la prima Candelora dopo la celebrazione del matrimonio: secondo la tradizione, lo spegnimento delle candele sarebbe coinciso con il momento del trapasso. È evidente in quest’uso il valore di purificazione e sublimazione tipico del fuoco “elemento di grande ambivalenza in quanto… divoratore… distruttore, ma insieme purificatore (che) libera nell’incinerazione l’anima, principio immortale”6. All’atto del decesso le candele venivano spente, le imposte socchiuse e i vetri spalancati7; i familiari procedevano alla vestizione del defunto, utilizzando generalmente l’abito migliore, quando questo non veniva donato ai poveri, “categoria di persone che rappresentano i morti vicariamente”8. Erano ancora le campane ad annunciare al paese, con un suono diverso rispetto a quello dell’agonia, l’avvenuto decesso: in particolare la morte di un membro della Confraternita del S.S. Sacramento veniva distinta con 33 colpi di campanone (i bot). Nella casa del defunto, dopo le azioni rituali sopra ricordate, ci si preparava alla veglia, momento in cui si esprimeva la condivisione comunitaria del lutto familiare. Attorno alla salma venivano nuovamente accese le candele: “la cera è simbolo di morte e di consunzione… e il fuoco che consuma e vive della cera purifica dal cadaverico e, proiettandosi verso l’alto, acquista ulteriore valore simbolico, costituendo la luce una sorta di rappresentazione del morto…”9. I soli esclusi dalla veglia erano le donne gravide e i bambini, soggetti ritenuti particolarmente esposti ad eventuali influssi del negativo. I presenti erano riuniti in cucina e, dopo la recita del Rosario, occupavano il tempo rievocando la figura del defunto, le cause e le modalità del decesso. Periodicamente qualcuno andava a controllare che nella camera ardente i ceri bruciassero regolarmente: al di là della motivazione funzionale (le candele potevano originare principi d’incendio), ci sembra possibile rintracciare in questa pratica il bisogno di garantire alla salma la costante presenza della luce, nella sua accezione simbolica precedentemente rilevata. I parenti del defunto distribuivano ad ogni partecipante una manciata di castagne lessate, elemento questo che compare anche nella ritualità tradizionale relativa alla solennità del 2 novembre. All’interno delle famiglie benestanti, in tempi più recenti, le castagne erano sostituite da una manciata di sale, accompagnata da una fetta di pane preparato per l’occasione. Rimaneva in ogni caso costante in tali distribuzioni, quasi certamente derivate da precedenti riti di commensalità, il valore socializzante per i vivi, che del resto si riproponeva anche nell’usanza del setim, consistente in un’offerta, sempre di pane e sale, entro i sette giorni seguenti alla morte. Lo scenario sin qui descritto mutava in caso di morte accidentale, sugli alpeggi o, comunque, in luoghi diversi dalla casa, spazio tradizionalmente protetto e naturalmente deputato ad accogliere l’incontro dialettico vita-morte. La morte fuori casa, la morte improvvisa “era una paura, non era nella logica del quotidiano”10: tale circostanza, temuta proprio in quanto non immediatamente collocabile in una dimensione di naturalità biologica, ispirava l’invocazione, abitualmente ripetuta durante le preghiere serali, “preservaci dalla morte improvvisa”. Così, per un eventuale decesso in un luogo altro rispetto alla casa, non era più l’abitazione del defunto ad accoglierne le spoglie, bensì una “casa comunitaria”, nella fattispecie la Chiesa di S.Rocco, spazio di per sè ricco di valenze sacrali, attraverso cui la collettività poteva meglio accogliere e reintegrare un avvenimento che esorbitava dai naturali canoni dell’esistenza. Qui la salma veniva vegliata per 48 ore, invece delle 24 che normalmente dovevano trascorrere in casa, dopo di che si procedeva alla sepoltura. Anticamente si disponeva di una sola bara (el cataléc), che serviva per tutto il paese: da essa la salma, avvolta nel telo di lino prima ricordato, veniva fatta scivolare nella fossa. Sopra la cassa era posta una coperta di proprietà della Parrocchia, più o meno bella secondo il censo della famiglia interessata, nera per le persone anziane o coniugate, bianca per i giovani o per i non sposati11. Quando morivano bambini molto piccoli, i cosiddetti “angeli”, sulla cassa si metteva una coperta bianca, adorna di fiori e nastri pure bianchi: si diceva allora che “à j sposàve” (li si sposava)12. In questi casi era anche distribuito a tutti i bambini che partecipavano alla cerimonia un piccolo cero (il candelin)13. Si ritrova anche nei funerali degli adulti la distribuzione delle candele: i familiari del defunto acquistavano i ceri in Chiesa per tutti i parenti che seguivano il feretro e poi li restituivano al termine della cerimonia. Il corteo funebre era ordinato secondo una precisa disposizione rituale: la cassa era seguita dai familiari e dai parenti, ed era preceduta dal prete e dai confratelli, se il defunto era appartenuto alla Confraternita del S.S. Sacramento, o se questa era espressamente invitata dalla famiglia. Aprivano il corteo i cosiddetti “borghesi”14, persone del paese, non legate da vincoli di parentela con l’estinto, a ribadire ulteriormente con la loro presenza la dimensione comunitaria dell’evento. Si deve sottolineare che le donne, in questa occasione, portavano sul capo un ampio fazzoletto bianco (ol strasciööl), lo stesso usato anche per accostarsi ai Sacramenti e durante la processione del Corpus Domini, mentre nelle altre funzioni sacre veniva utilizzato un fazzoletto colorato. Ritorna dunque anche qui il profondo valore simbolico del bianco: ”… colore privilegiato dei riti di passaggio, si pone all’inizio e alla fine della vita diurna e del mondo manifesto, e ciò gli conferisce un valore ideale… Ma il termine della vita – il momento della morte – è anche un momento transitorio, cardine tra il visibile e l’invisibile, e dunque è un altro inizio. Il bianco è originariamente il colore della morte e del lutto,… il colore della fase di partenza verso la morte, cioè dell’ingresso nell’invisibile…”15 Dopo la liturgia funebre, naturalmente regolata, con la sua caratteristica di rito di passaggio, dalle disposizioni ecclesiastiche, il corteo raggiungeva il cimitero, che anche a Premana anticamente occupava lo spazio circostante la Chiesa. Calata la bara, i parenti gettavano nella fossa un pugno di terra, consuetudine abbastanza diffusa, che anche qui, sulla scia del Van Gennep, può essere letta come icastico e solenne momento conclusivo dell’intero rito di separazione del defunto dalla comunità dei vivi16. Non abbiamo potuto reperire particolari testimonianze sulle modalità con cui si svolgevano i riti di purificazione della casa; è però accertato che per lavare la biancheria usata dal moribondo poteva essere utilizzata solo la lavandère da l’Acquadusc (lavatoio dell’Acquedotto), detto ’’dei morti”, che era il più lontano dal paese17. Per i parenti si apriva poi un periodo di margine, che era segnato (soprattutto per l’elemento femminile) da una serie di prescrizioni e divieti, volti a sottolineare la particolarità della condizione in cui si trovavano, costituendo essi una sorta di ”… società speciale, situata tra il mondo dei vivi da una parte e il mondo dei morti dall’altra”18. Così, ad esempio, le donne legate da stretto vincolo di parentela con il defunto erano tenute a non portare i corèj (collana di corallo a doppio giro fermata da una piastrina d’oro), che facevano parte del tradizionale costume, ancora oggi comunemente indossato a Premana, soprattutto dalle più anziane; una collana d’ambra era l’unico monile consentito, se non si voleva essere ’’segnate a dito” dalla comunità. Anche altri elementi del costume subivano, in caso di lutto, sostanziali modifiche: il grembiule, solitamente a fiori, doveva essere rigorosamente nero, così come la pettorina (pézzè), che normalmente presentava invece i più svariati ricami su fondi i cui colori seguivano quelli dei tempi liturgici. All’interno della vedovanza, in particolare, questo elemento del costume assumeva un curioso ruolo simbolico: dopo la morte del marito, infatti, la donna doveva portare per sette anni una pettorina con una fascia nera al centro (i pezzài da la conduzion) e, quando in tale fascia cominciavano ad essere ricamati alcuni fiori, la vedova si dichiarava così disponibile a nuove nozze19. Non infrequenti, infatti, erano i casi in cui si interrompeva il lutto per contrarre matrimonio, come suggerisce il proverbio: ”Ol dòloor di vèdov l’è com’ol dòloor di gombat” (il dolore delle vedove è come il dolore provocato da un colpo al gomito), perché è intenso ma di breve durata… Ma, al di là dell’ironia contenuta in simili espressioni e indipendentemente dalla durata del lutto, rimane in ogni caso fondamentale nel patrimonio culturale premanese lo spazio destinato al culto dei morti, che ha trovato e trova tuttora molteplici espressioni nella vita quotidiana. Così, sulla scia del concetto di compenetrazione morte-vita precedentemente ricordato, i defunti erano e sono sentiti come ancora presenti, in un modo così pregnante da essere definito ’’fisico”20, all’interno della comunità. Forte è il senso dell’aiuto offerto dai morti ai vivi: ad esempio, ai bambini, dopo la morte del nonno, è uso dire che ”ol nono al t’a percure”, cioè ”il nonno vigila su di te”, dove la protezione non è da intendersi come fatto generico, bensì come assistenza ’’reale”, poiché il verbo percurà indicava più comunemente le cure quotidiane prestate alle bestie. Anche in prossimità del parto ritorna l’invocazione di aiuto ai ”pòr mort”, seguita da espressioni di ringraziamento ad evento compiuto, e così pure per i molteplici eventi della vita di tutti i giorni – dal ritrovamento di un oggetto smarrito ad un pericolo scampato – si ricordano espressioni del tipo: ”L’è stà ‘l m’è barbe ch’el m’à aidà” (è stato mio zio ad aiutarmi), oppure ”Oo propio da ringrazià egl’anim dol Purgatorio” (devo proprio ringraziare le anime del Purgatorio). Se i defunti sono di aiuto ai vivi, questi però non devono ’’danneggiarli” nè dimenticarli: un tempo, infatti, quando ancora si cucinava sul camino, si raccomandava di non lasciare la catena nel fuoco dopo aver tolto il paiolo, perché ’’sulla catena c’erano le anime del Purgatorio e le fiamme non dovevano toccarla”21. Per i pòr mort ogni prima domenica del mese il sagrestano girava per le case con una cavàgne (cesta di vimini) e raccoglieva castagne e mascarpe (ricotta), che venivano poi vendute all’incanto: il ricavato era donato al parroco che officiava una messa in suffragio di tutti i defunti della comunità. Erano ugualmente diffuse forme di suffragio meno istituzionalizzate, come, ad esempio, l’offerta di latte o di sale ai poveri, nell’inconscio collettivo figure vicarie dei morti, come già ricordato. Anche quando si ammazzava il maiale, si portava la trippa (la busèche dol porscél) alle famiglie bisognose: sia chi riceveva sia chi donava lo faceva per i ’’poveri morti”. Sempre con questo intento, oggi è invece vivo l’uso di offrire agli anziani ospiti della casa di riposo locale una parte dei pranzi di nozze. Un’ulteriore testimonianza della presenza dei defunti all’interno della comunità è pure data dalla caratteristica formula di ringraziamento ’’Di’ et mente i pòor mort” (Dio ti renda merito a favore dei poveri morti), pronunciata quando, sugli alpeggi, si andava a prendere l’orç (minestra d’orzo), che una delle famiglie, a turno, cucinava per gli altri membri dell’alpe. Momento forte del culto dei morti, comunque, rimane la solenne commemorazione del 2 novembre: se le tradizioni riferite allo stretto ambito familiare (castagne lessate – früü – e acqua lasciate sul tavolo in cucina la notte di Ognissanti) vanno pian piano scomparendo, abbiamo però potuto riscontrare recentemente come ancora totale e sentita sia la partecipazione della collettività alla funzione religiosa e alla processione al cimitero, segno questo certamente, al di là del mero valore confessionale delle cerimonie, di un fondo di pietas comunitaria attorno a cui si è costruita e continua ancora oggi a proporsi l’identità del popolo di Premana.

“Fa ol setim”

L’uso di distribuire il pane in occasione della morte era a tal punto radicato nella gente di Premana da entrare, accanto alle consuete disposizioni, nei testamenti, come documentano i due atti di seguito riportati.

 

‘‘REGNO LOMBARDO VENETO

Nel nome del Signore Iddio l’anno della di Lui nascita milleottocentodieciotto alli tredici del mese di Luglio li 13 Luglio 1818 in Premana. Essendo la vitta e la morte nelle mani del Signore Iddio perciò io sottoscritto Antonio Bertoldini del fu Tadeo di Premana ed esendo sano di mente e di corpo voglio venire alla presente detterminazione di fare il mio testamento come mia sincera ed ultima volontà ho determinato tutto quanto siegue. Primo raccomando l’anima mia al Signore Iddio e alla B. V. ed a tutta la Corte Celeste e dopo che il mio corpo sarà fatto cadavere che sia portato alla Chiesa e mi sia fatto il funerale con tutto il clero del paese che si ritroverà allora ed in seguito, che sia fatto due Ufficj oltre quello della……..ed in seguito che sia celebrata quaranta n° 40 messe per l’anima mia per una sol volta e si darà soldi trenta dico 30 per cadauna più presto che dai miei eredi sarà possibile a pagare di più voglio che sia dispensato il pane alli Confratelli della fede come l’uso del paese in sufragio de l’anima mia….(etc.)”   

“….In quanto ai funerali desidero intervenga tutto il clero di Premana, e se possibile anche qualche altro Sacerdote e ordino mi siano celebrate n° 4 quattro uffici e che sia dispensato del pane ai Confratelli ed anche alle Consorelle del S. S. in Premana, come si usa in paese…(etc.)”.

(dal testamento di Nicola Pomoni, deceduto in Premana nel Maggio 1888)

 

 

Note

 

1 P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli 1978, pp. 244-273.

2 A Premana negli anni 75/79 un’équipe della Regione Lombardia ha condotto una ricerca sul campo sfociata nella pubblicazione del volume Premana – Ricerca su una comunità artigiana, Mondo popolare in Lombardia, 10, Silvana Editoriale, Milano 1979. L’opera si pone sia come analisi della tradizione orale e della cultura materiale, sia come studio dei processi di trasformazione socio- economica intervenuti negli ultimi decenni.

3 Cfr. Premana isola sul monte, estratto da Economia Lariana, maggio-giugno 1975, n.3.

4 Cfr. Il configurarsi del rapporto con il territorio e lo spazio architettonico delle forme sociali tradizionali del mondo contadino. Caratteri storici e condizioni di intervento nel presente.

Un insediamento rurale: Valsassina e Val Varrone, tesi di laurea di E. Cattaneo, E. Cerri,

L. DelTAmico, G. Panzeri, Politecnico di Milano, A.A. 77/78.

5 Cfr. P. Ariès, op.cit.

6 L.V. Thomas, Antropologia della morte, Garzanti 1976, p. 481 (passim)

7 Dell’uso, la cui diffusione in molte zone è ampiamente documentata, gli informatori intervistati hanno dato una motivazione funzionale (paura dei gatti – caldo): non ci sembra fuori luogo, però, rintracciare qui le tradizionali valenze simboliche collegate al processo di trasmigrazione deil’anima e al temuto influsso di potenze negative raffigurate nel gatto.

8 Cfr. M. Lombardi Satriani – M.Meligrana,  Il ponte dì S. Giacomo, Rizzoli 1982, pp. 99-120.

9 Ibidem, p.23.

10 Antonio Bellati, intervista del 17.11.85

11 Cfr. Agostino Ambrosioni, intervista del 17.11.85.

12 A proposito di quest’uso così recita il Dictionnaire des symboles (J. Chevalier-A. Gheerbrant, Ed. R.Laffont – Jupiter, Paris 1982, p. 126): ”il bianco è il colore della purezza: esso non è, in origine, un colore positivo atto a manifestare una qualità raggiunta, ma un colore neutro, passivo, dimostrazione solo del fatto che nulla ancora si è compiuto: tale è proprio il significato originario del bianco verginale, e il motivo per cui i bambini, nel rituale cattolico, vengono sepolti in un sudario bianco, ornato di fiori bianchi…” (trad, delle A.A.).

13 Cfr. Irene Gianola – Felicita Pomoni e altre, intervista del 13.1.85.

14 Domenica Gianola, intervista del 13.1.85.

15 J. Chevalier – A. Gheerbrant, op.cit., pp. 125-128, passim (trad, delle A.A.).

16 A. Van Gennep, I riti di passaggio, Boringhieri 1981, p.143.

17 Cfr. Il Corno, VIII, 2, Premana 1971.

18 A. Van Gennep, op. cit., p.129.

19 Cfr. A. Beilati, Le cose che ci parlano, Ed. Il Museo, p.44.

20 Cfr. A. Bellati e altri, intervista del 17.11.85.

21 Cfr. Natale Gianola, intervista del 17.11.85.