Un vivace esame della festa di Carnevale nell’antica Rus’: rito di origine pagana, legato alla terra, ricco di banchetti, mascherate, canzoni propiziatorie, giochi simbolici, processioni, risate (con lo zampino di Satana…?). In che modo lo zar Pietro I lo usò come provocazione nei confronti della Chiesa.
Le antiche feste russe erano soprattutto feste agricole legate alla terra e quindi alla natura verso cui il contadino provava nello stesso tempo soggezione e rispetto.
Egli cercava di spiegarne i fenomeni, le forze misteriose che divenivano nella sua mente forze soprannaturali, divinizzazioni; cosi il sole, la terra, l’acqua, la vita e la morte venivano personificati. Nasceva il bisogno di dominare queste forze con dei rituali e i riti furono i principali contenuti delle feste popolari.
La “Dvoeverie” nell’antica Rus’
Il culto della natura, degli avi e della famiglia era molto vivo presso i Russi e presso tutti gli Slavi.
A questo paganesimo, che generò un’infinità di esseri mitici, di spiriti dell’acqua, del bosco, della casa come le russalke, il lesij, il domovoj, forse si sovrappose anche quello scandinavo in seguito allo stanziamento nelle terre slave dei “Variaghi”, mercanti che provenivano appunto dalla Scandinavia e che si spostavano per i loro traffici commerciali dal mar Baltico al mar Nero navigando i grossi fiumi.
Dopo la cristianizzazione dell’antica Rus’,1 che avvenne nel 988, al tempo del principe Vladimir, i caratteri dei riti e dei costumi pagani si mescolarono con quelli cristiani (ci furono sovrapposizioni di nomi di certi santi con nomi di dei pagani). La Russia conobbe la Dvoeverie, cioè la doppia fede, la convivenza di paganesimo e cristianesimo, fenomeno contro cui la Chiesa lottò e che forse ancora oggi è presente nell’anima russa. In realtà fu la Chiesa stessa a far coincidere le feste religiose con quelle precristiane legate al ciclo delle stagioni, al calendario agricolo, legate cioè alle attività più importanti del lavoro del contadino, come l’aratura, la semina, il raccolto, la vendemmia.
Bliny, cibo rituale
Il Carnevale era una delle feste legate al calendario contadino, la più allegra, la seconda dopo il Natale. Si festeggiava in febbraio o all’inizio di marzo. Il nome indicava la sua antica origine: masleniza da maslo, cioè grasso fuso o burro, e che non aveva nulla a che fare con i rituali cristiani. Durava una settimana, ci si divertiva, ci si abbuffava e si beveva di tutto… “Grande”, “allegra”, “onesta”, “ricottosa”2 era chiamata la settimana grassa.
Fare grandi banchetti era tipico della festa dell’anno nuovo: mangiar molto a Capodanno voleva dire mangiare tutto l’anno, ma l’usanza di farlo smodatamente anche a Carnevale la si deve al cambiamento del calendario (1348), che aveva fatto coincidere il
Carnevale col vecchio Capodanno, che cadeva in marzo.
Dunque grandi pranzi, su grandi tavolate, su cui si succedevano un’infinità di leccornie: zuppe, arrosti, ventri di pesce, pietanze calde, fredde, pasticcini di latte cagliato, focacce di grano saraceno, panna acida, budini di frumento cotti col miele e la frutta secca, vodka cotta con le spezie ecc.
Tutto ciò doveva simbolizzare una prosperità che avrebbe portato un ricco raccolto.
“Siamo andati incontro al Carnevale,
abbiamo coperto di ricotta la montagna,
abbiamo versato grasso fuso sulla montagna,
l’abbiam fatto entrare nel cortile e dì bliny ci siamo abbuffati.”
I bliny erano uno dei cibi rituali del Carnevale. Erano frittelle rotonde, simbolo del sole, fatte di una pasta liquida molto semplice, composta di farina e di acqua che veniva versata sulle pietre ardenti. Si cuocevano tutta la settimana i bliny. Erano anche il cibo rituale del culto dei morti.
In alcune regioni il primo blin cotto veniva messo sulla finestra per i morti, in particolare per le anime dei genitori. Presso gli antichi Slavi, come anche presso gli antichi Greci e Romani, il culto dei morti era molto sentito. I morti erano sempre presenti nella vita dei contadini anche ai loro pranzi, perché secondo la loro credenza avevano la facoltà di dare alla terra, che era il loro regno, ricchezza di messi e di frutti.
Durante la settimana grassa c’era l’abitudine, in certi governatorati,3 di andare al cimitero. In genere erano le donne che avevano questo compito: andavano in gruppi portando con sé bliny e alle volte anche vodka per i loro defunti. Appoggiavano queste cose sulle tombe e si fermavano a pregare e a chiedere perdono per le ingiustizie loro arrecate. L’usanza del perdono nel periodo carnevalesco non era solo rivolta ai defunti ma anche agli amici e ai parenti.
Koljade, maschere, riso
Un’altra usanza era quella di mascherarsi e di andare sotto le finestre dei ricchi mercanti a koljadovat’, a cantare cioè le koljady. Il termine koljada deriva dalla parola latina calendae, cioè il primo giorno del mese. Era il nome di un certo tipo di canzone originale che si cantava in determinati giorni; glorificando il padrone di casa e supplicandolo, si ricevevano in cambio doni, torte, pasticcini, salami, alle volte anche soldi. Sembra che ci fossero dei riti bizantini simili trasmessi a Bisanzio dall’antica Roma (le feste dei Saturnali) e da Bisanzio agli Slavi tramite giullari e mimi.
Alcuni ritengono che koljada derivasse da kololada, che era un’antica divinità slava primaverile. Gogol ne parla in una nota al racconto La notte prima di Natale, tratto da Le veglie alla fattoria di Dikanka.
“Dicono che ci fu tempo addietro un Koljada di legno, che veniva considerato una divinità, e che da esso presero origine le koliadki. E chi lo sa? Non tocca a noi gente semplice discuterne. L’anno scorso padre Osip aveva cominciato a proibire di koljadovat’ nelle fattorie dicendo che così si fa piacere a Satana…”
I koledari che cantavano queste canzoni in genere erano giovani celibi o appena sposati; le donne non partecipavano quasi mai. Si formavano dei gruppetti che sceglievano un capo a casa del quale si ritrovavano per imparare i canti e le danze. Poi si mascheravano e si recavano di isbà in isbà a far visita e a cantare le koliady.
Le maschere rappresentavano animali, anche selvatici, come l’orso, il cervo, il bisonte (questo dimostra anche quanto fosse antica l’usanza), oppure vecchi, donne, demoni; qualcuno si sporcava semplicemente il viso di fuliggine. Queste maschere venivano preparate in casa, come pure i vestiti ricavati da abiti smessi o da vecchi pellicciotti rovesciati. Chi non era mascherato portava con sé animali: la capra distruttrice di vegetali era un animale tipico, perché simbolo di abbondanza, ma anche il cavallo e il toro.
I koledari si mettevano a cantare, a ballare, conformandosi alle maschere che rappresentavano, divenivano “terribili”, ridevano istericamente, urlavano, spaventavano le donne che fuggivano. Già l’aspetto animalesco di per sé provocava il riso.
La maschera ha origini antiche. La maschera è un volto che ricopre il vero volto dell’uomo che l’indossa e lo libera così dal suo vero aspetto e gli dà una nuova identità, un potere soprannaturale, magico, “allontanante”, lo fa apparire un mago o uno stregone. “La maschera crea una figura, è intangibile, stabilisce una distanza fra sé e l’osservatore”, scrive Canetti.4 Le canzoni dei koledari erano propiziatorie, avevano un fine purificatorio. “Quando la maschera durante determinate cerimonie agisce nel modo che ci si attende da lei, al quale si è abituati, essa può divenire rassicurante”, scrive ancora Canetti.
I koledari rappresentavano anche i morti che ritornavano a ogni stagione per portare la benedizione e la prosperità. Sembra che solo gli Slavi dessero il nome di genitori (roditeli) sia ai morti che alle maschere.
II mascherarsi era malvisto dalla Chiesa: “indossare la maschera” significava “indossare il viso del diavolo”. In un articolo di Lotman e Uspenski, Lo studio della cultura medievale russo ortodossa, si parla di contrapposizione del “sacro” al “satanico”. Al diavolo era. attribuito il mondo del riso, riso sacrilego dal momento che era proibito nell’antica Rus’ sia “provocare il riso” che “ridere”. “Cristo non rideva mai”,5 disse il pittore Ivanov a Turghenev.
Dunque da una parte la Chiesa, con le sue dottrine e le sue pratiche liturgiche, dall’altra la magia con le sue stregonerie. Questa concezione era nata con il cristianesimo.
Precedentemente, nelle feste pagane, il riso aveva la facoltà di “suscitare”, di “richiamare” la vita proprio in contrapposizione al concetto di riso proibito nel regno dei morti, perché i “morti non ridono”.
Nel mondo dell’aldilà l’uomo non doveva ridere per non rivelare di essere vivo. Nell’idea cristiana invece il mondo del riso diventa “l’antimondo” perché si trova nel mondo dei demoni. Ancora Gogol nelle sue Veglie alla fattorìa di Dikanka: “Frotte di giovani d’ambo i sessi, muniti di sacchetti, apparvero per le vie; dappertutto era un intrecciarsi di canzoni, e poche erano le case davanti alle quali non si assiepavano le comitive canore. La luna brillava in modo meraviglioso. È difficile descrivere quanto sia bello, in una simile notte, passare il tempo fra una comitiva di ragazze che ridono e cantano e di giovanotti pronti a tutte le celie e le fantasie che una notte gioiosa e allegra può suggerire. Sotto i pellicciotti aderenti fa caldo; il freddo ravviva il colorito delle guance, il diavolo in persona incita a commettere ogni genere di follie.”
Riprendendo l’articolo di Lotman e Uspenski, è interessante notare la differenza del mondo del riso, particolarmente in riferimento al Carnevale, che ne è la rappresentazione più corposa, nell’antica Rus’ e nel medioevo occidentale.
Bachtin, in L’opera di Rabelais e la cultura popolare, ci fa presente come il riso popolare si sia liberato di tutte le paure, di tutte le limitazioni morali e religiose, gerarchiche, sociali del medioevo. Inizialmente anche il cristianesimo occidentale condannava il riso (“gli scherzi e il riso non vengono da Dio ma dal diavolo”, dice San Giovanni Crisostomo).6 Anche Umberto Eco, nel romanzo II nome della rosa, trattando di questa tematica scrive: “Si parlava del riso – disse seccamente Jorge. – Le commedie erano scritte dai pagani per muovere gli spettatori al riso, e male facevano. Gesù nostro Signore non raccontò mai commedie né favole, ma solo limpide parabole che allegoricamente ci istruiscono su come guadagnarci il paradiso, e cosi sia.”
Anche se più tardi la Chiesa accettò il riso e l’allegria nelle feste popolari, queste rimasero sempre fuori dai riti ecclesiastici. Perciò il riso divenne liberatorio per l’uomo che usciva così dai valori medievali.
Incontro e addio: rito del Carnevale russo
Il riso nell’antica Rus’, invece, il riso pagano delle feste, era anticristianesimo puro, apparteneva al mondo magico e perciò satanico. In questo modo non liberava l’uomo dai valori cupi del medioevo, nemmeno durante le feste più allegre che erano pur sempre “terribili”.
Il Carnevale era rappresentato nelle canzoni come un ospite ricco, bello e generoso a cui il popolo andava incontro con gioia.
“Il nostro Carnevale annuale
è un ospite grazioso, non viene a noi a piedi,
viaggia sempre a cavallo;
che i cavallini sian morelli
e che i servi sian giovani.”
In genere i ragazzi del villaggio preparavano un fantoccio di paglia, alle volte di stracci. Gli davano l’aspetto di donna e le ragazze si divertivano a vestirlo con un sarafan.7 Gli facevano una lunga treccia che ornavano con nastrini e fazzoletti variopinti, ai piedi gli mettevano i lapti8 e in mano un blin.
Alle volte un albero rappresentava il Carnevale, ornato anch’esso di nastri colorati, oppure un pupazzo di neve; altre volte ancora un uomo vero col viso sporco di fuliggine e l’aspetto da ubriaco; accanto gli mettevano una botte su cui appoggiavano una bottiglia di vodka e delle focacce. Il pupazzo veniva messo a sedere su una carrozza ricavata da tre slitte legate insieme.
L’atmosfera dell’incontro era molto pittoresca e festosa e si organizzavano un’infinità di giochi. Uno dei più tipici era la corsa in slitta. Tutti mascherati, si correva su e giù dalle collinette con le slitte per le strade del paese, intorno alla piazza, ed erano soprattutto i giovani sposi che lo facevano. Poi, un po’ dovunque, si svolgevano gare di pugilato ed erano spesso lotte di gruppo: erano molto popolari.
Un altro gioco era quello delle altalene, che in questi giorni venivano appese un po’ dovunque: era un rito purificatorio. Pare che anche lo zar Pietro I se ne dilettasse con i suoi ufficiali. C’erano anche corse tradizionali a cavallo in cerchio nella piazza o intorno al villaggio, comunque in un tragitto circolare, a simbolo della forma del sole.
Un altro gioco molto amato era quello della cittadella di neve. C’erano due gruppi: uno doveva attaccare la cittadella, l’altro difenderla. I primi erano i cavalieri, i secondi i fanti. C’era un vero attacco alla fortezza che veniva conquistata. Anche questo era simbolico: la cittadella rappresentava l’inverno e la sua distruzione doveva servire ad accelerare lo scioglimento delle nevi e quindi l’arrivo imminente della primavera (antico rito slavo pagano). Durante la settimana grassa il fantoccio veniva lasciato in un granaio. All’ultimo giorno veniva tirato fuori e di nuovo legato alla slitta. Si preparavano i riti dell’addio. Una lunga processione di gente allegra e mascherata, alle volte con in mano una ruota infuocata (sempre a simbolo del sole), seguiva la slitta come un carro funebre. Due donne prendevano a braccetto il Carnevale e un’altra, travestita da pope, camminava davanti tenendo in mano una scarpa legata a una cordicina a mo’ di turibolo, e cosi piano piano, cantando e ballando, si giungeva al limite del villaggio.
Sembra che lo zar Pietro I avesse organizzato una processione particolarmente memorabile per la sua scenografia e per il carattere provocatorio nei confronti della Chiesa (Pietro I aspirava al distacco dello Stato dalla Chiesa). Il Gittermann ce ne riporta la descrizione nella sua Storia della Russia: “Tutti i gradi della gerarchia sacerdotale, dal patriarca al semplice pope, erano rappresentati da buffoni mascherati e talvolta lo stesso Pietro si mascherava da diacono. Lo zar e i suoi confidenti, sempreché una grande festa ne dava occasione, attraversavano in folle baldoria su circa 80 slitte o equipaggi la città” (sembra che le slitte fossero trascinate da orsi e maiali e che ci fosse un vascello con 88 cannoni che imitava il vascello “Fridmaker” inabissatosi nel marzo del 1721 nelle acque di Pietroburgo); e continua il Gittermann: “con alla testa il ‘patriarca’ e il ‘metropolita’, fino alla colonia straniera, dove poi, per lo più nel palazzo del Lefort, si svolgeva una festa di Bacco o qualche divertimento del genere. Se in queste empie mascherate il corteo era preceduto dal ‘patriarca dei pazzi’, egli aveva in capo una mitra raffigurante Bacco nudo, e in mano un pastorale decorato con statuette di Cupido e di Venere. Dietro a lui si portavano boccali pieni di vino, d’idromele, di birra, d’acquavite; invece dell’incenso si usava tabacco fumante e la benedizione veniva impartita con pipe incrociate. Un recipiente d’acquavite era formato in modo da imitare un vangelo legato.”
Questo mescolarsi dall’alto in basso di una gerarchia sociale – lo zar che si veste da buffone – lo troviamo anche nella “Festa dei folli” che si svolgeva in Francia, di cui ci parla Bachtin, ma rovesciato: è il buffone che si veste da re.
Intanto fuori dal villaggio era già stato preparato un fuoco. Siamo al punto culminante del rito funebre: il pupazzo veniva bruciato. Non era l’unico pupazzo che si faceva; se ne facevano tanti altri nel villaggio; alcuni li appendevano alle decorazioni sul tetto delle isbe, ma uno solo veniva bruciato. Poi i tizzoni venivano sparsi sui campi seminati.
“Noi il Carnevale l’abbiamo scarrozzato.
nel fosso l’abbiamo seppellito,
riposa Carnevale fino a dopo l’estate.”
Buttando i tizzoni nei campi, i contadini compivano il rito per assicurarsi la fertilità della terra, la prosperità della famiglia e del bestiame e il benessere della casa.
In questi rituali d’addio si supplicava il sole e con le risa e l’allegria si richiamava la primavera.
Ostrovskij, nella sua Fanciulla di neve, ci descrive il rito dell’accompagnamento al Carnevale in un coro di contadini:
“Cantò all’alba la gallina Che è arrivata primavera,
O Carnevale, addio!
Ci hai nutrito in abbondanza Con dolciumi e birra e mosto,
O Carnevale, addio!
Ed abbiam tanto bevuto E ci siamo divertiti,
O Carnevale, addio!
In compenso t’adornammo Di tessuti variopinti,
O Carnevale, addio!
Con onore sulla slitta
Noi t’abbiamo accompagnato,
O Carnevale, addio!
Ti portiamo ora nel bosco
Che nessuno più ti veda,
O Carnevale, addio!
O cara compagnia di Carnevale!
È allegro, quando vieni, salutarti;
È triste se vai via d’accompagnarti.
Che cosa fare perché tu ritorni?
Ritorna, Carnevale, per tre giorni,
O cara compagnia di Carnevale.
Ma se non puoi tre giorni, torna almeno Per un giorno soltanto, e se nemmeno Puoi ritornare a noi per un sol giorno,
Sia pur per un’oretta fa ritorno.
O cara compagnia di Carnevale!
O Carnevale dalla coda umida,
Perché resti tu ancora?
Passata è la tua ora!
Scendono torrenti dai monti
Riprendon vita i burroni,
Mettete fuori i carri,
Tenete gli aratri pronti;
Primavera la Bella
È arrivata, la nostra amica cara!
O Carnevale dalla coda umida,
Perché resti tu ancora?
Mettete fuori i carri, e gli alveari.
E tornino le slitte alle rimesse!
Cantiamo i canti della primavera
La nostra amica cara è ritornata!
Carnevale, addio, se ancora vivremo,
Passerà un anno ma ci rivedremo
Sia pur un anno solo, ma sapere
Che lo potremo ancora rivedere.”
NOTE
1 Rus’ era il nome della terra in cui si stanziarono e regnarono i principi Variaghi da cui derivò il nome Rossija/Russia.
2 Syrnaja: letteralmente, formaggiosa.
3 Governatorati: province in cui era suddiviso il paese.
4 Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981.
5 Vladimir Propp, Edipo alla luce del folclore, Einaudi, Torino, 1975.
6 Michail Bachtin, L ’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, 1979.
7 Sarafan: tipico vestito nazionale russo.
8 Lapti: scarpone fatte con scorza di betulla intrecciata.
Bibliografia
Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, 1979.
Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981.
Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1981.
Evel Gasparini, Il matriarcato slavo, Sansoni, Firenze, 1973.
Valentin Gitermann, Storia della Russia, La Nuova Italia, Firenze, 1973.
Nicolaj Gogol, Le veglie alla fattorìa di Dikanka, Einaudi, Torino, 1978.
Juri Lotman – Boris Uspenski, Lo studio della cultura dell’antica Rus’, da La cultura nella tradizione russa del XIX e XX secolo, Einaudi, Torino, 1980.
Novikova Kokorev, Russkoe narodnoe poetice- skoe tvorcestvo, Mosca, 1969.
Leone Pacini Savoy – Dario Staffa, Teatro russo (Ostrovskij – La fanciulla di neve), Nuova Accademia, 1960.
Vladimir Propp, Feste agrarie russe, Dedalo, Ba.
Pubblicato nel 1984 su: