testo e foto di Valerio Raffaele
Petr S., psicologo: “Pensavo di aver già vissuto la cosa più terribile che potesse capitarmi… La guerra… E che questo mi proteggesse. Una difesa contro ogni evenienza. Ma poi sono andato a Cernobyl’… Ci sono già stato molte volte… E lì ho capito che non posso nulla. Mi sto distruggendo… Laggiù il passato non mi protegge… In esso non trovo risposte… Prima c’erano, ora non più. È il futuro, non il passato, a distruggermi…”
Svetlana Aleksievic, Preghiera per Cernobyl’.
Destino ingrato quello delle centrali nucleari. Ignorate prima (alzi la mano chi conosce la loro esatta dislocazione in giro per il mondo), temute poi, quando drammatici incidenti ci spingono a stampare indelebilmente i loro nomi nella nostra mente. Lo è stato di recente per Fukushima. Lo è stato ancor di più in passato per Chernobyl. Quella che era un’anonima e sconosciuta località sorta sulle ceneri di un antico villaggio medievale, il cui nome deriva da un’erba un po’ amarognola presente nella zona, divenne tragicamente nota a tutto il mondo il 26 aprile 1986.
Sono passati trent’anni da quando, nell’allora Unione Sovietica, si verificò la più grande tragedia nucleare che la storia dell’uomo abbia mai conosciuto. All’1,23 il reattore numero quattro della centrale di Chernobyl esplose generando una colonna di fumo e macerie alta decine di chilometri. Iodio, stronzio, plutonio, cesio e altri duecento tipi di radionuclidi contaminarono l’aria e il suolo. I venti spinsero la nube radioattiva a nord, verso la Bielorussia e la Scandinavia, e a ovest, in direzione dell’Italia Settentrionale e della Francia. L’allerta sull’uso di verdure e latte si diffuse in tutto il continente. Fu la Svezia la prima a dare l’allarme dopo che rilevò pericolosi livelli di radiazioni nelle proprie foreste.
L’URSS nascose per giorni interi l’accaduto al proprio popolo e alla comunità internazionale. “Il 26 aprile si è verificato un guasto nella centrale nucleare di Chernobyl. Le autorità sono al lavoro per risolverlo. Tutte le misure di sicurezza sono state prese. La situazione è sotto controllo”. Mentre il “New York Times” usciva nell’immediato con lo “scoop” allarmando l’intera Europa Occidentale, i quotidiani di partito di Mosca riservarono all’accaduto solo brevi trafiletti, infilati nei meandri dei giornali sottoforma di freddi e rassicuranti comunicati partoriti dal Politburo sovietico.
E pensare che Chernobyl doveva essere un gioiello, l’ultimo ritrovato della moderna tecnologia sovietica. “Si può stare tranquilli”, dicevano i fisici di Stato. “Reattori simili sono talmente sicuri che possono essere installati anche sulla Piazza Rossa di Mosca”. Doveva diventare nelle previsioni la più grande centrale nucleare d’Europa. Iniziata a costruire nel 1970 sul fiume Pripjat’, un affluente del Dnipro, era una delle cinque in funzione allora nell’URSS. La produzione di energia iniziò nel 1977. Il reattore esploso era stato attivato appena tre anni prima.
I primi testimoni diretti della strage furono gli operai e i tecnici che erano al lavoro negli altri due reattori in costruzione. La cima di quello che stava bruciando assunse tinte color rosso fragola a causa della grafite in fiamme. I vigili del fuoco furono mandati sui tetti a spegnere gli incendi tra cumuli di detriti alti decine di metri. Armati di sole tute, guanti e maschere antigas, alle sei del mattino riuscirono nell’impresa di domare ogni incendio evitando così l’esplosione degli altri reattori.
Il disastro tuttavia era ormai compiuto. Fino al 10 maggio gli elicotteri fecero la spola fin sopra la centrale cercando di ricoprire con materiale di ogni tipo il reattore che fumava ancora veleni. I robot predisposti per ripulire il tetto del reattore si incepparono immediatamente a causa dell’elevata radioattività. Toccò allora ai militari effettivi e ai riservisti, ricoperti con tute di piombo da 25 chili di peso che riducevano appena della metà il rischio di contaminazione. Si alternavano in turni da un minuto, dotati di semplici pale, vanghe, scope, secchielli e stracci.
Nei giorni, mesi e anni successivi, il compito di risanare l’intera area fu affidato ai cosiddetti “liquidatori”. Eroi silenziosi, gente dai mestieri più disparati proveniente da tutte le repubbliche sovietiche: trivellatori, ingegneri, periti chimici, piloti d’elicottero. La storia forse più tragica è quella dei 388 minatori chiamati dal Donbas nel maggio 1986 per scavare un tunnel. Il loro lavoro permise di impiantare una piastra di cemento nel sottosuolo che isolò il combustibile nucleare fuso, impedendo così che filtrasse nelle falde acquifere. Il caldo era però talmente insopportabile che molti di loro lavorarono a mani nude e a maniche corte in condizioni di elevatissima radioattività. Il reattore fu infine chiuso nel “rifugio”, una struttura in cemento alta 60 metri più nota con il nome di “sarcofago”. L’unico uomo a essere sepolto lì sotto è Valerij Chodemcuk, il capo operatore della sala comando morto sotto le macerie appena dopo l’esplosione.
Chernobyl rimase in funzione fino al 15 dicembre 2000 quando, sulla spinta della comunità internazionale, l’ultimo pulsante della centrale fu spento. Oggi operano nella zona oltre un centinaio tra imprese e istituti scientifici impegnati nello studio e nella messa in sicurezza dell’intera area. Duemila operai sono al lavoro per la costruzione del nuovo “sarcofago”, alternandosi in turni di quindici giorni ciascuno. A novembre 2015 i residenti autorizzati a vivere a Chernobyl erano 162.
“La nostra storia è una storia di sofferenze”, scrive ancora nel suo Preghiera per Cernobyl’ la scrittrice bielorussa, Premio Nobel per la letteratura 2015. “La sofferenza è il nostro culto. Il nostro rifugio. Ne siamo ipnotizzati. Ma io volevo porre anche altre questioni, sul senso della vita umana in generale, della nostra esistenza sulla Terra. Ho viaggiato, conversato, preso appunti. Queste donne e questi uomini sono stati i primi… a vedere ciò che noi possiamo solo supporre. Ciò che rimane comunque un mistero per tutti. Ma saranno loro stessi a raccontarlo… Più di una volta ho avuto l’impressione che io stessi annotando il futuro”.
Quanto al passato, i numeri di Chernobyl sono impietosi. L’esplosione ha liberato polveri radioattive 100 volte superiori a quelle di Hiroshima e Nagasaki. Una superficie di 2600 chilometri quadrati, pari a quella del Lussemburgo, risulta irrimediabilmente contaminata vita natural durante. Il plutonio infiltrato nel suolo ha una “speranza di vita” superiore a 24.000 anni. Centinaia sono i villaggi bielorussi e ucraini cancellati per sempre dalle carte geografiche. Quanto alle vittime, difficile fare la conta. Perché Chernobyl non ha ancora smesso di uccidere.
Il museo degli errori
Le pareti dell’ingresso sono arredate con una serie di bei pannelli colorati. Uno di essi riporta le parole di Denis Vishnevsky, radioecologo: “Oggi Chernobyl è un mosaico di fiumi, foreste, terre basse e zone umide. Quanto all’uomo sono rare le tracce rimaste. Gli occhi di un uccello in volo sopra l’area ne può vedere solo pochi branchi: la città di Chernobyl e il Chernobyl Nuclear Power Plant, qualche villaggio che sbuca tra le strette strade sterrate. Tutto ciò occupa poco più del 10% di tutta l’area. L’altro 90% è un insieme di piante selvatiche e animali dove è bandita la presenza di qualsiasi essere umano”.
Fuori si sente un gran vociare. Poi la porta si spalanca e l’atrio è invaso in un amen da una rumorosa scolaresca in gita. D’un tratto un bimbo alza lo sguardo, incuriosito dai cartelli che pendono dal soffitto. Un altro lo imita, e poi un altro ancora. La guida inizia a spiegare e, dopo qualche minuto, l’intera combriccola sale le scale, compatta e silenziosa come un gruppo di chierichetti in servizio durante la messa della domenica. Stavo già concentrandomi sull’immagine dell’uomo-branco quando, poco dopo, la scena si ripete. La porta che si apre, il chiacchiericcio a toni alti degli scolari, gli sguardi che si sollevano e cambiano prospettiva, gli occhi attratti dallo strano gioco di luci colorate del pianterreno. E tutti che salgono poi al piano superiore con le bocche cucite.
Poco importa che gli studenti non si soffermino a leggere i pareri degli esperti. Le fotografie, i video e i reperti contenuti nelle diverse sale del Museo Chernobyl di Kiev sono più che sufficienti a destare impressione e indurre alla riflessione. Una visita qui costituisce la tappa obbligata per chiunque sia interessato a capire qualcosa di più di quel tragico 26 aprile 1986. La struttura fu aperta nell’aprile del 1992 in uno stabile di pregio di inizio ‘900 che in precedenza ospitava la caserma dei pompieri. Tre mezzi esposti all’esterno dell’edificio ricordano come i soccorsi di Kiev partirono da qui.
Salendo le scale dell’interno si leggono in alto i nomi di Buriakivka, Usiv, Leliv e di altri 73 villaggi ucraini scomparsi per sempre dalla faccia della terra. Al primo piano l’esposizione è suddivisa in tre ampie sale e disposta in modo da seguire passo dopo passo la cronologia degli eventi. L’ingresso della prima è sovrastato da un orologio marchiato CCCP – fermo alla fatidica ora dell’1,23 – e dalle diverse tute protettive indossate dai soccorritori durante i primi concitati minuti dopo l’esplosione. Le numerose teche disposte lungo le pareti contengono foto, oggetti personali, articoli di giornale, informazioni e documenti un tempo riservati. Sulla parete di fondo un diorama mostra il reattore numero 4 prima, durante e dopo l’esplosione.
Un rinsecchito albero di mele sostenuto da una culla vuota introduce nella seconda sala. Appese ai rami e sparse per terra non ci sono foglie, bensì tantissimi quadretti di famiglia prelevati dalle case abbandonate. Poco oltre un plastico ricostruisce la zona proibita che in Ucraina si estende lungo un perimetro di 196 km dei quali 162 recintati con filo spinato. Altri documenti mostrano gli estenuanti lavori che andarono avanti durante tutta l’estate del 1986. Alcune vetrine poste al centro del locale contengono i primi studi scientifici post-Chernobyl relativi agli effetti causati dalle radiazioni su animali ed esseri umani. Una di esse contiene un piccolo scheletro di maialino formato da una testa e due corpi, esempio delle mutazioni genetiche che iniziarono a verificarsi da quel momento in poi. Se prima del disastro esse erano pari all’8%, successivamente risultavano più che triplicate.
Una barca in legno con una decina di bambole sistemate sul fondo domina la scena dell’ultima sala espositiva. Una rappresentazione metaforica dell’arca di Noè salvata dal diluvio universale, recita l’audioguida, simbolo allo stesso tempo di quella regione di acque e paludi situata a cavallo tra Bielorussia e Ucraina che prende il nome di Polissya. Le foto incastonate dentro a quattro grosse lastre ottagonali, richiamo al “sarcofago” che oggi isola il reattore, ricordano i bambini nati dopo Chernobyl, incolpevoli figli di coloro che furono esposti alle radiazioni. Una serie di puntini gialli luminescenti che brillano sul soffitto mostrano la distribuzione di alcune delle 435 centrali nucleari attive nel mondo nel 2012, la maggior parte delle quali costruite negli anni ‘80. In totale sono settemila i reperti originali custoditi nel museo, tutti accuratamente decontaminati.
Dice Marina Shkvyrva, zoologa: “La zona esclusiva è per me una finestra sul passato dell’Europa. Nelle vecchie foreste, dove l’uomo non è mai arrivato, erano gli orsi e i lupi a farla da padroni. Questi sono luoghi dove l’attività umana è costretta a cedere alla natura. Dunque è questo il futuro. Se noi accettiamo il valore che rappresenta quest’area chiusa tra due grandi metropoli, possiamo capire l’importanza che essa riveste come esempio di riserva transfrontaliera in grado di coesistere con l’urbanizzazione creata dall’uomo. Una riserva con un velo di verde dove convivono lupi, cervi e tanti altri animali che camminano nella neve insieme agli orsi ritornati nei luoghi dove furono sterminati più di cento anni fa. Qui noi impariamo a capire la necessità di una giusta convivenza tra natura e società”. Una descrizione perfetta, un idilliaco quadro da quiete dopo la tempesta. Piacerebbe sicuramente anche ai giovani caciaroni che ogni giorno vengono in visita al Museo Chernobyl di Kiev.
Verso la centrale
“Lo riconoscerà sicuramente”, aveva scritto Natascia dell’agenzia viaggi prima di partire. In effetti la scritta “Chernobyl missiles, tanks” ben visibile sul portellone laterale non lascia spazio ad equivoci. Saldo la mia quota e prendo posto sul minibus sedendomi al primo posto vicino al finestrino. Pochi minuti dopo le otto la comitiva che ha optato per l’uscita di due giorni a Chernobyl lascia la centralissima Piazza Maidan di Kiev.
Fortuna vuole che per la prima volta dal mio arrivo un tiepido sole abbia riversato sulla capitale ucraina dei generosi raggi luminosi. Non è un dettaglio da poco visto che in caso di pioggia, mantella impermeabile a parte, l’abbigliamento che ho scelto per la “visita” non è proprio dei migliori. Soprattutto per le calzature, due scarponi ormai usurati e rotti lateralmente con la suola del sinistro che inizia già a ballonzolare sotto la pianta del piede. Fossi al loro posto, con l’imminente “missione” di calpestare una terra da cui l’uomo è praticamente radiato, sarei fiero di questi ultimi memorabili passi. Nel tentativo di infondermi un poco di sicurezza ho infatti deciso che al rientro a Kiev le spesse nonché eroiche suole gommate finiranno in qualche cestino della spazzatura in compagnia di tutte le calze indossate. Tutti sacrificati sull’altare della causa, infilzati come agnelli innocenti nello sciocco ma utile spiedino della scaramanzia.
Pasha, l’autista, si è prodigato fin da subito al nostro servizio. Come da volantino che ci ha distribuito, ecco il minuzioso elenco delle direttive da seguire: pantaloni e maglie tassativamente a maniche lunghe, possibilità di camminare solo laddove è permesso, seguire pedissequamente le istruzioni della guida. Nella “zona esclusiva” è inoltre strettamente vietato: raccogliere e tenere con sé qualsiasi tipo di armi; bere liquori e assumere sostanze stupefacenti; mangiare, bere e fumare all’aria aperta; toccare qualsiasi struttura, nonchè la vegetazione; portare fuori dalla zona oggetti o esseri viventi, cani e gatti compresi; bere acqua da fontane e fiumi; entrare all’interno delle palazzine. Ogni volta che si uscirà dalla zona si verrà sottoposti al controllo del livello di radioattività e, qualora questo eccedesse la normalità, vestiti, scarpe e oggetti personali saranno sottoposti alla procedura di decontaminazione.
Una bella dose di raccomandazioni insomma, quanto basta per instillare qualche dubbio anche al più spregiudicato dei turisti. Ma niente paura, perché un altro foglietto fornito dal buon Pasha ci informa che passando una giornata a Chernobyl si assumono livelli di radiazione 220 volte superiori a una merenda a base di banana, due volte inferiori a quelli di una lastra ai denti, dieci volte in meno di un viaggio aereo fino a Toronto. E che una dose fatale è pari a 8 milioni di micro Sievert – contro le 2,2 unità che mi appresterei ad assumere – e che 5 minuti dopo l’esplosione il livello di radioattività presente nel cuore del reattore era di ben 25 milioni di micro Sievert.
L’addestramento – diciamo così – prosegue durante il viaggio con la proiezione di una serie di documentari d’epoca della ABC News di Washington con tanto di musiche incorporate in perfetto stile Armageddon. Le immagini ci riportano ai dosimetri sistemati accanto ai tronchi di un ignoto bosco svedese, a vecchie foto sfocate dalle radiazioni, all’evacuazione di Pripjat’, alle dichiarazioni di Michail Gorbaciov, alle testimonianze degli adulti di oggi un tempo bambini. Il tutto condito da un gran parlare di rem e rontgen, in un glossario di unità di misura fino ad allora sconosciuto.
Le voci del passato si mescolano lungo il tragitto ai paesaggi del presente, in una perfida e casuale miscela di suoni in bianco e nero e immagini a colori. “Non c’era da farsi domande, dovevo andarci e basta”; le donne di un invisibile villaggio vendono enormi vasi di miele. “Combattevamo contro un nemico invisibile”; della legna da ardere è ammucchiata sulla strada. “Le radiazioni invasero i cieli della Corsica”; una lapide spunta da un crocicchio. “Prego che il sarcofago non collassi mai, dentro ci sono migliaia di tonnellate di veleno”; delle galline garibaldine beccano imperterrite al limitare degli steccati.
A televisione spenta la trepida attesa di tutti si traveste di silenzio. Oltrepassata dopo chilometri di foresta vergine la cittadina di Ivankiv, ecco l’indizio che aspettavamo con ansia: il cartello con l’indicazione “Chernobyl”. Sullo sfondo lo sbuffo di una ciminiera. Poi ancora pini e betulle, betulle e pini fino a che il nastro di asfalto si allarga all’altezza del check-point di Dityatki, a trenta chilometri dalla centrale. Due grossi autobus con targa ucraina sono già fermi davanti a noi. Tra i tanti turisti in attesa, due sembrano dei marziani. Sono ricoperti dalla testa ai piedi con un completo bianco impermeabile. Parola loro, a prova di radiazioni.