foto di Roberto Cornacchia

Quando si entra in un camposanto ci si aspetta di trovarsi di fronte a fredde tombe di marmo, persone vestite di scuro in atteggiamento sommesso di cui ti accorgi solo per lo scricchiolio dei loro passi sulla ghiaia; al limite – se ti trovi in un cimitero monumentale come quello di Staglieno – grandiosi mausolei e fastose cripte di famiglia. Non qui a Sapanta, un piccolo villaggio agricolo del distretto romeno del Maramures, nella Transilvania settentrionale che lambisce il confine con l’Ucraina.
Il cimitero – che sorge attorno a una chiesa com’è tradizione nei Paesi di religione cristiana ortodossa, e non in una zona più o meno periferica come capita spesso da noi – è famoso per le tombe dalle croci di legno scolpite in stile naïf e dagli accesi colori. La particolarità che distingue questo camposanto dagli altri, anche della stessa zona, è l’approccio scanzonato con la morte… da sempre argomento solenne se mai ce n’è uno nel Vecchio Continente.
Secondo alcune teorie, la leggerezza nel trattare questo tema deriva dalla cultura dei daci – popolo di origine indoeuropea che stanziava in queste terre prima che fossero conquistate dagli antichi romani – i quali credevano nell’immortalità dell’anima e ritenevano la morte un momento di gioia, al punto da considerare il funerale come una festa, l’ultima alla quale il deceduto prendeva parte prima di iniziare una vita migliore.
La definizione di “allegro” si deve al fatto che le tombe riportano, a volte in chiave umoristica, fatti relativi alla vita del defunto, anche se in realtà la maggior parte delle descrizioni sono più didascaliche che divertenti. Per gli uomini quasi sempre viene indicata la professione (agricoltore, mugnaio, boscaiolo, autista, impiegato, militare, musicista…) oppure altri fatti caratterizzanti come l’essere emigrato all’estero. La donna invece viene quasi sempre raffigurata come un angelo del focolare, intenta nelle varie attività di casa, mentre cucina, tesse o ricama, a seconda delle preferenze della cara estinta.


Un altro tema utilizzato di frequente è la causa del decesso, non senza particolari cruenti: si vedono parecchi incidenti stradali, uno che finisce sotto le rotaie di un treno, un altro con una gamba sotto una ruspa, perfino un pastore cui hanno sparato alle spalle e che poi è stato decapitato.
Non manca nemmeno la volontà di fustigare certi comportamenti riprovevoli, come nel caso di un uomo che alzava troppo il gomito, emblematicamente raffigurato in osteria. Sopra la scena compare una colomba nera a due teste, simbolica ammissione che i parenti erano consci della condotta non irreprensibile del proprio defunto e temevano che potesse essere giudicato non meritevole del Paradiso.
Altre volte lo sguardo è più pietoso, come quello che traspare dalla croce più enigmatica, almeno per me: quella in cui appare una ragazza a seno nudo e con ali d’angelo, guardata con concupiscenza da due uomini. L’epitaffio, che sono riuscito a farmi tradurre, non svela molto sulla vita della giovane: fondamentalmente esprime parole di nostalgia per i genitori e chiede alla sorella di prendersi cura della sua tomba. L’immagine fa pensare che la sfortunata fosse una spogliarellista o che si dedicasse alla più antica professione del mondo.
Vi è pure un bastian contrario, o forse più semplicemente il più ricco del villaggio: lo deduco non dal suo epitaffio ma dal fatto che la sua tomba è di marmo nero, l’unica in tutto il cimitero.

Legno e sregolatezza…

Lo scultore non avrebbe potuto realizzare un’opera così complessa senza essere lui per primo completamente immerso nelle tradizioni locali. Attraverso le storie delle vite di queste brave persone – più o meno sfortunate, protagoniste di esistenze più o meno ordinarie – si trasforma in narratore, tratteggiando in maniera sorprendentemente efficace la società del tempo e uno stile di vita ormai in via di estinzione (nonostante il Maramures possa essere considerato, a ragione, una delle ultimissime zone d’Europa a resistere alla modernità).
Oggi però traspare il desiderio di cavalcare a scopi turistici la crescente popolarità di questo luogo, ormai conosciuto anche fuori dai confini,. Nei pressi del camposanto ci sono alcune bancarelle con gli immancabili souvenir; e i visitatori, seppure ancora in netta minoranza rispetto ai locali (almeno nel periodo in cui l’ho visitato io, a ridosso della Pasqua Ortodossa, quando si tende a rendere omaggio ai defunti), sono in aumento.
L’incolpevole artefice di questa crescente popolarità è lo scultore Stan Ioan Patras. Nato in una famiglia di artigiani del legno, iniziò a scolpire a 14 anni, ma in principio le sue produzioni più richieste furono i monumentali portali scolpiti, tipici di questa terra dalla forte connotazione rurale. A 26 anni, nel 1935, cominciò a realizzare le croci lignee per i cimiteri in quello che sarebbe poi diventato il suo stile inconfondibile: ricavate da legno di quercia, sormontate da un piccolo tetto e,  per renderle impermeabili alla pioggia e quindi più resistenti nel tempo (solitamente le croci negli altri cimiteri sono di legno grezzo, quando non di metallo), dipinte con un particolare tono di blu-azzurro, un colore che alcuni ora chiamano “blu di Sapanta”.
Dapprima venivano riportati solo il nome, l’età e l’occupazione dei defunti, mentre le decorazioni riprendevano i motivi geometrici e floreali tradizionali, come quelli dei portali di legno, dei tappeti o delle stoffe, oppure simboli sempiterni come il sole e la luna. Pian piano, Patras cominciò ad aggiungere epitaffi, dapprima di poche righe poi sempre più lunghi e complessi. Aumentarono anche i colori utilizzati, anche se mantenne sempre il blu come colore dominante.

cimitero sapanta patras
Stan Ioan Patras in un’immagine di repertorio.

Una novità molto importante fu l’aggiunta del ritratto in bassorilievo e, in seguito, di scene che raffiguravano la vita del deceduto, cosa che non si era mai vista prima nelle croci lignee tradizionali. A dargli lo spunto potrebbero essere state le colonnine con il Cristo o la Madonna che costellavano le campagne del Maramures, o forse i cimiteri cittadini che riportavano le foto dei defunti. Qualunque sia stata la scintilla che gli fece venire l’idea, Patras finì con l’offrire ai suoi compaesani – i quali difficilmente potevano permettersi una tomba “moderna” con la foto riprodotta su ceramica – la possibilità di distinguere il proprio caro.
Lo scultore realizzava la croce dopo aver parlato con i parenti che la commissionavano, e a volte aggiungeva il suo tocco umoristico; ma non di rado erano gli stessi congiunti a dettare l’epitaffio desiderato… con risultati spesso ancor più dissacranti. Del resto il paese era ed è tuttora piccolo, poco più di 3000 anime: tutti si conoscevano, e chiunque avrebbe riso sotto i baffi nel leggere un epitaffio che avesse descritto uno scapestrato come una persona tutta casa e chiesa. Pare infatti che le maggiori difficoltà creative Patras non le incontrasse tanto nel celare la verità, quanto nel differenziare i racconti di vite assai simili tra di loro, in un luogo e in un tempo in cui le professioni erano sempre le solite e le singole esistenze raramente si distinguevano dalla media.
Gli epitaffi sono immancabilmente scritti in prima persona e al tempo presente, come se le parole scolpite stessero tuttora uscendo dalla bocca del defunto, interrotto ma non zittito dalla sopravvenuta morte, quasi un invito a soffermarci qualche istante sulla storia della sua vita.
Le opere di Patras piacquero talmente da indurlo ad assumere svariati apprendisti per far fronte a tutte le richieste, senza contare che dopo una decina di anni le tombe andavano ridipinte perché non sbiadissero troppo a causa degli agenti atmosferici. Scomparso nel 1977, egli ha realizzato circa 800 lapidi lignee in 43 anni di attività e ha lasciato un discepolo, Dumitru Pop, che ne segue le orme e ha trasformato la casa di Patras in un museo.
La tomba del suo creatore non poteva che trovarsi nel cimitero di Sapanta, in un “posto d’onore”, vicino all’ingresso della chiesa: un meritato riconoscimento a chi ha saputo adattare abilmente la grande tradizione locale della lavorazione del legno, rendendola attuale.

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Săpânța è una cittadina del distretto romeno di Maramureș, nella regione storica della Transilvania. È di lingua prevalentemente romena, con minoranze magiare e ucraine.