Sappiamo che la popolazione curda del Rojhilat, il Kurdistan sotto amministrazione iraniana, detiene il record non invidiabile del maggior numero in percentuale di giustiziati del pianeta. Per non parlare di quelli morti sotto tortura. L’ultimo episodio di cui si è venuti a conoscenza riguarda Mahsa Amini, una giovane donna di origine curda arrestata a Téhéran perché non portava correttamente il velo (hijab) e deceduta dopo tre giorni di coma.
Sappiamo anche che in Turchia molti prigionieri politici curdi (e anche turchi della sinistra rivoluzionaria) vengono letteralmente spinti al suicidio. Pare che al rientro in cella dopo aver subìto la tortura talvolta trovino un cappio già appeso… e in certe situazioni anche il suicidio può apparire preferibile ai maltrattamenti e alle umiliazioni a cui vengono sottoposti.
Ma, almeno formalmente, in Turchia la pena di morte era stata interdetta. Verrebbe ora arbitrariamente reintrodotta nei territori curdi del nord della Siria invasi da Ankara (come ad Afrin, sotto occupazione turco-jihadista ormai da quattro anni).
Il tribunale militare di Azaz ha condannato alla pena capitale il ventiduenne curdo Hisên Yusif, sequestrato circa un anno fa da membri dei servizi segreti turchi (MIT). Contemporaneamente, almeno quattro dei suoi familiari sono stati condannati a pene variabili dai 24 ai 20 anni di carcere. Per tutti l’accusa è di essere stati in contatto con la precedente amministrazione autonoma.
Tuttavia, nonostante la repressione, nel Rojava la resistenza delle popolazioni non appare ancora annichilita. E non solo la comunità curda, ma anche gli armeni si organizzano per l’autodifesa. In particolare le donne.
Il 31 agosto – a 107 anni dal genocidio armeno – decine di delegate si sono riunite a Hassaké, nel Rojava, per costituire il consiglio delle donne armene del nord e dell’est della Siria. Come ha dichiarato, in un’intervista diffusa dall’agenzia di stampa Mezopotamya, la portavoce Anahit Qesebiyan, “prima della conferenza erano state organizzate un’ottantina di riunioni in varie località allo scopo di raggiungere tutte le donne armene della regione”. Ovviamente non erano mancate le difficoltà a causa dei “continui attacchi aerei della Turchia”. Ma questi “non hanno potuto frenare il nostro entusiasmo”, come ha confermato l’ampia partecipazione delle delegate (oltre 150), provenienti sia da Dêrîk sia da Aïn Issa e Raqqa.
Anahit Qesebiyan ha ricordato come, a oltre un secolo dal genocidio, le conseguenze di quei massacri siano ancora visibili. Per esempio, “durante la preparazione del congresso abbiamo toccato con mano l’elevato grado di alterazione culturale e linguistica che permane in molte donne armene. Donne che da anni vivono in comunità arabe, curde, assire, in contesti patriarcali e sotto l’influenza del regime”.
L’intento è quello di “riportare queste donne alle loro radici culturali, alla loro lingua, alla loro storia”. In sostanza sottrarle al lungo processo di colonizzazione subìto. Ma anche “educarle all’autodifesa contro ogni genere di aggressione, sia fisica sia ideologica, per evitare che le condizioni del genocidio e del massacro delle donne in particolare si riproducano”. Da questo punto di vista, la Rivoluzione del Rojava rappresenta una fonte di incoraggiamento. “Rinforzando il nostro lavoro nell’amministrazione autonoma, vogliamo reagire sia alle conseguenza del genocidio di 107 anni fa sia a eventuali nuovi attacchi”. Con questa conferenza, ha concluso, “abbiamo mostrato agli assassini che siamo sempre pronte, in piedi contro le aggressioni”.