Capita di sentir dire, anche da militanti collaudati, che “non c’è spazio per l’ecologia quando si deve combattere, quando c’è la guerra…” (di resistenza o di liberazione sottinteso, ovviamente). Variante di un’altra discutibile, ricorrente e abusata affermazione: “In guerra non c’è tempo per la democrazia”. Un modo per ripristinare le gerarchia, l’autorità, i gradi (militari e non) rinviando la ricostruzione della democrazia a “tempi migliori”.
Certo, a volte la cosa appare anche comprensibile. Pensiamo alla battaglia di Stalingrado contro la peste bruna nazifascista… C’erano alternative “libertarie” alla durissima disciplina imposta ai soldati dell’Armata Rossa? Onestamente non saprei.
Ma altre volte apparve strumentale. Vedi il maggio 1937 a Barcellona e l’imposizione manu militari da parte di stalinisti – e, non dimentichiamolo, di qualche partito borghese repubblicano – della militarizzazione delle milizie (con la repressione di anarchici e poumisti). O in Unione Sovietica nel 1921 con l’esautoramento di fatto dei consigli (i soviet) a Kronstadt e in Ucraina; dando inizio a quella deriva autoritaria che preparava il terreno allo stalinismo.
Analogamente c’è chi ritiene che in circostanze drammatiche come quelle degli attuali conflitti mediorientali, devastanti soprattutto per le conseguenze sanitarie sulle popolazioni, occuparsi di ecologia sia un lusso se non addirittura una perdita di tempo. I combattenti per la libertà della Siria del nord e dell’est stanno invece dimostrando che non è così. Quello che viene definito il “terzo pilastro” della rivoluzione in Rojava, appunto l’ecologia, si lega profondamente alla lotta per la libertà, l’autodeterminazione, la giustizia, la convivenza e i diritti delle donne. Non solo. Mentre le società capitaliste e neoliberali ci sospingono a farci carico dei problemi ambientali più che altro con risposte individuali, come la raccolta differenziata o la riduzione dei consumi (scelte comunque doverose, beninteso), quella dei curdi costituisce una risposta collettiva e di lunga durata. Sia a livello globale, planetario (surriscaldamento, deforestazione…), sia locale. E non solo in Rojava, ovviamente.
Recentemente i combattenti curdi del Bakur (territori curdi sottoposti all’occupazione turca) avevano minacciato serie ritorsioni contro chi abbatteva alberi e foreste intorno alle basi militari turche. In questo caso appariva evidente il nesso tra la resistenza e la difesa dei boschi (gli spazi aperti intorno alle basi e alle caserme rappresentano una garanzia di sicurezza per i militari turchi). In questi giorni invece c’è stata la protesta per l’abbattimento di alcune capre selvatiche di montagna nella provincia curda di Dersim. Simili al nostrano stambecco, tali capre selvatiche (di cui alcune specie e varietà sono già a rischio di estinzione) vengono cacciate soprattutto in inverno in quanto l’innevamento rende difficoltosa la loro fuga. Tra l’altro sono considerate sacre dalle popolazioni curde alavite che vivono nell’area (fondamentale il loro ruolo nei miti del Dersim) e tentano in ogni modo di proteggerle.
I cacciatori provengono da altre regioni o addirittura dall’estero. È il caso di alcuni spagnoli che quindici giorni fa ne hanno uccise due a Kocatepe, un villaggio di Pulumur, malgrado gli abitanti avessero protestato con le autorità locali chiedendo di far sospendere le battute di caccia.
Un’altra capra risulta abbattuta il 25 dicembre nei pressi di Kozluca, altro villaggio di Pulumur; e, sempre il 25 dicembre, addirittura una quindicina nelle campagne di Cemisgezek. In questo caso i responsabili sarebbero stati dei cacciatori-bracconieri di provenienza afgana.
Contro i brutali ecocidi, dicevo, si sono alzate le proteste della popolazione curda. Coerentemente con i princìpi del Confederalismo democratico per cui solo con la totale autorganizzazione democratica della società, la completa autonomia delle donne (scontata l’analogia tra il dominio esercitato dagli uomini sulle donne e quello esercitato sulla natura) e ovviamente l’autodifesa, anche armata, è possibile stabilire una convivenza pacifica, ecocompatibile con l’intero pianeta vivente.
Un punto di vista collettivo – definito anche eco-femminista – e operante sul lungo periodo, nella prospettiva del definitivo superamento della dialettica (tradizionale o moderna) tra schiavo e padrone. Oggi in Kurdistan, domani, chissà, forse nel mondo.