Tra le varie lettura possibili dei recenti avvenimenti in Niger e dintorni (Mali, Burkina Faso…) emerge anche quella di un “nuovo ciclo di resistenza popolare anticolonialista”. Opinione legittima anche se non del tutto convincente, dato che in genere le “rivoluzioni” non si coniugano con i colpi di Stato. In genere, appunto.
Quello che invece appare come un dato certo è lo stretto legame tra i recenti sollevamenti e sommovimenti, e l’incremento, l’accelerazione dei progetti estrattivi (oltre che energetici e agro-alimentari): il cosiddetto “nuovo imperialismo estrattivo” in grado di dominare a livello globale i nuovi cicli economici e tecnologici. Diverso nella forma da quello coloniale certificato nel 1884 (con la cosiddetta “Ripartizione dell’Africa” che stabilì domini e frontiere), ma analogo nella sostanza.
Tra i protagonisti o aspiranti tali del rinnovato progetto neocoloniale troviamo, oltre a usa e Cina, l’Unione Europea e il Regno Unito.
Nel caso recente del Niger, la presenza dell’uranio (5% della produzione mondiale) ha sicuramente costituito un fattore determinante. Una produzione di tutto rispetto, per quanto non paragonabile a quella del Kazakistan (46% della produzione mondiale), ma sicuramente in buona posizione, in prossimità di quelle di Russia e Uzbekistan. Soprattutto una risorsa da cui ormai l’Esagono risulta dipendente.
Comprensibile quindi l’ingerenza francese, da sempre in grado di condizionare campagne elettorali e politiche estere delle ex colonie.
Tra i primi atti della giunta golpista ora al potere, la sospensione degli accordi minerari – e di quelli riguardanti l’uranio in particolare – con Parigi. Oltre a quelli militari (presenza di basi militari e di soldati francesi, oltre 1500).
Improbabile comunque, almeno al momento, un’invasione da parte dei Paesi occidentali – anche se la precipitosa evacuazione del personale potrebbe costituire un segnale in tal senso – ma intanto la situazione rimane effervescente.
Ugualmente non sembra doversi concretizzare, sempre al momento, la minaccia di alcuni Paesi della comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ecowas) già fautori di un intervento militare diretto. Mentre Nigeria, Costa d’Avorio, Benin e Senegal continuano a dirsi disposti all’uso delle armi, Burkina-Faso (a cui Parigi ha sospeso gli aiuti per rappresaglia) e Mali appaiono non solo contrari ma sostanzialmente allineati, solidali con la giunta del Niger. Contrari a prove di forza anche l’Algeria, il Ciad e la Guinea.
Certo, può apparire paradossale che in nome dell’autodeterminazione, della libertà, per le strade di Niamey si invochi Putin e si accusi la Francia. Ma evidentemente questo dovrebbe preoccupare soprattutto la patria dei diritti dell’uomo e del cittadino per le proprie colpe e contraddizioni (già ben individuate e condannate da Frantz Fanon).
Così come appare davvero impegnativo stabilire analogie tra i militari golpisti e quei combattenti e martiri per la libertà africana (Patrice Lumumba, Mulele, Cabral, Mondlane, Ruth First, Samora Machel, Thomas Sankara, Nelson Mandela) che entusiasmarono la mia generazione nel secolo scorso.
Ma questo è quanto attualmente passa il convento. Dovremo farcene una ragione.