Sinceramente non ho compreso l’entusiasmo con cui alcune riviste e associazioni che si occupano dell’Africa con, diciamo così, “benevolenza” (se poi sia carità pelosa o neocolonialismo ricoperto da buonismo non spetta a me stabilirlo) hanno celebrato la recente visita di Mattarella in Kenya. Dove ha confermato e sottoscritto la ripresa dei lavori per la costruzione di alcune grandi dighe nella Kerio Valley (provincia del Rift): Arror, Itare e Kimwarer.
La realizzazione di quest’ultima era stata interrotta da un’indagine che l’aveva ritenuta “tecnicamente e finanziariamente irrealizzabile”. Almeno ufficialmente. Ma si era parlato anche di mancanza di trasparenza e altre irregolarità, tanto che erano stati avviati alcuni procedimenti giudiziari per “frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione” nei confronti di pubblici ufficiali del Kenya.
Coinvolto più o meno indirettamente il consorzio di aziende italiane interessate alla costruzione, una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna e Itinera, società del Gruppo Gavio.
E in seguito anche la sace (prendo nota: società assicurativo-finanziaria italiana specializzata nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale a sostegno supporto della competitività in Italia e nel mondo) e Banca Intesa Sanpaolo, intervenute per la copertura finanziaria.
La visita di Mattarella è stata l’occasione per il presidente del Kenya William Ruto di annunciare il superamento del contenzioso con Roma, lo sblocco e la ripresa della costruzione delle tre dighe sopraccitate. Riconfermando (o forse rinegoziando) la partecipazione di aziende italiane con l’impegno finanziario della sace e di banche italiane.
Nel comunicato di Ruto e Mattarella si afferma che “il governo keniano e italiano hanno concordato un nuovo processo per appianare le problematiche […]. Sospenderemo la questione giuridica e il governo italiano da parte sua ritirerà i casi di arbitrato, siamo d’accordo che ci sarà un nuovo inizio di questo progetto, urgente e prioritario, necessario, che darà acqua a molti paesi oltre al Kenya, oltre a Baringo e zone circostanti”. Aggiungendo che “andremo poi avanti con l’avvio della costruzione nel giro di una manciata di mesi”.
Eppure sui danni sociali e ambientali provocati dalle dighe in Africa in generale (e in Kenia e in Etiopia in particolare) non mancavano certo denunce ben documentate.
Anche recentemente, nel febbraio scorso, un rapporto (Dam and sugar plantations yield starvation and death in Ethiopia’s Lower Amo Valley) diffuso dall’Oakland Institute (attivo nella difesa delle popolazioni indigene), affrontava l’annosa questione dell’impatto negativo delle grandi opere, dighe in primis, sulle popolazioni indigene. Interventi come quello nella valle del fiume Omo in Etiopia: con la diga Gilgel Gibe III (alta quasi 250 metri, costruita dalla Salini Impregilo e inaugurata nel 2016) ci si riprometteva di aumentare in maniera significativa sia la produzione di energia elettrica sia di canna da zucchero. A spese soprattutto di kwegu, modi, mursi e altre minoranze (o meglio: popolazioni minorizzate).
Già nel 2015 Survival International denunciava una possibile scomparsa dei kwegu, ridotti alla fame e nella condizione di profughi interni, vuoi per il disastro socio-ambientale, vuoi per il prevedibile accaparramento di terre (land grabbing) nel bacino del fiume Omo.
L’anno successivo era stata la sezione locale di si (Kenya Survival International) a rivolgersi direttamente all’ocse per denunciare la Salini Impregilo spa.
Tornando al Kenya, risale al 2017 l’allarme lanciato da Human Rights Watch (hrw) per l’evidente abbassamento riscontrato nelle acque del lago Turkana. Con gli altrettanto evidenti pericoli sia per l’ecosistema che per la sopravvivenza della popolazione locale.
Una conseguenza (effetto collaterale?) appunto del contestato sistema di dighe Gilgel Gibe (Gibe I, Gibe II, Gibe III; già previste una Gibe IV e Gibe V).
Sgorgando a circa 2500 metri sull’altipiano etiopico, il fiume Omo percorre ben 760 chilometri con un dislivello di 2000 metri per poi sfociare nel lago Turkana in Kenya.
È notorio che il bacino dell’Omo con il Turkana rappresentano la principale fonte di vita per almeno 17 gruppi indigeni (oltre 260mila persone) qui insediati da sempre. Ora con il faraonico sistema di dighe, gran parte dell’acqua viene deviata altrove, per la produzione di energia elettrica e per irrigare le estese piantagioni a monocoltura (circa 450mila ettari, per adesso).
Appare quantomeno contraddittorio, paradossale che le dighe di Arror, Itare e Kimwarer vengano realizzate da imprese italiane quando la carenza d’acqua in Kenya è anche una conseguenza della realizzazione di altre dighe, sempre per mano italica, in Etiopia.
Come sottolineava il compianto André Gorz (alias Gerhart Hirsch, alias Gerhart Horst): “Il capitalismo cerca il rimedio ai problemi che ha creato, creandone di nuovi e peggiori”.
Qualche problema in Kenya ed Etiopia a causa delle dighe
Ma in nome dello “sviluppo”, questo e altro…